giovedì 23 ottobre 2008

Giovani: una generazione a perdere?


“Presbyteri”
2008, 7

Giovani: una generazione a perdere?

Come una sorta di Peter Pan, non sono - sinora - riuscito ad uscire davvero dal mondo dei giovani. Qualche giorno dopo la laurea, infatti, sono tornato come docente nelle aule scolastiche che avevo frequentato da studente e, nei trentacinque anni successivi, ho anche praticato da ‘animatore’ quel volontariato culturale e sociale nel quale ero stato coinvolto da ‘animato’ negli anni giovanili. Per questo ho letto con interesse ricerche sociologiche, sondaggi, interviste che potessero farmi orientare meglio nel labirinto da cui non mi sono ancora liberato (anche perché, in fondo, non lo voglio davvero). Ma i risultati non sono stati, sino ad oggi, proporzionati alla fatica: sono fermo alla conclusione - che sarebbe banale se la maggior parte degli osservatori non si rifiutasse di condividerla - che sui giovani come ‘categoria sociale’ non c’è nulla di particolare da dire. Essi riproducono molto fedelmente le tipologie degli adulti: alcuni spiccano per serietà ed impegno, altri per idiozia e malaffare, la maggior parte ondeggia - secondo i momenti e i luoghi - tra atteggiamenti contraddittori, senza infamia e senza lode. Deludente come quadro interpretativo complessivo? Forse. Ma Wright Mills ci ha avvertito già da molti anni: la sociologia è “la penosa elaborazione dell’ovvio”. Dentro questo scenario fenomenologico d’insieme è possibile tentare delle incursioni analitiche più specifiche. Per esempio rispetto ai tre temi ‘classici’ che si dovrebbero evitare in ogni salotto bene se non si vuole correre il rischio di discussioni troppo accese: il sesso, la politica e la religione.

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Sul primo argomento appare in maniera più eclatante quanto si osserva in generale sulla società capitalistica: la trasformazione di alcune esperienze antropologiche in esercizi di consumo. Dico subito che questo processo non va demonizzato. Nelle società pre-capitalistiche mangiare è possibile come punto di arrivo di un itinerario faticoso e significativo: nei villaggi di pescatori non si consumavano frutti di bosco come nelle baite alpine non si consumavano frutti di mare. Oggi è possibile che un generale delle Finanze - grazie agli elicotteri della sua Arma - possa mangiare spigole fresche, appena pescate, nella baita alpina : e questo non mi pare un gran progresso. Ma che un Paese che produce petrolio possa scongiurare una carestia di grano, acquistandolo con i profitti del petrolio da un Paese lontano migliaia di kilometri, non mi pare altrettanto negativo. Certo, così il cibo viene trasformato in merce: ma questa de-sacralizzazione è ambivalente, non un fatto esclusivamente negativo. Così fare sesso con un partner è, per la nostra generazione (e dunque, conseguentemente, anche per la generazione che ci incalza), un’esperienza che non presenta più quel fascino, quella magia, di cui si rivestono i momenti rari, difficili da vivere. Come in un enorme, surreale supermarket, si può scegliere a quasi 360 gradi: il rapporto sessuale si può sperimentare nell’ambito di una relazione adolescenziale romanticissima come, per pochi spiccioli, a seguito di una veloce trattativa con un travestito brasiliano disponibile in ore e luoghi prestabiliti. Anche questo processo presenta aspetti ambivalenti. Da una parte non si può non salutare con sollievo la de-retoricizzazione dell’eros: è sempre più difficile che una giovane dei nostri giorni si suicidi per il tradimento perpetrato dal suo fidanzatino o che un giovane corra ad arruolarsi come soldato mercenario in Africa solo perché non ottiene in sposa una fanciulla a lungo ed invano desiderata. Tuttavia sarebbe da superficiali non constatare che questa demitizzazione dell’esperienza affettivo-sessuale, oltre certi limiti, si capovolge da fattore emancipativo in grave deprivazione : si ‘prova’ un partner, per una notte o due, così come si prova un nuovo drink al bar del pub, col grave rischio di livellare tutte le possibili relazioni sentimentali allo standard della più banale di esse. Detto altrimenti: l’inflazione di occasioni di gratificazione sessuale ne provoca la svalutazione. Ma c’è di peggio. Come ha osservato acutamente Wilhelm Schmid, l’assenza di limiti nella frequenza e nelle modalità dell’attività sessuale comporta - tra altri effetti collaterali indesiderati - la perdita di interesse per tutta una più ampia gamma di piaceri senza i quali la vita è meno “bella”: “piaceri dei sensi, vale a dire del vedere, dell’udire, dell’odorare, del gustare, del toccare e dell’avvertire qualcosa, a cui dobbiamo un godimento profondo, intimo. Piaceri dell’intelletto e della riflessione, che si attuano nella distanza dell’astrazione; piaceri del sogno e della fantasia, in cui il Sé è lontano da ogni calcolo; piaceri del ricordare, che permettono la ripetizione della vita vissuta; piaceri della lettura e della conversazione, che rendono esperibile la vita in tutto lo spazio compreso tra solitudine e socialità; piacere del ridere in tutte le sue variazioni, che mettono in vibrazione nello stesso tempo il corpo, l’anima e la mente; piaceri del semplice essere che si devono all’ozio e al vivere con placido distacco; piaceri della condizione nomade che risultano dall’incontro molteplice con altri e con altro” (La vita bella. Introduzione alla filosofia dell’arte della vita, Apogeo, Milano 2007, p. 49) Insomma, per ritornare all’angolazione di queste nostre pagine: non è che l’impegno pedagogico prioritario nei confronti dei nostri figli e dei nostri alunni debba individuarsi nell’invito a scoprire “un’arte dell’erotica in cui il piacere sessuale è solo uno tra gli altri e trova il suo senso in interazione con gli altri” (ivi)?
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Tra i piaceri che l’inflazione delle esperienze erotiche rischia di emarginare, Schmid dimentica di citare il gusto della creazione politica. Intendo, ovviamente, non principalmente né esclusivamente la intima soddisfazione per aver ideato e varato un nuovo partito o un nuovo movimento ecologico, bensì per aver contribuito ad attivare un qualsiasi progetto mirato a migliorare la polis in maniera collettiva (non meramente individuale) e duratura nel tempo (non di carattere episodico). Questo genere di gratificazione psicologica - che in anni non troppo lontani proveniva dalla fondazione di un giornaletto scolastico o della sezione locale di un’associazione animalista nazionale - mi pare sempre meno agognata dalle attuali fasce giovanili. Liquidi, per riprendere l’aggettivo caro a un sociologo che va per la maggiore, non sono oggi solo i sentimenti e le relazioni interpersonali ma, se non mi sbaglio, anche i sogni: anzi, forse, addirittura gassosi. Evaporano nel breve spazio di una settimana. Anche su questo fronte sarebbe prudente non affrettare il giudizio. Avendo vissuto da diciottenne il ‘68 - e pur senza avvertire nessun bisogno di abiurare - posso serenamente asserire che non tutto il Geist di quell’epoca merita d’essere rimpianto. Slogan come “tutto è politica” sintetizzavano modalità d’intendere e condurre la vita che rischiavano d’essere, se non sempre fanatici, almeno riduttivi. Molti ragazzi erano riconoscibili come di destra o di sinistra in base all’abbigliamento, alla capigliatura, allo slang, alle canzoni e ai film preferiti: oltre che, ovviamente, in base alle comitive frequentate. Questa forte identificazione con una ‘parte’ dello scenario politico arrivava non di rado all’odio verso il ‘nemico’: “uccidere un fascista non è reato” era, ad esempio, una scritta che campeggiava sui muri della scuola vicina al liceo da me frequentato. Che questa assolutizzazione del ‘politico’ si sia incrinata, mi pare decisamente un passo avanti nella direzione della civiltà. Ma, come spesso accade nella storia, il pendolo rischia di oscillare da un’esagerazione all’opposta, stentando a trovare un equilibrio accettabile. Se non è vero che “tutto è politica” (nel senso che la politica sarebbe l’essenza determinante di ogni attività umana, dall’arte all’amicizia, dall’economia allo svago), è però verissimo che tutto ha sempre, anche, una dimensione politica: quindi un romanzo, pur essendo un prodotto letterario e perciò da valutare con criteri estetici, è anche un contributo ‘oggettivo’ alla vita della polis. Che ne risulterà migliorata o peggiorata, raramente inalterata. Famiglie, scuole, sindacati, persino partiti hanno abbandonato ogni alfabetizzazione politica, recependo e aggravando una disaffezione disastrosa per l’umanità nel suo complesso come per la realizzazione delle singole personalità: e se fossero le chiese - le comunità cristiane - ad assumersi il compito di ri-orientare all’impegno politico? Non per capeggiare clericalmente la rivoluzione contro un assetto planetario sempre meno umano e perciò sempre meno evangelico, ma - come direbbe Hadot - per aiutare i giovani a rendersene degni. Oltre che a desiderarla.
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Se le chiese, come per esempio hanno fatto il cardinale Martini a Milano e p. Sorge a Palermo, si intestassero delle iniziative di formazione etico-politica, sarebbe possibile più di un equivoco. Il più grave: usare queste iniziative di formazione come strumento per attirare nei recinti ecclesiali dei ‘greggi’ giovanili distratti da pascoli sempre più lontani. Non c’è niente di più ingiusto (in sé) e di più controproducente (negli effetti) che adottare cinicamente dei ‘valori’ - come lo sport o il cinema o il volontariato sociale - non perché gli si riconosce l’impronta di Dio, ma per usarli come trappole per topi. Non so se vale anche per le generazioni successive, ma certamente la mia generazione è rimasta sconcertata dalla strategia clericale (i preti che non l’hanno praticata sono delle sparute minoranze) di sfruttare le esigenze adolescenziali di socializzazione e di divertimento a scopi di evangelizzazione. Mi sembrerebbe giunto il momento di invertire la prospettiva: offrire occasioni di crescita umana perché sono occasioni intrinsecamente preziose e, in momenti chiaramente distinti, offrire - a chi le accogliesse volentieri - anche delle occasioni di evangelizzazione. In modo che senza ipocrisia si proponga - e senza ipocrisia si possa accettare - di integrare la propria ricerca di senso con le luci del vangelo di Cristo. Farei un esempio - so bene quanto opinabile, quasi provocatorio - tratto dalla cerchia delle mie conoscenze. Due o tre presbiteri accettano, se richiesti dagli sposi, di giocare il ruolo di testimoni in celebrazioni ‘civili’ del matrimonio: in modo che sia chiaro che certi valori antropologici (l’amicizia, la gratitudine, la simpatia, la solidarietà in progetti sociali, la condizione di colleghi negli ambienti di lavoro…) custodiscono un significato intrinseco, anche fuori dall’ottica prettamente religiosa. Se poi, tre o quattro giorni dopo, gli stessi sposi decidono di ricambiare la visita e si recano alla celebrazione eucaristica domenicale del loro amico prete, questi non esercita nessuna forzatura se dedica agli ospiti un pensiero nell’omelia o una preghiera particolare. In questa logica di rispetto degli ambiti e delle competenze, personalmente vedrei - da laico - con molta convinzione l’eventuale decisione di un parroco di offrire dei corsi di preparazione al matrimonio a due marce: in cui, intendo, si distinguessero senza ambiguità le tappe di formazione medica, psicologica, etica dalle tappe di formazione teologica, sacramentaria. In questo modo, infatti, si avrebbe un duplice vantaggio: i fidanzati cattolici, davvero credenti e sinceramente osservanti, riceverebbero (come già avviene in alcuni casi) un sostegno per costruire le basi antropologiche della loro avventura matrimoniale di segno confessionale, mentre i fidanzati non cattolici, né credenti né ancor meno osservanti, non sarebbero abbandonati a sé stessi ma potrebbero ugualmente prepararsi al loro matrimonio ‘civile’ (come di solito non avviene) senza essere costretti ad accettare o a rifiutare in blocco un ‘pacchetto’ di formazione sia antropologica che teologica. L’ipotesi appena disegnata, al di là del caso concreto, mi serve per sostenere una tesi generale: distinguere quanto più nitidamente possibile evangelizzazione da altre offerte di promozione dell’umano comporterebbe maggiore libertà per l’annunzio del messaggio di Gesù e maggiore rispetto per le altre proposte formative. Sto forse proponendo scissioni dualistiche fra cielo e terra, fra Spirito e ‘carne’, fra eternità e storia? Se fosse questo l’esito dei miei ragionamenti, preferirei si tornasse alla mistura attuale in cui, come in un’insalata improvvisata la sera dalla massaia, c’è un po’ di tutto senza andare troppo per il sottile. Ciò che propongo è una distinzione che non solo non presuppone nessuna separazione - né ancor meno opposizione - fra vangelo e cultura, ma che anzi intravede nello sfondo l’intima sinergia fra ciò che è autenticamente evangelico (dunque scevro dalle superfetazioni secolari dei due millenni successivi) e ciò che è autenticamente umano (dunque scevro dalle mode passeggere che tendono ad esaltare ossessivamente ogni pur preziosa scoperta). Distinguere per unire era il motto di Jacques Maritain: ma l’unitarietà di certe apparenti polarità va guadagnata come punto di arrivo di una ricerca libera, faticosa e in non pochi casi rischiosa (come, ad esempio, la ricerca di Eugen Drewermann), non certo imposta dogmaticamente e pregiudizialmente. Sono talmente convinto che la vera fede non cancella ma presuppone il meglio della vera vita umana (al di là delle applicazioni discutibili, mi pare questa la grande lezione di san Tommaso d’Aquino), che non riesco ad immaginare altro criterio della propria esperienza personale come della propria (eventuale) pastorale se non il pascaliano: è la ragione che ci può dire quando è il caso di andare, con la fede, oltre la ragione. Un prete che è stato molto importante per la mia formazione giovanile - e che purtroppo, nel corso degli anni, non è rimasto all’altezza delle sue stesse convinzioni - ha chiamato questa impostazione evangelizzatrice “il metodo della consapevolezza”. Dunque un metodo che, nell’assoluto rispetto della libertà personale, promuovesse - ad un tempo - conoscenza, riflessione e confronto. Conoscenza delle grandi proposte sapienziali dell’umanità (dalle religioni orientali alla filosofia greca, dalla poesia medievale ai grandi romanzi europei dell’Ottocento) e, ovviamente, della proposta ebraico-cristiana in tutte le sue poliedriche sfaccettature: bibliche, storiche, teologiche e filosofiche. Riflessione: gusto di ritornare sulle proprie conoscenze per valutarle criticamente, cercarne i possibili nessi, immaginarne le logiche conseguenze operative. In un’attitudine al raccoglimento, al silenzio meditativo, ugualmente lontano dall’attivismo spasmodico ed emotivo quanto da un intellettualismo cerebrale che moltiplica le informazioni con ingordigia bulimica. Confronto: desiderio di dialogare con gli altri non a scopo puramente apostolico ma nel sincero intento di sottoporre le proprie idee a conferme o smentite. E sulla base dell’ancor più radicale convinzione che nessun mortale - e nessuna istituzione, neanche ecclesiastica - può vantare il monopolio della verità: ciascuno può aspirare, al massimo, a possederne un frammento o, sarebbe più preciso, ad esserne conquistato. Non è il caso di aggiungere che, essendo il vangelo una proposta esistenziale, nessun “metodo della consapevolezza” potrebbe dare frutto se non fosse accompagnato dalla preghiera, anche silenziosa, che domanda luce; dall’ascesi, meno appariscente possibile, che cerca l’autocontrollo delle proprie pur legittime passioni e la sobrietà nei consumi e la relativizzazione del proprio bisogno di riconoscimento sociale; dall’accettazione rischiosa di esperienze sentimentali esaltanti o angoscianti, ma in ogni caso capaci di rompere il guscio dell’autoreferenzialità farisaica; e, soprattutto, dall’impegno concreto, costante e collettivo - in una parola ‘politico’ - nel cantiere sempre aperto per un’umanità meno lacerata dallo sfruttamento dei più deboli ad opera dei più forti (singoli individui o organizzazioni istituzionali che siano). Non mi è difficile immaginare lo sconcerto del lettore: ma se evangelizzare implicasse tutto questo, chi ne avrebbe il tempo e soprattutto le risorse mentali ed interiori? Capirei benissimo il senso dell’obiezione, ma non mi pare che ci siano molte scorciatoie praticabili. Posso solo aggiungere due precisazioni. La prima è che certi modelli ‘utopici’ vanno tenuti presenti come méte verso cui tendere, anche sapendo che nessuna persona in concreto sarà mai capace di adeguarsi al 100% . L’imperfezione fa parte del nostro impasto creaturale: siamo chiamati non ad eliminarla, ma ad evitare di usarla come alibi ideologico. La seconda precisazione è che nessuno - battezzato o religioso consacrato o presbitero ordinato - dovrebbe essere abilitato ad evangelizzare se è un povero mediocre contento della propria mediocrità. I giovani di ogni epoca - e non ho motivi per supporre che i giovani della nostra facciano eccezione - sono disposti a confrontarsi con le personalità più problematiche, anche più ostiche: ma non con i soggetti ridicoli. La preoccupazione ecclesiale di reclutare presbiteri - in numero adeguato a compensare la scarsezza di ‘vocazioni’, la scomparsa dei preti anziani e le dimissioni spontanee di preti in ‘crisi’ - sta comportando un abbassamento del livello medio del clero: giovani (sì, giovani: c’è anche questo sottogruppo da considerare all’interno della più ampia fascia generazionale) seminaristi vengono avviati all’ordinazione solo perché esenti da vizi plateali e, per giunta, in non pochi casi, ‘bonaccioni’ e ’simpaticoni’, senza preoccuparsi di cosa hanno sperimentato della vita e di cosa ne hanno capito. Giovani ‘presbiteri’ : l’ossimoricità dell’espressione non viene più neppure notata. Ma in epoca di secolarizzazione, se il prete non è visto come una figura investita di doti magiche a prescindere dai carismi personali effettivi, perché la gente - anziana o giovane - dovrebbe cercarlo per chiedere consiglio o anche solo per confrontarsi? Il venticinquenne ‘medio’ ha oggi un patrimonio di conoscenze e di esperienze, anche attraverso soggiorni all’estero o partecipazione agli appuntamenti di movimenti internazionali, molto più ricco e variegato del suo coetaneo che regge una parrocchia: perché dovrebbe riconoscergli una autorità ‘oggettiva’ di cui non percepisce nessun segno visibile? Ecco una delle ragioni per cui la pastorale cattolica sperimenta sempre meno i contrasti e sempre di più un’indifferenza che è tentata di scambiare per consenso silenzioso. In campo religioso - ancor più che nell’ambito della vita sessuale e della vita politica - la cifra dominante mi pare l’omologazione disincantata. Uno studioso ancora abbastanza giovane lo ha scritto di recente a proposito di tutti i cattolici, ma propenderei a pensare che si tratta di una rappresentazione ancora più realistica se circoscritta alle generazioni più recenti: “non si adeguano nella prassi ai dettami della chiesa, ma nemmeno li contestano. Non è esatto dire che non li condividono: piuttosto li ignorano senza discuterli (…). Stanno buoni, glissano, non sollevano problemi, praticano l’ossequio nei confronti delle gerarchie, e intanto si regolano come gli pare. Insomma, si disinteressano delle questioni di verità” (così Edoardo Lombardi Vallauri, figlio del più noto filosofo del diritto Luigi, nel suo Capire la mente cattolica, Le Lettere, Firenze 2007). Le ultime parole della citazione toccano un ganglo nevralgico: bisogna cavalcare strumentalmente questo “disinteresse” o non piuttosto provare a ribaltarlo? Rimettere al centro della scena le “questioni di verità” non sarebbe per la chiesa cattolica impresa da poco: significherebbe rinunziare a fare del cristianesimo uno dei possibili prodotti da scegliere alla fiera in base a gusti soggettivi e mode collettive; dunque, prima ancora, significherebbe rinunziare a spacciare come ‘vere’ delle credenze dogmatiche o delle norme etiche che tali non sono né alla luce della fede biblica né alla luce della ragione. Non sarebbe troppo rischioso per la sua strategia pastorale, adusa da secoli ad offrire - anche - “nobili menzogne” se si percepisce che sono richieste dall’opinione pubblica moderata e influente? Indubbiamente, nel breve periodo, sì. Si tratterebbe di remare contro la corrente dominante che svaluta il senso critico e deride le intelligenze. Ma, a parte il dovere di fedeltà - da parte del magistero - verso un Maestro a cui un evangelista ha attribuito come identikit di essere “Via, Verità e Vita”, ho un sospetto che tendo a fondere con una speranza: che nel lungo periodo il seme della verità finisca, alla fine, per prevalere sulle furbizie e sulle pigrizie. Forse non è abbastanza per dare una mano ai giovani di oggi, ma potrebbe dimostrarsi prezioso per i giovani dei prossimi decenni.

Augusto Cavadi

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