“Centonove”
venerdì 7 novembre 2008
MORIRE COME UN CANE O COME UN CATTOLICO OSSERVANTE?
Il caso di Eluana, la ragazza in coma da 16 anni per la quale il padre ha chiesto - ricevendo il conforto della magistratura - la sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione artificiale, ha riproposto per l’ennesima volta gli interrogativi bioetici riguardanti la fase terminale della vita. Innanzitutto la questione del testamento biologico o, come sarebbe preferibile, delle dichiarazioni anticipate sui trattamenti medici cui si è disposti a sottoporsi in caso di perdita della propria capacità di autodeterminazione (o, per lo meno, di comunicare in maniera inequivoca le proprie decisioni). Infatti Eluana - secondo le dichiarazioni del padre - in una fase dell’esistenza assolutamente lucida e serena, aveva manifestato a voce e per iscritto la volontà di non essere mantenuta in vita puramente biologica qualora non le fosse stato possibile la piena padronanza delle proprie azioni. Ma tale manifestazione di volontà non è avvenuta in forme canoniche, rituali, legalmente strutturate; inoltre, quand’anche tali forme fossero state rispettate, si potrebbe accettare moralmente che un soggetto disponga di sé come se fosse l’unico responsabile del proprio vivere? Si potrebbero privare i genitori, i familiari, i medici, la comunità cristiana (cui, in concreto, Eluana apparteneva) e la società tutta da ogni diritto-dovere di concorrere sinergicamente alle decisioni del singolo individuo? Sappiamo che l’istituto giuridico del testamento offre il fianco - di fatto - a innumerevoli mistificazioni, abusi, falsificazioni, indebite pressioni sul titolare: è ragionevole permettere che simili interferenze possano ripetersi a proposito di documenti dalla cui validità dipendono non solo beni materiali (per quanto ipoteticamente ingenti) ma addirittura il bene incomparabilmente più prezioso dell’unica vita a disposizione di ogni persona umana?
A queste, e ad analoghe, micro-obiezioni si potrebbero contrapporre micro-risposte complanari: per esempio che gli eredi sono molto più litigiosi per difendere una certa interpretazione delle volontà di un defunto quando si tratta della ‘roba’ propria di quanto non lo sarebbero se si trattasse di poche settimane o di pochi mesi della vita altrui. O, più generalmente, che tutte le distorsioni a cui in via di fatto vengono sottoposti i testamenti non hanno mai suggerito l’idea di abolire l’istituto testamentario: è vero che il diritto offre il fianco all’esasperazione legalistica e ai cavilli dei legulei, ma è altrettanto vero che l’assenza di norme provocherebbe uno scenario sociale molto più disastroso.
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Ad una considerazione più profonda, mi pare di poter rilevare che - tranne rare eccezioni - il tema del testamento biologico viene considerato l’anticamera della legislazione pro-eutanasia: ed è proprio questo nesso logico che spiega sia le resistenze verso il testamento biologico da parte di quanti condannano l’eutanasia sia l’accettazione entusiastica dello stesso da quanti sono favorevoli all’eutanasia.
Su questo argomento gli interrogativi si profilano più impegnativi ed inquietanti e, per affrontarli con serietà, occorrerebbe sgombrare il terreno dai fraintendimenti più colossali. Un primo equivoco è sostenere che l’eutanasia sia una opzione fra la vita e la morte: è evidente, da ogni legislazione sinora emanata in Paesi civili, che la regolarizzazione dell’eutanasia riguarda esclusivamente quei casi in cui l’alternativa non è fra vivere e morire ma fra morire in preda a dolori fisici ed angosce psichiche e morire in maniera dignitosa e per quanto umanamente possibile serena. Un secondo equivoco è ritenere che la fede religiosa, in particolare biblica, implichi necessariamente il rifiuto di ogni ipotesi eutanasica e che l’ateismo, o l’agnosticismo teologico, siano gli unici presupposti teoretici possibili di un’approvazione etica dell’eutanasia. Infatti, come insegnano molti illustri teologi anche cristiani contemporanei, credere che la vita sia un dono di Dio non implica credere che vada coltivata anche quando la malattia la devasta e la sfigura: se offro un fiore non pretendo che l’altro lo tenga nel vaso anche quando sia quasi del tutto marcito né se offro una torta, e l’altro ne ha gustato con gratitudine i sette ottavi, ho motivo di attendermi che consumi anche l’ultima fetta pur se andata a male. Credere che esista un Dio personale che liberamente si rapporta a persone libere (dunque un Dio che non si identifichi stoicamente col fato o con il destino o con la macchina inesorabile delle leggi naturali) può costituire, se mai, una ragione in più e non in meno per ammettere la liceità di subordinare la lunghezza biologica dell’esistenza alla sua qualità ontologica e spirituale. E’ di questi giorni la lettera aperta di una delle più delicate pensatrici cattoliche contemporanee, Roberta De Monticelli, in cui rende pubblica la sua decisione di uscire dalla chiesa cattolica perché ritiene le posizioni della gerarchia ecclesiastica in tema di eutanasia “nichilistiche”, incompatibili con il vangelo di liberazione di Gesù Cristo. Si potrebbe aggiungere che ammettere tranquillamente per un cagnolino o per un asinello, affetti da tumori dolorosi, la possibilità di accorciare la tortura e negare la medesima possibilità, nelle medesime condizioni, ad un essere umano non è solo indice di nichilismo generale: è anche segno di un anti-umanesimo misantropico. Per coerenza, non dovrebbe più usarsi la locuzione “Morire come un cane” ma - restando queste le normative e la prassi effettiva - si dovrebbe piuttosto sostituire con “Morire come un cattolico osservante”. Ma può il Dio della vita, anzi dei viventi, permettere che una creatura tolga la vita ad un’altra creatura? Emerge qui un terzo, davvero madornale, fraintendimento: considerare l’eutanasia un omicidio. Quando un medico nazista avvelena un malato ebreo non sta eseguendo un’eutanasia ma una soppressione ingiustificabile di una vita umana. L’eutanasia, per essere tale e non la sua tragica caricatura, esige che il morente chieda esplicitamente di essere aiutato a gestire in maniera quanto meno atroce possibile il proprio decesso. Essa è il caso limite che illumina, retrospettivamente, la necessità morale (oggi nei fatti trascurata o realizzata riduttivamente) di restituire al paziente la centralità nel contratto terapeutico con il medico: a cominciare dal diritto di essere messo in grado, per quanto lo consentano le sue reali potenzialità intellettuali, di esprimere un “consenso informato” alle cure cui sta per essere sottoposto e alle conseguenze, certe o probabili o anche solo possibili, che tali cure possono comportare.
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Ma se l’eutanasia è questo, essa rimanda a sua volta alla questione del suicidio assistito. I concetti hanno una concatenazione logica spietata, evitando la quale le posizioni etiche difficilmente raggiungono una coerenza armonica (è chiaro che qui considero la coerenza mentale fra le proprie idee, non la coerenza molto più problematiche fra le proprie idee e le scelte in situazione: altro parlar di morte, altro morire…). Siamo, mi pare, all’osso: riteniamo davvero che un soggetto umano abbia il diritto di disporre autonomamente della propria vita? E, in caso di risposta affermativa, riteniamo che abbia il diritto di essere aiutata da un medico a spegnersi (anche se si trattasse di una sedicenne in preda a gravi delusioni sentimentali o di un diciottenne schiacciato dal senso di fallimento professionale) solo perché ce lo chiede con tutti i crismi della legalità?
Nessuno, se non per superficialità imperdonabile, può ritenere che ci si trovi qui davanti a ‘problemi’ (in quanto tali risolubili una volta e per tutti) e non davanti a ‘misteri’ (nel senso filosofico, non teologico-confessionale, di Gabriel Marcel che così denominava gli aspetti della natura e della storia che l’uomo può sondare ma senza nessuna presunzione di chiarificarli esaurientemente e definitivamente ed universalmente): non è forse la ‘morte’ l’enigma più enigmatico della nostra vicenda terrena? Ma se di ‘mistero’ si tratta e non di un mero ‘problema’ logico-scientifico, solo una mentalità dogmaticamente intollerante può cercare una ‘risposta’ esclusiva ed escludente e contrastare l’inevitabile pluralismo degli ‘approcci’, anziché salutarlo come fecondo di incessanti approfondimenti. Chi, come me, è favorevole all’eutanasia non può, per onestà intellettuale, rispondere che affermativamente. Sin da ragazzo ho vissuto casi di coetanei e di adulti che, dopo aver invocato inutilmente la morte, se la sono data in maniera davvero lacerante e dirompente: il male minore (dal punto di vista materiale della loro integrità corporea ma anche dal punto di vista della loro dignità morale) sarebbe stato certamente un’assistenza da parte di altri esseri umani rispetto alla disperazione cieca della solitudine. Ciò detto, vanno subito aggiunte almeno quattro considerazioni. La prima è che un aspirante suicida ha diritto di chiedere sostegno solo se dimostra (esattamente come nel caso dell’eutanasia) di disporre - sul momento o in anticipo mediante testamento - della sua vita in maniera consapevole. Un’alterazione dello stato mentale (come nei casi dei due giovani sopra ipotizzati, l’una abbandonata e l’altro inoccupato) costituirebbe a mio avviso una ragione sufficiente per ritenere che quella persona, in quel momento della sua esistenza, non possiede neppure quel minimo di libertà che la possa far considerare compos sui, responsabile di sé. Una seconda considerazione è che - qualora la società abbia fondati motivi per ritenere che il candidato al suicidio non sia nel pieno possesso delle proprie facoltà mentali - il dovere di aiutarlo a morire si trasforma in dovere di aiutarlo a guarire: solo ristabilitosi un accettabile equilibrio psichico si può profilare un ragionevole diritto al suicidio assistito. Una terza considerazione è che - escluso il caso precedentemente evocato di soggetti irresponsabili - si potrebbe prevedere uno spazio di dialogo fra l’aspirante suicida e qualcuno (la figura professionale specifica sarebbe il filosofo consulente) disposto a confrontarsi razionalmente con lui: non programmaticamente e pregiudizialmente per convincerlo a desistere dall’intento (se si discute filosoficamente, nessuno dei due interlocutori può dare per scontato che arriverà alla conferma delle proprie posizioni iniziali e non alla condivisione delle posizioni dell’altro), ma per creare le condizioni del massimo di consapevolezza concretamente possibile. Una quarta, ed ultima, considerazione è che al diritto di essere assistito nel proprio suicidio non può corrispondere un dovere assoluto da parte di ciascun altro componente della comunità (il mio diritto al cibo o alla salute non implica il dovere legale di ogni salumiere di sfamarmi o di ogni medico di visitarmi gratuitamente) . Lo Stato, nel momento stesso in cui predisponesse norme giuridiche e strutture tecniche per rendere effettivo tale diritto, non potrebbe contemporaneamente esimersi dal prevedere per i suoi cittadini (medici in primis) il diritto all’ obiezione di coscienza.
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