mercoledì 2 novembre 2011

IL GIUDICE RAGAZZINO. SANTO PERCHE’?


Il 6 ottobre si è avviato ufficialmente, presso il Tribunale diocesano di Agrigento, l’iter che potrebbe portare - eventualmente – alla canonizzazione, da parte della Chiesa cattolica, di Rosario Angelo Livatino, il “giudice ragazzino” di Canicattì falcidiato dalla mafia il 21 settembre del 1990. La notizia suggerisce varie considerazioni, talora di segno contrario, che potrebbero riassumersi in due questioni principali.
La prima è di ordine generale: ad una riflessione critica approfondita ha ancora senso beatificare un credente? Da una parte, infatti, è un modo di indicare al popolo di Dio -e, più ampiamente, alla società – una testimonianza esemplare di discepolato evangelico; dall’altra, però, si corre il rischio di strappare quella testimonianza all’ambito della quotidianità, di rinchiuderla (persino materialmente) in una nicchia, facendone più un oggetto di venerazione (se non addirittura un destinatario di richiesta di grazie) che un modello da seguire creativamente. Ma questa è una problematica troppo ampia e radicale per poterla dirimere nell’occasione.
Più pertinente al caso concreto risulta, invece, una seconda questione. Se si accetta la logica cattolica della canonizzazione, diventa centrale capire per quali ragioni il magistrato siciliano sarà - o sarebbe – dichiarato ‘santo’. Detto altrimenti: per quali virtù eroiche, per quali aspetti della sua personalità e delle sue scelte di vita, sarà - o sarebbe – elevato a esempio per la comunità dei credenti. Mi pare, infatti, che siano percorribili due strade, solo apparentemente simili se non addirittura interscambiabili. La prima - personalmente ritengo sia la più auspicabile – indicherebbe nella resistenza alle minacce mafiose il cuore della sua santità evangelica: egli verrebbe riconosciuto – per riprendere una felice espressione di Giovanni Paolo II nella Valle dei templi – “martire della giustizia e, indirettamente, martire della fede”. Si riattualizzerebbe il pensiero di San Tommaso d’Aquino e di tanti teologi della liberazione, a giudizio del quali dare la vita per difendere alcuni principi etici (la libertà, la verità, la fedeltà ai compiti civili) equivale a dare la vita per Dio, che di quei principi è fonte e garante.
Diverso sarebbe il percorso che arrivasse a dichiarare la santità di Livatino non anche, ma solo, per la sua fede teologale, per la sua vita intima di preghiera, per la sua affabilità umana, per la sua devozione ai genitori…lasciando in ombra le circostanze della sua morte. Certo: morire di mafia non può significare, eo ipso, essere considerato un cristiano esemplare (se non altro per rispetto a quelle vittime di mafia che, in vita, hanno consapevolmente scelto di non dirsi cristiani). Ma se, come nel caso di Livatino, la scelta di una certa professione - e soprattutto la scelta di fare in una certa maniera la professione intrapresa – fossero dettate non solo da validi e nobili motivazioni laiche, bensì anche da una coscienza credente, perché non presentarlo come un esempio di martirio cristiano? Perché non cogliere al volo questa occasione per proclamare che, nella Chiesa cattolica, tra i “valori non negoziabili” (anzi, a maggior ragione di altri più frequentemente richiamati) rientra a pieno titolo la lotta contro la corruzione sistemica, la intimidazione violenta, la mentalità del compromesso? Gli antecedenti di don Giuseppe Diana (ucciso dalla Camorra) e di don Pino Puglisi (ucciso da Cosa nostra) non lasciano ben sperare: del primo non si è neppure avviato il processo di canonizzazione (quasi ad avvalorare le interpretazioni denigratorie del suo assassinio diffuse immediatamente dai camorristi e dai loro pennivendoli); del secondo il processo di canonizzazione, benché arrivato a Roma, si è arenato nelle stanze dei Sacri Palazzi. Evidentemente c’è almeno una delle convinzioni ribadite in vita da Rosario Livatino che stenta a far breccia nelle mura vaticane: “Alla fine, Dio non ci chiederà se siamo stati credenti, ma se siamo stati credibili”.

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