lunedì 31 dicembre 2012

Maria, madre di Gesù, e la sapienza dei pastori


Secondo il calendario liturgico della Chiesa cattolica romana, domani 1 gennaio si farà memoria della Madonna. “Adista” mi ha chiesto un commento al brano di vangelo che sarà letto nelle chiese (Luca 2, 16 - 21) per la sua rubrica “Fuoritempio” (”Commenti al Vangelo di chi è ’svestito’: senza paramenti, dotrina e gerarchie, ma non per questo ’senza Dio’ “).
Ve lo riproduco con i miei auguri… urbi et orbi.

“Adista”, 15. 12. 2012
FUORITEMPIO

La sapienza dei pastori

Celebrare Maria in quanto “madre di Dio” non è per nulla agevole. Se il cristiano ha attinto dal messaggio di Gesù stesso la passione per la verità, non può fare finta che le formulazioni dogmatiche tradizionali non sono entrate in crisi e non allontanano, anziché avvicinare, la gente all’esperienza di fede. Che significa, infatti, questo titolo mariano? Che una donna ha ospitato nelle viscere un essere unico e ineffabile. Gesù Cristo, infatti, sarebbe la seconda Persona della Trinità che, “non cessando di essere ciò che era, ha iniziato ad essere ciò che non era”: continuando a sussistere nella originaria natura divina, avrebbe acquisito anche la natura umana. Il suo “io” sarebbe esclusivamente divino: per miracolo, poi, avrebbe acquistato anche un’intelligenza, una volontà e un corpo umani. Una Persona divina, appunto, con due nature: una divina ed una umana.
Approfitto del privilegio di parlare da laico, senza pulpiti e senza cattedre: se le chiese non sono ancora più spopolate è grazie al fatto che ormai i cattolici non sanno che cosa comporterebbe davvero l’adesione a questo genere di definizioni dogmatiche. Se lo sapessero e fossero messi davanti all’aut-aut (o accettare il koan del Dio-uomo o restare esclusi dalla comunione ecclesiale), la maggior parte resterebbe tagliata fuori. Li salva l’ottavo sacramento: l’ignoranza del catechismo ufficiale. Infatti, anche grazie al silenzio strategico della catechesi ordinaria su questi temi, si può essere ariani senza saperlo e senza vederselo rinfacciare come una colpa. Intendo – pensando al prete egiziano Ario del IV secolo - che si può credere in Gesù come Dio in senso figurato, metaforico, ma dal punto di vista ontologico veramente ed esclusivamente una persona umana, sia pur illuminata e animata dal Soffio dell’Eterno. E che dunque Maria sia stata una donna coinvolta, storicamente e faticosamente, nell’avventura di un figlio - tale nel senso ordinario della parola - che ha identificato la sua causa con il Progetto del Dio d’Israele.
Una simile prospettiva – bollata come eretica, ma statisticamente maggioritaria nella consapevolezza media del popolo di Dio – non attenua in nulla la gratitudine e la devozione verso la madre del Liberatore. Se mai, l’accresce. E’ più facile – infatti – seguire passo passo un figlio che, in ipotesi, si sa concepito miracolosamente e dotato di poteri soprannaturali o un figlio di cui si conosce l’intrinseca fragilità umana? Se Maria ci viene proposta come modello di fede, ciò è molto più plausibile se ella stessa ha esercitato la fiducia contro ogni evidenza: se non ha maledetto un figlio testardamente proiettato verso il Regno di Dio ma, meritoriamente, gli è stato accanto in vita e in morte.
Il brano evangelico ci svela uno dei segreti di questa fedeltà di Maria : sin dai primi giorni della sua esperienza materna, ha saputo osservare ciò che accadeva al figliuolo e “conservare tutte queste cose meditandole nel suo cuore”. Badiamo bene: Luca asserisce questo a proposito di ciò che, “pieni di stupore”, avrebbero detto del bambino in fasce dei “pastori”. Maria è dunque donna di ascolto nel senso più ampio: non si limita ad un ascolto selettivo (ciò che possono dire sapienti stranieri o dottori della Legge locali), ma apre le orecchie della testa, della mente e del cuore anche a categorie sociali considerate marginali (e, sappiamo, anche tendenzialmente peccatrici perché aduse a eccessiva familiarità con animali).
Forse - oggi come ieri - per capire l’identità di Gesù e il suo messaggio salvifico dobbiamo farci attenti alla voce dei “pastori”: di chi sperimenta la durezza del lavoro diurno e notturno, lontano dai propri affetti, gratificato da pochi guadagni e molti pregiudizi sociali. Gli impoveriti del pianeta non sono l’unico “luogo teologico” dove imparare a credere: ma certo costituiscono un luogo imprescindibile. Una relazione con l’Assoluto che voli al di sopra della carne dei fratelli più sfortunati è senza alcun dubbio una relazione illusoria, alienante.

Augusto Cavadi

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