venerdì 23 maggio 2014

Giorgio Calderoni su "Legalità" (Di Girolamo, Trapani 2013, euro 7,00) di Augusto Cavadi


Giorgio Calderoni sul mio libretto Legalità


Ricevo dall’amico Giorgio Calderoni, magistrato del TAR, delle acute e puntuali osservazioni sul mio libretto Legalità (Di Girolamo, Trapani 2013). Esse integrano, e in qualche misura fanno da contrappeso, alle considerazioni  - già ospitate in questo blog  - a firma del Gip Lorenzo Jannelli.

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Questi i miei schematici (e dunque necessariamente “forzati”) punti di vista sul tuo Legalità (Di Girolamo, Trapani 2013) e che hanno cercato, in ogni caso di tener conto della natura e della finalità del tuo scritto, primo di una collana programmaticamente intitolata “sindacalario”.

Così sintetizzo i tuoi argomenti:
a)    mi è parso di individuare il filo conduttore del tuo discorso sulla “legalità” nel dualismo (tu la chiami distinzione, ma in più di un tuo passo mi pare contrapposizione) tra legalità e giustizia;
b)   esemplare da questo punto di vista la figura di Antigone;
c)   il criterio per misurare in concreto questa distinzione è il discernimento “paolino”;
d)   i “fari orientativi” che indichi sono:
-       la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo;
-       la Convenzione europea dei diritti dell’uomo;
-       la Costituzione italiana
e)    il discernimento non basta, e dopo di esso occorrono:
-       la fedeltà (id est: la legalità democratica interiorizzata)
-       la resistenza, che si differenzia dal ribellismo: i naturali riferimenti sono Gandhi e la sua disubbidienza civile, anche se citati nel capitoletto sulla “fedeltà”
-       la creatività (elaborazione di una controproposta pubblica: id est, la politica)

Al riguardo osservo altrettanto sinteticamente:
aa) colgo in filigrana il classico modello che accoppia la legge alla sua trasgressione: trasferito in psicanalisi, un autore che apprezzo lo definisce “un modello moralistico e classicamente edipico”, in quanto stabilisce il rapporto tra il desiderio e la legge nel senso che, nella misura in cui la legge definisce il limite normativo, il desiderio tende a oltrepassarlo trasgressivamente: e qui torna non per caso san Paolo, la cui formula “la legge fa il peccato” è stata ripresa più volte da Lacan (M. Recalcati, Il complesso di Telemaco, Feltrinelli, p. 70);
bb) tornando al piano etico/giuridico, di questo modello avverto più i pericoli che i vantaggi e, quale soluzione empirica, ad esso preferisco quello tradizionale giuspositivistico della coppia Kelsen-Bobbio (sul primo tu, invece, ti allinei comprensibilmente alla posizione critica di Lombardi Vallauri);
cc) ma al di là delle adesioni personali a questo o quello modello astratto, il vero punto di dissenso sta in ciò:
·      ulteriormente sintetizzando, mi sembra di poter dire (se così non è, faccio sin d’ora ammenda) che tu affidi sostanzialmente al foro interiore di ognuno (sintomatica, per me, da questo punto di vista la tua espressione “legalità democratica interiorizzata”) la sede in cui operare il discrimen tra legalità e giustizia (o, alla san Francesco, tra ciò che va accettato e ciò che va contrastato, secondo un’altra tua citazione), pur se utilizzando i principi scolpiti nelle 3 Magnae Chartae contemporanee di cui sopra; poi, naturalmente vengono le condotte conseguenti, private (la resistenza) e pubbliche (la politica), ma le figure di riferimento restano, per l’appunto, i campioni della disobbedienza civile, da Antigone a Gandhi (passando per Thoreau, aggiungo io): in definitiva, nel conflitto tra diritto e coscienza [uso intenzionalmente quest’ultimo termine, solo per evocare - e qui non è possibile fare altrimenti - il grande tema dell’obiezione di coscienza che, in fondo, anche tu hai lasciato per implicito, tanto (ancora se non erro) da non nominarlo neppure], il singolo è legittimato a seguire la propria coscienza e a infrangere le regole “formalmente” poste;
·      al contrario, io penso che la sedes in cui riconoscere ed eventualmente tentare di comporre l’eventuale dissidio tra legalità e giustizia (e dunque tra diritto e coscienza) possa essere solo una o più di quelle offerte dallo stesso sistema giuridico che ha prodotto la norma ritenuta ingiusta; per sintetizzare ancora la mia posizione, l’unico sentiero a mio avviso percorribile è quello che sta tra il motto “dura lex sed lex” da un lato e “il ci sarà pure un giudice a Berlino” del mugnaio di Sans Souci, dall’altro. Il campione/testimone/eroe di questo punto di vista non manca e non è meno degno e affascinante di Antigone o Gandhi o Thoreau o Luther King: è lo schiavo Pedro Carmona che, liberato assieme alla moglie - secondo le regole della schiavitù - dal testamento del suo padrone di Puerto Rico nella prima metà del ‘500, combattè a lungo dinanzi a tutte le Corti del regno spagnolo per vedere affermato il proprio diritto alla libertà, conculcato da esecutori testamentari ed eredi infedeli. La vicenda è emersa di recente dall’Archivio generale delle Indie a Siviglia e ne ha parlato Claudio Magris venti giorni fa sul Corriere della Sera dell’8 aprile. Fu anche affiancato, a un certo punto delle sue battaglie, dal vescovo Bartolomeo de Las Casas e, anche se non si conosce storicamente quale sia stato l’esito finale delle stesse, resta la testimonianza di chi – senza pensare di mettere radicalmente in discussione l’indubbiamente iniquo sistema schiavista di cui era vittima, non si sottomise alla sopraffazione scegliendo di brandire la legge del tempo, creata dai padroni degli schiavi, e di praticare uno dopo l’altro gli strumenti giuridici che questa offriva.

Detto ciò, provo a esemplificare le differenze che colgo tra le nostre posizioni, con l’augurio di non incorrere in eccessivo tecnicismo:
1)   io penso che ciascuno di noi, cittadini di una società indubitabilmente democratica qual è quella italiana, debba utilizzare tra sé e sé (e/o nel confronto con un gruppo di sodali e/o nelle sedi del discorso pubblico) i principi delle tre Magnae Chartae citate per giungere a un primo scrutinio di accettabilità o meno di una determinata disposizione di legge: ma, una volta che si sia formato una convinzione (negativa) al riguardo, non può autonomamente optare per la sua individuale disapplicazione e/o inosservanza, bensì percorrere tutti i rimedi previsti dall’ordinamento giuridico per giungere a una eventuale pronuncia che sciolga la generalità dei consociati dall’obbligo di osservanza di quella norma ovvero accettare il diverso responso dell’organo preposto (Corte Costituzionale, Corte europea dei diritti dell’uomo);
2)   anche questa via va, in ogni caso, considerata come riservata ai casi-limite: per farti solo un esempio personale e per quello che può valere, in quasi 30 di attività professionale ho autonomamente investito la Corte Costituzionale una sola volta (ottenendone risposta, nel suo esito, sostanzialmente positiva) e mi sono rivolto una sola volta alla Corte europea di Giustizia (quella del Lussemburgo e non quella dei diritti dell’uomo di Strasburgo) per una questione interpretativa;
3)   naturalmente, può porsi il tema, come da più parti è stato fatto, di una riforma dei sistemi di accesso alla Corte Costituzionale, attualmente solo “indiretti” (cioè che necessitano dell’instaurazione di un previo processo presso uno dei tanti giudici del nostro sistema giudiziario), mediante la previsione di forme regolamentate anche di accesso diretto alla Corte stessa, come avviene in altri sistemi giuridici

Resta inteso che, nel caso di rottura del quadro democratico formale (anche questo aggettivo è intenzionale, e qui mi fermo a questa sottolineatura senza neppure accennare a quanto ne risulta implicato) tutto cambia e può e deve ammettersi il ricorso a forme di reazione non contemplate dalle norme positive sino all’ <<assassinio del tiranno>> negli stati d’eccezione.

La mia ti potrà sembrare una posizione “conservatrice” o che pecca di eccessiva “Realpolitik”: può essere, ma non ti nascondo che, ai miei occhi, non meno foriera di pericoli - specie in una realtà come quella italiana - può essere, in tema di legalità, la sottovalutazione del primato della legge in quanto legge.

Grazie per avermi dato l’opportunità, con l’ultima delle tue pubblicazioni, di riflettere con più calma sugli snodi di fondo del mio lavoro quotidiano, snodi che proprio la quotidianità e l’urgenza di risolvere il caso singolo finiscono per lasciare pericolosamente in disparte.

27 aprile 2014
                                                     Giorgio

1 commento:

Bruno Vergani ha detto...

La psicoanalisi mi sembra inviti a emanciparsi dal “foro interiore” della coscienza individuale, territorio nebuloso dove può albergare di tutto dalla sanità alla perversione, per implementare una sana e normale (normativa), costituzione primaria del Soggetto. In questa prospettiva le posizioni di Augusto e Calderoni risultano conciliabili.