mercoledì 5 marzo 2008

UNA MATTINA ALL’ALBA


Repubblica - Palermo 5.3.2008

LA BELLEZZA ASSEDIATA DAI RIFIUTI

Quando riesco a svincolarmi dalla stretta della pigrizia, mi piace aprire la giornata con una passeggiata da Vergine Maria all’Addaura. Esco da casa prima dell’alba, cammino a piedi per un’ora lungo la strada che si snoda fra le falde di Monte Pellegrino e il mare. L’aria è tersissima. Il silenzio intenso è rotto, di tanto in tanto, da qualche cane da guardia allarmato per i passi (evidentemente non frequenti) del passante. Non sono un sentimentale. Eppure quando i primi raggi illuminano la montagna, svelandone il rosso dolomitico, e penetrano nel mare, accentuandone il blue profondo, difficilmente riesco ad restare freddo. I gabbiani - che disegnino arabeschi con voli eleganti o che si fermino su una roccia a osservare le onde - fanno il resto: mi assestano, per così dire, il colpo di grazia. Scivolo, infatti, in uno stato d’animo insolito: un intreccio di calma intima e di intima inquietudine. Sono momenti in cui certe righe del taccuino di viaggio in Italia di Goethe - convinto di ammirare “il più bel promontorio del mondo” - mi si rivelano di schietta sincerità, al di qua di ogni esagerazione letteraria.

Mentre la mente divaga senza guinzaglio, lo sguardo si posa ora su una caletta sabbiosa ora sul ciglio della strada carrozzabile ora su un boschetto dalla vegetazione assortita: e non può evitare di notarvi brutture d’ogni genere. Non manca quasi nulla: dalle casupole abusive perennemente incompiute (ci siamo ma, se qualche tutore dell’ordine pubblico dovesse accorgersene, saremmo in grado di sparire in poche ore) alle lattine di coca-cola e alle bottiglie di birra svuotate; dalle carcasse di automobili arrugginite ai sacchi di immondizia maleodoranti. E frigoriferi spalancati, divani orrendamente sventrati, sedie mutilate. Persino cerchioni di ruote d’automobile di varie marche, smarriti e ancora utilizzabili, che nessuno raccoglie. Naturalmente carte, cartoncini e cartoni d’ogni tipo, colore, condizione: squadernati e svolazzanti come aquiloni o accartocciati nervosamente o tagliuzzati sadicamente… Un po’ dappertutto, equamente distribuite per evitare spiacevoli disparità, cacche di cani.
Questa vista insistente, fastidiosa, ti sottrae con prepotenza dall’ammirazione estatica. La corteccia neocerebrale rientra dalla sospensione momentanea, si riattiva e produce interrogativi quasi scontati: perché la gente può sfregiare gli spazi comuni sapendo che nessuno - né privato cittadino né pubblico ufficiale - gliene chiederà conto? Perché gli uffici comunali, provinciali e statali straripano di “lavoratori socialmente utili” che devono inventarsi, giorno dopo giorno, i passatempi per vincere la noia mentre i tesori naturali sono lasciati in abbandono? Che impressione provano i turisti, transitando da Villa Igea a Mondello, al cospetto di questo sconcio? Ma soprattutto e radicalmente: perché noi meridionali ci vogliamo così poco bene e così poco bene vogliamo al contesto naturale ed urbano in cui abbiamo visto la luce? Tutto avviene come se un malessere psichico interiore, per mascherarsi ai propri stessi occhi, si manifestasse come aggressione verso l’esterno; e lo spettacolo delle ferite da noi provocate all’esterno - a uomini e a cose, a animali e a piante - , ritorcendosi a sua volta verso di noi, ci facesse stare ancora peggio. In questo circolo infernale, come fare a capire se siamo avversi alla bellezza perchè siamo infelici o se siamo infelici perché avversiamo la bellezza?
Ma non possiamo lasciarci paralizzare dagli interrogativi filosofici. Da qualche parte dobbiamo pur cominciare. Senza miracolismi, ma con determinazione. Forse sarà un prete che deciderà di inserire nella catechesi ordinaria l’esortazione a rispettare la Terra come madre se si vuole ardire di invocare Dio per padre. Oppure un funzionario dell’Amia , in un sussulto deontologico, proverà a infrangere l’omertà clientelare fra assunti per padrinaggio e a pretendere che tutti gli operatori ecologici diventino ecologicamente operativi. Oppure il consiglio di quartiere chiederà formalmente che si moltiplichino i contenitori per la raccolta - meglio se differenziata - dei rifiuti: e che vengano effettivamente svuotati con ritmi adeguati. Oppure il questore incaricherà due pattuglie di alternarsi in zona per convincere - con le maniere più opportune, cortesi o dure a seconda dei casi - gli abitanti a non imbrattarsi da soli l’habitat vitale. Quel che è certo è che nessuna di queste strategie, da sola, potrà innescare un’inversione (virtuosa) di tendenza: la pedagogia, la professionalità, la politica, la repressione - così come l’arte, i mass-media o il volontariato ambientalista - possono mutare il quadro complessivo solo se si attivano in sequenza e, una volta a regime, in contemporanea. Nell’introduzione ad un dialogo fra l’architetto Mario Botta e lo psichiatra Paolo Crepet, Giuseppe Zois scrive che la vita è un pendolo ininterrotto fra le “emozioni dell’abitare” (espresse dal primo nelle sue costruzioni) e le “emozioni da abitare” (che l’altro cerca di decifrare negli animi). Che il nesso sia stretto, lo conferma la risposta di Botta alla domanda se sia possibile evitare certe angosce davanti al brutto chiudendo, almeno a tratti, gli occhi: “Le brutture purtroppo ci accompagnano. Sarebbe illusorio credere che si può avere un buon habitat in una cattiva società. Non può esserci una bella città fisica in un brutto contenitore sociale”.
La strada è, dunque, tutta in salita. Una passeggiata lungo le nostre coste splendide sarà ancora per molti anni un mix inestricabile di gratificazione e di amarezza. Quando accenno a queste problematiche con amministratori locali, o con altri professionisti della politica , mi fissano come se fossi un ritardato mentale: se si occupassero di bene comune, distraendosi dalla cura quotidiana delle richieste private degli elettori, chi li voterebbe alla tornata successiva (a parte me e qualche altro alieno paracadutato per caso su quest’isola)? L’unico motivo per loro di cambiare stile, sarebbe che tra i cittadini si andasse contagiando a macchia d’olio la consapevolezza dell’assurdità di questa situazione. E, per riprendere Arthur Schnitzer, la conseguente convinzione che un contributo a tale assurdità lo diamo tutti: o con l’agire o con l’astenerci dall’agire.

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