venerdì 16 settembre 2016

"MOSAICI DI SAGGEZZE" SECONDO GIULIANA SAMMARTINO


I Mosaici di saggezze di Augusto Cavadi



       Una prima qualità del recente libro di Augusto Cavadi (Mosaici di saggezze. Filosofia come nuova antichissima spiritualità, Diogene Multimedia, Bologna 2015, pp. 357  , euro 25,00) è il tono complessivo del testo, un po’ british e di basso profilo: lungi dall’attribuire alla dimensione spirituale – laica - della filosofia un ruolo salvifico (come si rischia quando la si esalta come ‘arte di vita’), le attribuisce più modestamente la ricerca quotidiana e metodica del significato (il “filosofo-in-pratica” come “artigiano” che attinge alla tradizione reinterpretandola, senza scindere pensiero da sentimento); una ricerca continua, con sudore della fronte e pazienza, perché la filosofia è strumento di guarigione lenta dalla malattia del pensiero superficiale.

       L’autore parte da lontano e ricostruisce le vicende storiche per cui la filosofia greca, originariamente sintesi di pensiero e di vita spirituale (nel senso di vita interiore e pratica al tempo stesso), si sia nel Medioevo spaccata in due: da una parte la filosofia come pensiero logico astratto, dall’altra la spiritualità come esperienza religiosa in senso sempre più strettamente confessionale. Questa dicotomia ha fornito al Magistero cattolico il monopolio della spiritualità sì che, nel linguaggio ordinario attuale, ‘spirituale’ è sinonimo di ‘religioso’: e ciò con l’oggettiva complicità dei filosofi ‘laici’ che si sono progressivamente  ritirati dall’impegno politico e di guida delle coscienze (come attestato, fra l’altro, dallo smarrimento dell’unitarietà fra etica e politica). Secondo Cavadi è venuto il momento storico di ricucire la frattura medievale e moderna fra ragione e volontà; di ritornare al “cuore pensante” (Hegel), alle radici multietniche della compassione laica e mondana; di rifidanzare l’eros greco con il misticismo orientale e con l’agape cristiana.

        Ma nel libro non c’è solo un’enunciazione di intenti: attingendo alla tradizione filosofica occidentale (dai Pre-socratici ai Contemporanei) si suggeriscono, con attenzione certosina, indicazioni operative  su ogni aspetto quotidiano delle nostre esistenze: dal mangiare al leggere, dalla sessualità alle professioni e alla stessa ricerca scientifica, quasi a sottolineare che non esiste spazio al quale sottrarre il nostro impegno di filosofi-in-pratica, perché la filosofia è “vita pensata”.  Quasi un invito a sostituire il motto sessantottino “tutto è politica” con il più comprensivo “tutto è filosofia”.

        Ogni lettore, ovviamente, troverà più eloquenti alcuni passaggi e meno interessanti altri. Personalmente ho apprezzato, in particolare, le pagine dedicate alla filosofia come esperienza totale e non come mera conoscenza teoretica, esperienza del mistero dell’Essere e non semplice indagine logica. E ancora: la filosofia come responsabilità verso il futuro indifeso (l’archetipo è l’obbligo di cura verso il neonato), contro il nichilismo moderno e la titanica violenza della tecnica, dal momento che c’è un logos anche nel cuore dei minerali . Inoltre: il concetto di “ascetismo metropolitano” (Duccio Demetrio) e la trasfigurazione della quotidianità: sapere guardare con animo puro, dalla panchina della stazione al tramonto dietro un palazzo, il mistero della vita palpitante (o lo intravedi lì o non lo trovi mai). Infine: le considerazioni sul “sapere invecchiare” e sull’  “imparare a morire” da cui deriva l’esortazione a vivere intensamente ogni istante come se fosse l’ultimo; a prendersi cura di sé ma prestando ascolto e sintonizzandosi con ciò - o colui - che ci circonda); a vivere con generosità la propria morte: con essa daremo spazio agli altri, avendo esaurito la nostra parte in quell’angolo di mondo dove siamo stati gettati.

     Come ogni prodotto letterario, anche questo testo è suscettibile di riserve e critiche. Personalmente, ad esempio, non ho apprezzato la prolissità di molti passi: che sia dovuta  alla necessità editoriale dei testi umanistici di riempire un tot di pagine o al bisogno degli autori di confessare doverosamente ai colleghi la fonte delle citazioni altrui ? Non mancano, a mio avviso, neppure alcune inesattezze di date: l’inizio dell’universo dovrebbe risalire a 13,7 miliardi di anni fa e non a 15, l’inizio della vita a 4,4 miliardi e non ad 8, l’homo sapiens è comparso 200.000  anni fa e non 5 milioni di anni fa (quest’ultima data si riferisce alla comparsa degli ominidi). Il paragrafo dedicato a Karl Jaspers forse meritava qualche parola in più,  magari ricordando la sua testimonianza come psichiatra rivoluzionario (la malattia mentale non più vista come ‘effetto’ di una causa da spiegare’ ma come espressione simbolica di una visione del mondo che va ‘compresa’, e dove il malato va aiutato con una cura che è ‘chiarificazione d’esistenza’); come filosofo della politica (l’uomo moderno deve impegnarsi nella ‘cura di sé’ come parte del tutto, trascendendo l’orizzonte limitato d’individuo liberale, grazie a una metanoia, a un radicale cambio di prospettiva); e come filosofo dell’esistenza (la filosofia accompagna l’uomo nelle situazioni limite dove sperimenta la finitudine e l’angoscia ma trascendendola).

   In conclusione, il continuo invito dell’autore, che attraversa tutte le parti del testo, a mediare fra posizioni estreme (scetticismo o entusiasmo fideistico) può sembrare un po’  ‘democristiano’ e suonare ovvio, ma il buon senso non è quasi mai originale. Nel complesso, comunque, non si può negare che il libro raggiunga  lo scopo divulgativo e l’intento di esortare all’impegno.



                                     Giuliana Sammartino
www.nientedipersonale.com
13.9.2016

1 commento:

Bruno Vergani ha detto...

Come motivavo nelle mie note di lettura del saggio di Augusto - pubblicate anche in questo blog - non ho scorto superflua prolissità e mi sono sfuggite eventuali inesattezze in “Mosaici”, nondimeno le specifiche e circostanziate annotazioni contenute in questa recensione, riguardo la prolissità e l’inesattezza di alcuni dati, mi appaiono, al di là della fattispecie, affatto secondarie.
Ritengo non si tratti di mera impazienza e neppure di disordine epistemologico che si esprime nella forma di superfluo, nevrotico, rigorismo. Azzardo, dunque, sulla problematica degli spunti di lavoro, scusandomi di affrontare temi che esulano dal contesto di questa pagina.
Riguardo la prolissità constato che più si vuole enunciare, e ancor di più scrivere, un pensiero che risulti vero, razionale e obiettivo, più occorre estesa premeditazione e prolungata costrizione così da dettagliare rigorosamente, convenzionalmente, esaurientemente, ogni particolare dall’inizio. Sarà anche necessario ricominciare ogni tematica ripartendo dall’inizio, fermandosi a lungo in tale cella di rigore per considerare tutte le connessioni e ogni conseguenza prodotte dal personale pensiero, come pure ciascun corollario e di tutto questo riportare meticolosamente gli autori che hanno affrontato o toccato la tematica, nonché attardarsi per anticipare risposte alle innumerevoli potenziali obiezioni degli interlocutori. Ineccepibile, eppure in natura l’andare troppo per le lunghe è condizione ottimale per la produzione di muffe. Anche nel pensiero l’eccessiva composizione può produrre decomposizione?
Riguardo l’esattezza dei dati Claudio Magris affermava: «Un'onesta e fedele divulgazione è la base di ogni seria cultura, perché nessuno può conoscere di prima mano tutto ciò che sarebbe, anzi è necessario conoscere.» Bene la divulgazione e anche l’erudizione, più problematico l’invito di Magris a onorare l’apprendimento, di seconda mano, del “necessario conoscere”: nella Biblioteca del Congresso ci sono 28 milioni di libri - parziale espressione dello scibile umano - quali e perché “è necessario conoscere”? Puntuale l’invito di Magris, eppure, in quel "necessario" permane qualcosa di non risolto, di autoritario, di forzato, di insidioso. La cultura non può essere ridotta a un corredo di cognizioni da apprendere per decreto, a standard di erudizione imposta. Quale il rapporto della filosofia - in primis quella “pratica” - con l’erudizione? Kant vedeva il soggetto, l’Io, come legislatore dei fenomeni. Tutto il potere al soggetto?