venerdì 2 settembre 2016

LE SFIDE DELLA RELIGIOSITA' POPOLARE


“Niente di personale”

1.9.2016



FESTE PATRONALI:  EREDITA’ DA CONSERVARE O RESIDUO  MEDIEVALE DA CANCELLARE?





Le  feste patronali – e più in generale le manifestazioni popolari di devozione religiosa – hanno senso? Ne hanno ancora, ammesso che lo abbiano avuto in altre fasi della storia? Le risposte nette sono le più facili, ma anche le meno interessanti.



LA POSIZIONE TRADIZIONALISTA

Poco interessante, infatti, è la posizione tradizionalista secondo cui sarebbe autolesionistico – da parte delle gerarchie ecclesiastiche -   interrompere una continuità storica e culturale quasi bimillenaria, proprio quando comunità di altre confessioni religiose (di matrice induista e buddhista) organizzano, in Sicilia, le loro prime processioni di quartiere. Questa tesi, infatti, abbagliata dall’ottica della concorrenza nel mercato delle religioni fra offerte alternative, non tiene in conto tante altre considerazioni: per esempio che  i cattolici praticanti sono diventati anche nel Meridione italiano una minoranza statistica e che, dunque, ogni esternazione prorompente dei loro sentimenti (mediante chiusura al traffico di strade e di piazze, inquinamento acustico provocato da campane mattutine, tamburiate diurne e nenie serali, investimento di denaro pubblico in feste e festini…) viene vissuta dalla maggioranza dei cittadini più come una prevaricazione invadente che come una testimonianza edificante. Inoltre non tiene in conto che, anche all’interno della minoranza statistica costituita dal mondo cattolico,  tali manifestazioni plateali di devozione per la Madonna e i santi (soprattutto per quelli la cui vicenda biografica è quasi totalmente trasfigurata dalla leggenda) costituiscono  ormai un dato residuale. Non sto escludendo che la donna dell’Albergheria di Palermo possa chiedere – come ha fatto, davanti a me, la signora Concetta - a una vicina di casa se creda in Dio e, avutane risposta negativa, possa incalzare: “Ma neppure in padre Pio?” Sto solo affermando che il Concilio Vaticano II non è passato invano e che anche sociologicamente la fede dei cattolici che sono stati a scuola e che leggono i giornali si concentra sempre di più  sul mistero di Dio, sul messaggio  di Gesù di Nazareth e sulle sfide interiori costituite dalle tragedie della vita (dolore, morte, guerra, ingiustizie sociali…). Già nel lontano 1988, il sociologo fiorentino Arnaldo Nesti – da me intervistato per la rivista “Segno” a proposito di una sua ricerca comparativa sulle feste religiose a Siviglia, Lima, Città del Messico e Palermo – osservava, a proposito del  festino palermitano di santa Rosalia, che “appare debole il mito fondatore, ancorato ad una struttura dissociata ed estrinseca rispetto al vissuto nel presente; assenti appaiono processi di ri-significazione; basso il livello rituale e delle pratiche di pietà; la saldatura della dimensione civile con quella ecclesiastica non è sufficiente ad alimentare un ethos collettivo, a conservare un rapporto attivo col mito fondatore. Tutto appare formale, retorico, quasi insieme di motivi estrinseci, specialmente nell’attuale situazione della città”. Non credo che quasi  trent’anni dopo la situazione sia migliorata (nonostante “le seimila acquasantiere”, “appositamente realizzate in occasione del 379° Festino”, generosamente distribuite, dal “Comune, in collaborazione con la Curia Arcivescovile”,  ai “degenti ricoverati negli ospedali e nelle case di cura pubbliche”).



LA POSIZIONE ABOLIZIONISTA

   Questo indubbio processo di secolarizzazione non legittima, d’altronde, la superficialità della tesi opposta secondo cui la società post-moderna si avvierebbe verso la cancellazione della festa, verso un’omologazione dei giorni e delle ore; e che sarebbe saggio assecondare e accelerare tale “eclissi del sacro”.  A smentirla basterebbe il clima di coinvolgimento emotivo, di identificazione collettiva, che si registra negli stadi di calcio o nei concerti rock: se non sono fenomeni religiosi questi…

 Per restare nel caso particolare di Palermo, poi, la necessità di ricucire le dieci, cento “città” in cui si trova frammentata è particolarmente urgente: che cosa hanno in comune gli abitanti di Brancaccio con i concittadini di via Libertà? Perché nella borgata marinara di  Vergine Maria si dice “lavora in città” per indicare qualcuno che si sposta di tre chilometri con l’autobus urbano? E che cosa consentirà alla seconda generazione di tunisini di avvertirsi concittadini della seconda generazione di tamil? Ogni acritica esaltazione della secolarizzazione, o addirittura della de-sacralizzazione degli spazi pubblici, rischia di dimenticare che  - come ha scritto uno dei maggiori storici contemporanei -  una città è fatta di tante cose, ma soprattutto dalla consapevolezza di essere una città. Tale consapevolezza necessita o di simboli identitari religiosi o di equivalenti funzionali dei medesimi.



LA SOLUZIONE ABBASTANZA EQUILIBRATA DELLA GIUNTA PALERMITANA

   Negi ultimi anni (dal 2012 in poi) mi pare che il festino palermitano abbia imbroccato una direzione convincente, equidistante dalla mera conservazione della tradizione come dalla cancellazione radicale di ogni manifestazione popolare. Per valutare meglio questa direzione di marcia può essere istruttivo evocare, rapidamente, lo scenario culturale attuale nel quale questo nuovo corso si è, abbastanza felicemente, inserito.

      Da una parte l’uomo post-moderno resta un animale religioso. Ha bisogno di avvertirsi re-ligato, legato-a, qualcuno o qualcosa che dia senso al suo breve esistere terreno. Per secoli questo bisogno di legami è stato soddisfatto dal rapporto (vero o presunto) con la trascendenza (di molti dei o di un solo Dio): ma la secolarizzazione, dettata anche dal rifiuto della società istruita di vedersi strumentalizzare dagli apparati ecclesiastici, ha messo seriamente in crisi questa dimensione ‘verticale’ della religione. Che fare dunque? Arrendersi a un atomismo individualistico che esalta il privato rispetto al pubblico, ma dimentica che ‘privato’ significa anche esser privo di relazioni con un Tutto di cui sentirsi parte? Oppure, al contrario, fare finta di nulla e riproporre le devozioni di origini medievali con tutti i rischi di feticismo e di idolatria?

     Gli ideatori di queste edizioni hanno saputo, con intuizione creativa, dare una risposta al dilemma. Hanno provato a re-inventare una religione civile che, senza essere in polemica o in  alternativa con la religione cattolica, possa comunque trovare consensi anche nel mondo del disincanto ‘laico’. L’icona della Santuzza come un simbolo di femminilità che, evitando la provocazione sessuale e la mercificazione del corpo, non nasconde le sue forme: come sintesi di gradevolezza estetica e di protezione materna. E soprattutto quel mettere sul carro, intorno al carro e sotto il carro, alcuni protagonisti della Palermo migliore, che resiste ai pregiudizi razziali e al dominio mafioso, quasi a indicare nuovi modelli di santità capace di parlare non solo ai frequentatori di templi e sacrestie, ma anche alle donne e agli uomini del servizio umanitario e della donazione altruistica.



UN DUPLICE  AUSPICIO

     L’osservatore partecipe di questo piccolo miracolo non può fare a meno di nutrire una doppia speranza.

    Prima di tutto: che anche in futuro le autorità civili, lungi dall’addormentarsi sugli allori, continuino a stimolare la creatività degli artisti affinché sappiano arricchire di tematiche e personaggi la struttura formale della festa. Sarebbe davvero triste se, liberatisi dagli stereotipi del passato, si dovessero trasformare i nuovi simboli in stereotipi retorici. La vita scorre: e ci sono molti modi di lavorare per rendere vivibile la città e, di conseguenza, molte rappresentazioni possibili di tali novità.

      Un secondo auspicio riguarda la chiesa cattolica che è in Palermo: che possa evitare di vivere trionfalisticamente questo nuovo corso, quasi una rivincita del sacro sul profano. Le trecentomila persone presenti a ciascuna delle recenti  edizioni non sono trecentomila devoti nel senso canonico, tradizionale, del termine: ognuno di loro ha un proprio modo di interpretare la sua partecipazione e sarebbe bello che tutti i ‘pastori’ imparassero a rispettare, senza imporre etichette, tale pluralità di sentimenti. Tanto più che non si tratta soltanto di rispettare molti modi di vivere il cristianesimo (dal devozionismo cattolico alla sobrietà valdese-metodista-battista), ma ormai molti modi di vivere la dimensione spirituale dell’esistenza (comprese concezioni aconfessionali o addirittura atee) . Con la beatificazione di don Pino Puglisi è arrivato un segnale interessante: il prete è chiamato a vivere il proprio ministero sintonizzandosi con i bisogni e i progetti della gente. Il credente non è invitato a vivere in maniera straordinaria, a prendere le distanze dai concittadini, bensì a condividerne le sofferenze e il desiderio di riscatto.  La chiesa, più che madre e maestra dell’umanità, deve imparare a concepirsi come sorella e compagna: una parte  - forse minoritaria – della società, alla quale apportare il proprio contributo di autenticità e di impegno nell’ottica di un bene ‘comune’ che, in quanto tale, non può essere monopolio di nessuno. Mi pare fortemente dubbio che il pellegrinaggio (un po’ trionfalistico e un po’ idolatrico) delle reliquie di don Puglisi  per le parrocchie della diocesi palermitana  sia stato in sintonia con questa logica ‘pastorale’ auspicabile e con l’elezione di papa Francesco  (non così fanta-teologica come si poteva ritenere sino a pochissimi anni fa.)  Dai segnali sinora registrati la nomina del ‘dossettiano’ don Corrado Lorefice ad arcivescovo del capoluogo regionale lascerebbe ben sperare in un clima diverso.

Augusto Cavadi

                                                              www.augustocavadi.com

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