venerdì 12 maggio 2017

NASCE CON SOCRATE, SOPRAVVIVE CON PLATONE. POI MUORE, MA...


Dalla rivista on line – scaricabile gratuitamente –

della SFI (Società filosofica italiana)

“Comunicazione filosofica”, maggio 2017, n. 38



Giorgio Giacometti, Platone 2.0 . La rinascita della filosofia come palestra di vita, Mimesis, Milano – Udine 2016, pp. 796, euro 40,00



    Ci sono libri che lanciano sfide intellettuali ardite rispetto alle quali sono possibili due reazioni principali: se c’è fumus di paradossalità gratuita, le si lascia cadere nel silenzio; altrimenti si concede l’onore della dialettica. Che nel suo Platone 2.0 . La rinascita della filosofia come palestra di vita (Mimesis, Milano – Udine 2016, pp. 796, euro 40,00) Giorgio Giacometti lanci una sfida ai limiti della sfrontatezza è un dato; che meriti una considerazione attenta è la mia opinione. Qual è dunque la provocazione? Per parafrasare Nietzsche, che c’è stato un solo filosofo ed è morto nel suo letto (ad Atene, nel quarto secolo). Ma diciamolo meglio: se “la filosofia autentica è quella che ti consente di fare <<esperienze di verità>> e di vivere di conseguenza”,  nulla di tutto quello che è stato prodotto in forma scritta merita il nome di filosofia in senso proprio o pieno”. Infatti “la forma scritta, come sappiamo, tradisce l’irrinunciabile forma dialogica del filosofare” (p. 488). Questo sarebbe il nucleo della testimonianza socratica raccolta, e tramandata, da Platone: poiché, però, dopo Platone, la filosofia si è consegnata a un genere letterario della scrittura, quel nucleo è progressivamente sparito dall’orizzonte occidentale (non dai contesti storico-culturali orientali) e solo da pochi decenni, grazie a Gerd Achenbach e alle pratiche filosofiche, sta riemergendo.

   E’ chiaro che un teorema simile si presta a una raffica di obiezioni: merito non piccolo di Giacometti è di averle previste, formulate e contro-argomentate. In ordine crescente di radicalità: innanzitutto chi ci dice che nelle “pratiche filosofiche” (la consulenza filosofica individuale, di coppia o di gruppo; i dialoghi socratici; i seminari; i laboratori; i caffè filosofici, la philosophy for community…) riluca davvero il filosofico? Abbastanza agevole la risposta: “l’effettiva filosoficità di una pratica, che si denomini o meno ‘filosofica’ [], non è qualcosa di immediatamente evidente (primo livello di lettura), ma richiede, per essere riconosciuta, di essere concretamente sperimentata (secondo livello di lettura); in modo da poter vedere l’effetto che fa; certi segni che ci consentano di dire (o meno), a posteriori, di una certa pratica, quale che ne sia la denominazione: ‘Fu vera filosofia’ ” (p. 701).

  Ma se la vera filosofia è dialogo orale, come mai sappiamo questo da testi scritti (come i dialoghi platonici)? Il medium grazie al quale ci viene tramandato il segreto della filosofia sarebbe dunque, esso stesso, negazione del filosofare? Giacometti non evita di ammettere che Platone, da molti considerato il filosofo per antonomasia, “testimonia, forse, della paradossalità della stessa filosofia” (p. 54). E ci ammonisce, dunque, a relativizzare ogni scrittura filosofica che è tale in quanto, da una parte,  evoca un’esperienza filosofica realizzata e, dall’altra, accompagna verso un’esperienza filosofica da realizzare.

   Questa ammonizione platonica Giacometti l’ha trasmessa per molti anni oralmente: ma, avendo deciso adesso di trasmetterla per iscritto, non sta reduplicando  - e aggravando – il paradosso platonico dei dialoghi? Egli se ne mostra consapevole e, lungi dal rigettare l’accusa, ne fa quasi una cifra interpretativa della propria opera: “Questo, dunque – lo si è capito – è un libro che si contraddice per il fatto stesso di essere scritto. La scrittura rende impossibile quel dialogo in cui il vero esercizio filosofico dovrebbe consistere” (p. 60). Per ridurne il tasso di paradossalità, l’autore ha strutturato in forma doppiamente (o triplamente) dialogica il testo: che è un (quasi) dialogo reale fra lui e il lettore, formulato come dialogo immaginario fra lui e un interlocutore (un non- filosofo di professione come solitamente è chi chiede una consulenza) nel corso del quale il consulente racconta lo svolgimento essenziale di dialoghi precedenti reali con altrettanti consultanti. Comprensibilmente, inoltre, Giacometti assicura (in ogni sede possibile, fisica o virtuale) che questo scritto sulla priorità  - filosofica - dell’oralità rispetto alla scrittura sia un hapax legomenon, un unicum irripetibile: una sorta di scala di Wittgenstein da abbandonare ogni volta che sia servita a trascendere il piano della comunicazione scritta. Comunque pare verificarsi anche per lui – appassionato e forbito difensore a oltranza dell’oralità del filosofare – la nemesi storica illustrata da Hans Blumenberg: “Tra i libri e la realtà è posta un’antica inimicizia. Lo scritto si è sostituito alla realtà, nella funzione di renderla – in quanto definitivamente inventariata e accertata – superflua. La tradizione scritta, e infine stampata, si è costantemente risolta in un indebolimento dell’autenticità dell’esperienza. [] Così, dall’aria soffocante, dalla penombra, dalla polvere e dalla miopia, dalla sottomissione alla funzione di surrogato sorge il mondo dei libri come antinatura. E ogni volta contro mondi artefatti si rivolgono movimenti giovanili. Finché la natura sta, di nuovo, nei loro libri” (La leggibilità del mondo, Il Mulino, Bologna 1984, p. 11). Come è successo, per esempio, a Montaigne che, dopo aver elogiato Socrate in quanto aveva evitato di scrivere e dopo aver esaltato ciò che si può apprendere direttamente dalla vita e dal mondo, affida tutto ciò a un libro, sia pur “le seul livre au monde de son espece, d’un desseing farouche  et extravagant” (Essais, II, 8).

     Naturalmente, dal momento che non è un provocatore gratuito, Giacometti finisce con l’ammettere che la sua tesi complessiva – la filosofia che nasce orale, agonizza e si spegne per millenni a causa della scrittura, “rinasce” con le “pratiche filosofiche” dalla seconda metà del Novecento a oggi –  non esclude considerazioni più ragionevoli: che “il ‘dibattito’ secolare su questo o quel tema, che si svolge, per iscritto (orrore!), sulle pagine di questo o quel libro, di questa o quella rivista di filosofia (magari on line) ecc. non produca qualche effetto simile a quello prodotto dal dialogo vis à vis” (p. 774). Allora – ammirati dall’acume e dall’ampiezza delle argomentazioni svolte (grazie alle quali nessun angolo delle pratiche filosofiche rimane oscuro agli occhi di chi vuole conoscerle davvero, al di là delle chiacchiere più o meno giornalistiche, sia come aspirante consulente che come potenziale consultante) – si può condividere senza difficoltà la conclusione del saggio introduttivo (Non solo Platone. Pratiche filosofiche d’Oriente e d’Occidente) di Giangiorgio Pasqualotto (che pure rivendica le caratteristiche dell’autentico filosofare, da Giacometti riservate a Platone e al platonismo, anche a “alcune forti espressioni di pensiero prodotte in Oriente”, p. 16): “La proposta offerta dal libro di Giacometti appare quindi coraggiosa al limite della temerarietà, ma risponde a una comune speranza di rivitalizzare la presenza e l’importanza della filosofia in un mondo in cui il destino sembra sia quello di una globalizzazione sempre più rapida, intensa ed estesa, la quale annienta ogni premessa e ogni forma di esperienza filosofica, lasciando in vita soltanto le forme più elementari e banali di realismo analitico. Forse, allora, per far fronte a questo imminente futuro di miseria e di degrado esistenziale, culturale e concettuale, sembra più convincente e conveniente affidarsi ai sogni antichi di un Giacometti che alle acrobazie profetiche di uno Sloterdijk” (pp. 45 – 46).

  Potrei aggiungere in coda, per gli studiosi di storia del pensiero, che il volume aiuta a comprendere – reduplicato per così dire in diretta – un fenomeno storico che (almeno a me) riusciva prima enigmatico: come è stato possibile che una scuola platonica sia diventata scettica (gli Accademici ellenistici)? L’autore infatti, non mostra alcun pudore nel sostenere che la vera filosofia aspira alla Verità assoluta (cfr. pp. 457 – 459) che coincide con il Bene assoluto (cfr. pp. 478 – 485) : ma proprio perché la méta è così elevata, concetti e parole umane restano irrimediabilmente inadeguati, anzi condannati alla intrinseca “contraddizione”. E allora non è solo la scrittura filosofica, ma sono anche la lettura dei testi filosofici e lo stesso dialogo orale interpersonale a essere esposti all’equivoco e all’interpretazione soggettiva. Siamo forse dinanzi all’ennesimo paradosso: un’impostazione metafisica molto classica (la filo-sofia come eros per le Idee eterne, da vivere sin dalle viscere e non solo cerebralmente) si rivela apparentemente anacronistica, ma in effetti può convivere senza traumi con gli esponenti  più spregiudicati della contemporanea temperie post-moderna .



Augusto Cavadi

www.augustocavadi.com
   



2 commenti:

Bruno Vergani ha detto...

Proprio così. Per quanto vedo sono indispensabili e non in contrapposizione i due modi, quello del dire-ascoltare-rispondere e dello scrivere-leggere. Chi scrive legge, basta sfogliare un saggio di tale Cavadi per rendersi conto, nell’abbondanza di citazioni, che sta dialogando in forma scritta con amici di percorso e con il lettore, così Montaigne. Dunque le due modalità, mi sembra, poggino entrambe sull’Altro. Grazie a Duccio Demetrio ho, tuttavia, appurato quanto lo scrivere si riveli, anzitutto, utile proprio a chi scrive, grazie ai tempi necessari e alla specifica fisicità dell’atto, tastiera inclusa: un pensiero nebuloso si chiarisce e ne stimola altri, non a caso solitamente si scrive in modo differente da come si parla. Anche il dialogo attraverso la parola ha i suoi vantaggi (e svantaggi): basta e avanza che soli in una stanza entri un altro e il nostro corpo-pensiero muta. C’è poi un altro aspetto da valutare, talvolta un testo scritto può toccare nel vivo più della parola, basta partecipare a quei festival filosofici dove la star di turno pontifica dal palco, senza possibilità di interloquire, per rendersene conto. Ma il vero problema è questo: oggi chi vive con l’urgenza di filosofare dialogando attraverso la parola deve mettere in conto una sorta di eremitaggio, ad esempio la settimana scorsa mi sono incaponito di fronte ad un ulivo nel chiedermi: “Ma perché c’è invece di non esserci” e nel confrontarmi sul quesito l’interlocutore del quale disponevo mi aveva (comprensibilmente) guardato perplesso, così il quesito metafisico non mi è rimasto che scriverlo in (apparente) solitudine.
Quanto ho “detto” in questo disordinato intervento è scrittura o dialogo? Sicuramente il WEB stempera la suddivisione, prospettiva con sviluppi futuri tutti da indagare.

Unknown ha detto...

In realtà, come ho scritto ad Augusto privatamente, la vera differenza, come emerge in filigrana nel libro, non corre tanto tra oralità e scrittura, quanto tra "intelligenza" o, se vuoi, "esperienza" della verità (come quando si ritiene di avere avuto un "insight") e linguaggio. Il dialogo (in presenza, ma, perché no, anche in rete), rispetto alla lettura/scrittura di testi, dovrebbe favorire tale intelligenza in quanto "spezza" la "pericolosa" catena delle interpretazioni inevitabilmente soggettive e proiettive che si instaura quando si legge (pensate agli equivoci che sorgono,p.e., quando ci si scambia email senza accompagnare col "non verbale" rilievi che volevano essere magari solo affettuosamente ironici, ma, scritti, suonano insopportabilmente offensivi ecc.). L'idea, insomma, è che la "verità" sia questione di vita e di esperienza e che lo sforzo sia quello di trovare un "medium" il più possibile trasparente e non "auto-referenziale" come troppe volte sono gli scritti, specialmente d'autore, il cui paradigma mi sembra essere, in ultima analisi, quello offerto da quei particolari Scritti il cui autore (e il cui Spirituale interprete autorizzato) sarebbe anche l'autore dell'universo stesso.
Grazie dei commenti lusinghieri, cmq.