domenica 13 agosto 2023

QUANDO A CORLEONE CHI DENUNCIAVA I MAFIOSI DOVEVA POI FINGERSI PAZZO...UN LIBRO DI ERNESTO OLIVA


 QUANDO SOLO I PAZZI (VERI O FINTI) DENUNCIAVANO I MAFIOSI DI CORLEONE

 

Se si vuol capire la ragione per cui le aree para-mafiose del ceto dirigente italiano replicano, con puntualità, i tentativi di smantellare la legislazione sui “collaboratori di giustizia” (giornalisticamente noti come “pentiti”) e sui “testimoni di giustizia” (cittadini onesti esterni alle cosche o addirittura vittime di intimidazioni mafiose) occorre leggere questo intrigante volume di Ernesto Oliva, I pazzi di Corleone. I compaesani di Liggio, Riina e Provenzano, testimoni minacciati dalla mafia e abbandonati dallo Stato, Di Girolamo, Trapani 2020.

Si tratta, infatti, di una puntuale ricerca su documenti, archiviati e dimenticati, relativi a vicende della seconda metà del secolo scorso (pubblicati soprattutto dalla Commissione parlamentare antimafia negli anni Ottanta), da cui si traggono storie ben al di là di ogni immaginazione letteraria. Dalla ricerca, infatti, emergono nomi e cognomi di abitanti di Corleone che – per le ragioni più svariate – decidono di accusare i colpevoli ignoti di delitti ben noti alle autorità giudiziarie, ma che, privi di qualsiasi conseguente protezione, vengono tempestivamente minacciati dai mafiosi e indotti ad annullare le prime loro deposizioni. Con quale stratagemma?

Da qui il titolo del volume: assumendo atteggiamenti, pose, reazioni da “pazzi”.

Uno di questi folli per autodifesa è Luciano Raia, della famiglia perdente del dottor Michele Navarra (medico condotto e capomafia), che inizia a denunciare d’intesa con la moglie Biagia Lanza i membri della famiglia vincente di Luciano Liggio: la loro collaborazione non rimane segreta, viene sbandierata dal Giornale di Sicilia  e al “Valachi siciliano” non resta che comportarsi da smemorato clinico. Un altro pazzo a scoppio ritardato è Vincenzo Maiuri che aveva assistito all’omicidio di un luogotenente di Navarra. Davvero autentico pare sia stato l’impazzimento di Vincenzo Streva che, dopo l’autodenuncia per l’assassinio di un giovane ladro di bestiame e la denuncia dei suoi complici, finisce ricoverato in manicomio criminale (mentre i correi da lui indicati restano a piede libero).

Oliva stesso evidenzia alcune delle numerose considerazioni suggerite dalle vicende che egli ha strappato all’oblio. Innanzitutto “un quadro corale di aperte denunce contro i delitti del clan, del tutto contrastante con l’opinione comune secondo cui Corleone sia stato il luogo per eccellenza della pratica dell’omertà” (p. 20); inoltre che lo Stato – in particolare la magistratura  – ha “permesso in quegli anni alla mafia di Corleone di affermarsi con la forza della soggezione, salvando i liggiani da ergastoli e condanne che avrebbero potuto forse impedirgli di uccidere in seguito investigatori, magistrati, politici, giornalisti e chiunque fosse stato ritenuto capace di opporsi al loro potere stragista” (p. 21). Come si è icasticamente espresso il magistrato e senatore Giuseppe Di Lello, “allo storico silenzio dei siciliani” è corrisposta “una storica sordità dei giudici” (p. 41). 

Ancora una volta, dunque, si conferma la teoria sociologica per cui i responsabili dei delitti di mafia non sono soltanto i mandanti (più o meno occulti) e gli esecutori, ma anche quei rappresentanti delle istituzioni che – per interesse, per vigliaccheria, per mille altre motivazioni – si sottraggono ai propri compiti: abbandonando i cittadini inermi al ricatto delle cosche, ne inducono la maggioranza alla rassegnazione  e condannano all’isolamento i pochi coraggiosi che preferiscono rischiare la vita anziché svendere la dignità.


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