martedì 26 dicembre 2023

IL FILOSOFO CONSULENTE: CHI E', COSA OFFRE, COSA SI ASPETTA? A 20 ANNI DALLA FONDAZIONE DI "PHRONESIS"

 

L'ultimo numero della rivista "Phronesis" - organo dell'omonima associazione di consulenti filosofici italiani: https://www.phronesis-cf.com/rivista/    ("Phronesis", n. 6, seconda serie, dicembre 2023), scaricabile gratuitamente - contiene una sezione dedicata ai 20 anni dell'Associazione professionale. Per l'occasione, alcuni consulenti filosofici più ‘anziani’ sono stati intervistati dalla Redazione. Qui di seguito le domande che mi sono state rivolte e le mie risposte.

 

1)    Per prima cosa ritorniamo all’inizio degli anni Duemila, quando il movimento della P4C, fondato da Matthew Lipman negli anni '70 del Novecento, aveva già una consistenza e la Consulenza Filosofica di Gerd Achembach era ancora poco conosciuta fuori dalla Germania. Cosa ti ha portato a fare il salto da quella che lo stesso Achenbach definisce la filosofia “somministrata” a quella che poi è stata definita la Svolta Pratica e quindi alla Consulenza Filosofica?

·       Quando, tramite Neri Pollastri conosciuto via internet, venni a sapere di Achenbach e della sua proposta di “praxis filosofica”, non ho avuto l’impressione di scoprire nuovi territori, bensì di riconoscere voci amiche. “Allora -  mi son detto – non sono proprio un pazzo isolato!”. Infatti non avevo mai concepito la filosofia altrimenti che come modo di essere al mondo e di sollecitare col dialogo le altre persone a vivere con la stessa tensione verso la consapevolezza (e dunque verso la libertà effettiva). Però non vorrei dare l’idea errata che, da allora, non ho imparato nulla ! Innanzitutto Achenbach, Pollastri e via via altri amici -  incrociati prima grazie all’AICF (Associazione italiana per la Consulenza Filosofica) e successivamente grazie a Phronesis (in particolare Alessandro Volpone, Giorgio Giacometti e Davide Miccione) – mi hanno fornito gli strumenti intellettuali per capire meglio la mia esigenza piuttosto indeterminata a vivere ‘praticamente’ la filosofia; in secondo luogo mi hanno instradato in direzione della “consulenza filosofica” (una pratica che, a differenza di altre, non avevo mai sperimentato nella mia vita; almeno non esplicitamente e, soprattutto, in maniera scevra da posture di consigliere).

 

2)    In quella fase pionieristica, avete cercato contatti con l’Accademia? Come vedeva quest’ultima il nascente movimento?

Sin dagli anni iniziali dell’AICF abbiamo collaborato con docenti universitari, alcuni dei quali (penso ad Andrea Poma) erano proprio interni alla squadra. Dopo alcuni anni (soprattutto quando AICF si è sciolta ed è nata Phronesis) abbiamo capito che il rapporto con gli accademici non era ‘paritetico’: noi eravamo davvero desiderosi di imparare dalla loro competenza storica e teoretica, ma quasi mai essi mostravano lo stesso desiderio di imparare dalla nostra pratica professionale (o, comunque, dalle nostre pratiche sperimentate nei decenni precedenti). Eravamo i cugini poveri di campagna, simpatici ma ruspanti. In alcuni convegni ho avuto poi dei casi eclatanti: a Reggio Emilia, ad esempio, subii un attacco sarcastico da Maurizio Ferraris e fui felice che Enrico Berti (che non avevo individuato fra il folto pubblico) prendesse la parola in difesa del nostro diritto di filosofi-in-pratica di essere “giudicati dai frutti”.

 

3)    Dal punto di vista teorico la consulenza filosofica era un “terreno vergine”, tanto che ogni consulente era la rappresentazione del detto del fondatore: la consulenza filosofica è il filosofo. Quale era allora la tua idea della disciplina, come la sviluppasti e cosa ne è adesso?

·       Come accennavo prima, avevo idea ed esperienze di altre pratiche filosofiche - ad esempio ho lanciato le “vacanze filosofiche estive per non…filosofi (di professione)” nel 1983 – ma non della consulenza filosofica (come l’abbiamo perimetrata in Phronesis). Dunque la concepisco, e tento di realizzarla, secondo il modello Achenbach-Pollastri-Miccione (modello che ho avuto modo di approfondire, anche in relazione ad altre proposte epistemologiche, nel corso di un dottorato di ricerca post-laurea conclusosi con un elaborato finale che è diventato anche un libro: Filosofia di strada. La filosofia-in-pratica e le sue pratiche). Che poi ci riesca bene o meno, non sta a me giudicarlo. Di solito ricevo feed-back positivi da parte dei consultanti (particolare gratificazione ho ricevuto una volta da una persona che era stata in precedenza sconsigliata, da una collega di Phronesis,  di sperimentarmi come consulente filosofico), ma sappiamo che non tutte le ciambelle riescono col buco. Soprattutto se non si è pasticcieri infallibili.

 

4)    La consulenza filosofica di Phronesis nasce professionale, così definita sin dallo statuto, ma proprio la sua professionalizzazione è stato un argomento divisivo all’interno dell’organizzazione. Qual era e qual è la tua posizione?

·       Che si debba lavorare affinché un laureato in filosofia, addestratosi in Phronesis , possa vivere sia pur sobriamente con gli onorari di consulente filosofico, mi pare fuori discussione. In questi venti anni abbiamo constatato che questo tipo di ‘professionalizzazione’ è riuscita in rarissimi casi, tra i quali non rientra il mio. Il fatto che la maggior parte delle pratiche filosofiche da me condotte si svolga a titolo gratuito (nel migliore dei casi con forme di rimborso delle spese) e che i colloqui di consulenza filosofica in senso proprio comportino degli introiti irrisori non mi induce a sentirmi meno professionale che se guadagnassi come un professionista in altri rami. Che la professione sia legata alla ricompensa economica non mi scandalizza, ma non mi convince la tesi che tale compenso costituisca un elemento necessario della categoria ‘professionalità’. Infatti non posso dimenticare che il nesso è interno a un sistema economico (il capitalismo liberal-borghese) il quale, a sua volta, non è né l’unico né vige da sempre né vigerà per sempre. Può darsi che un’umanità che raggiunga altri livelli evolutivi capisca che ciascuno vivrebbe meglio se vivesse – liberamente - in comunione di beni materiali e culturali. Nell’avverbio “liberamente” c’è il baratro che divide questa mia ipotesi dalla teoria comunista marxista-leninista (a cui non ho aderito neppure quando, nel Sessantotto del secolo scorso, era quasi moralmente obbligatorio aderirvi…).

 

5)    I venti di anni di Phronesis corrispondono più o meno anche al periodo in cui si è evoluto, è maturato ed è mutato il panorama filosofico inquadrato nella “svolta pratica”. Ti aspettavi che tanto il movimento in generale quanto la consulenza filosofica potessero riscuotere una maggiore risonanza nella società italiana, oppure, ritieni che il cammino percorso possa essere considerato soddisfacente?

·       Distinguo la risposta in due momenti. Se non prendo un abbaglio colossale, la “svolta pratica” cui fai riferimento dovrebbe essere, indissolubilmente, una svolta teorica e una svolta etica e direi addirittura antropologica: i filosofi dovrebbero, per citare Mounier, non sapere più se vivono il loro pensiero o pensano la loro vita. Se così dovesse essere, non ho gli elementi per giudicare lo stile di vita dei milioni di filosofi di professione che pullulano sul pianeta negli ultimi decenni. Nel piccolissimo campionario statistico che posso osservare intorno a me, mi pare di poter dire che i teorici della svolta pratica siano più numerosi di quanti l’abbiano effettivamente attuata.

In relazione alla consulenza filosofia come professione ho le idee più chiare: venti anni fa mi aspettavo un radicamento e una diffusione lenti nella società, ma non così scarsi. Sapere che le stesse difficoltà sono state incontrate in tante altre nazioni (compresa la Germania di Achenbach), tranne pochi casi e spesso di imbonitori che attraggono ingenui insicuri in cerca di guru, non mi conforta. Mi sembra che sia uno dei campi in cui non è per nulla vero che mal comune equivalga a mezzo gaudio.

 

6) Rileggendo articoli e interviste del tempo, una delle critiche mosse alla CF era quella relativa al suo appiattimento del modello filosofo/consultante su quello psicologo/cliente. Secondo te questa era l’unica strada percorribile dalla CF? Si è forse rivelata un freno per la sua migliore identificazione presso il pubblico?

* Il fatto che fossimo accusati di effettuare tale appiattimento non significava che lo effettuassimo davvero. Anzi, la preoccupazione di mostrarci ‘altri’ rispetto ai colleghi psicoterapeuti è stata costante nella nostra esposizione pubblica, forse addirittura eccessiva. Qui abbiamo scontato la superficialità degli operatori di cultura (docenti universitari e medi, giornalisti, romanzieri) che hanno parlato del nostro lavoro senza leggere una riga di ciò che esso è per noi. Che lo abbiano fatto soggetti in polemica con noi (penso a sociologi come la buon’anima di Dal Lago o a spocchiosi accademici come il Ferraris sopra citato), dispiace ma lo si può capire. Ciò che mi viene più difficile capire è che lo abbiano fatto anche soggetti simpatizzanti per la nostra professione: ad esempio il consulente filosofico del romanzo  La cura Schopenhauer è la caricatura del consulente filosofico come l’intendiamo noi. Peccato! L’autore è bravo e sarebbe stata un’ottima occasione di promozione della nostra immagine sociale.

 

6)    Il discorso teorico-epistemologico sulla CF si è affievolito da qualche anno, forse con il raggiungimento della maturità. Secondo te c’è ancora qualcosa di inesplorato?

* Per la struttura stessa della CF ogni avanzamento teorico-epistemologico potrebbe realizzarsi solo in connessione con il moltiplicarsi delle esperienze pratiche. Se queste ultime sono poco numerose, non mi pare possibile – né auspicabile – che si verifichi il primo.

 

8) Se la consulenza filosofica è nata con Phronesis, il gruppo dei “pionieri” oltre a inventare una professione quasi dal nulla ha anche messo le basi per la formazione di altri professionisti. Qual è secondo te il requisito fondamentale per un filosofo pratico, per un consulente filosofico e come si possono insegnare?

* Non saprei esprimermi meglio di Davide Miccione quando, ancora operante fra noi in Phronesis, si occupava della formazione di nuovo colleghi: “Più che formare i nuovi consulenti, possiamo riconoscerli”. Ci vuole una grande apertura etica per rinunziare a ore preziose delle proprie giornate e dedicarle alla relazione dialogica con uno sconosciuto (a meno che non si sia così poco filosofi da ritenere che lauti onorari – per altro improbabili – compensino il tempo sottratto alla propria ricerca) e ci vuole una altrettanto grande apertura mentale per dialogare con qualcuno (per giunta quasi sempre non filosofo di professione) allo scopo di cercare, insieme a lui, di affrontare un suo problema, senza atteggiarsi (più o meno scopertamente) a maestro di vita. Questa doppia disponibilità morale e intellettuale non la si può insegnare, la si può se mai individuare e valorizzare in qualche soggetto che ne sia già dotato. Forse la si può contagiare testimoniandola  a qualcun altro che  ti affianchi nelle tue attività ( qualcosa di simile alla “comunicazione indiretta” alla Kierkegaard).

 

9) In quei primi anni ruggenti la consulenza filosofica manifesta una vocazione rivoluzionaria: da una parte nella messa in questione del cosiddetto paradigma terapeutico, quel pensiero che medicalizzando ogni ambito dell’esistenza la rende più controllabile, dall’altra nella responsabilità sociale di costituire lo spazio pubblico come luogo filosofico che le attribuisce Thomas Polednischek. Quanto vedi realizzato di quest’ambizione e quanto ti ritrovi in questa visione oggi?

* Sulla prima tematica mi pare che si facciano i conti soprattutto in sede di consulenza filosofica interpersonale. Nella sostanza avevamo e abbiamo ragione: non ogni disagio è una malattia (ed è a questo aspetto che alludevo nel titolo del mio libro di venti anni fa Quando ha problemi chi è sano di mente). Va aggiunto, autocriticamente, che con ogni probabilità non siamo stati abbastanza furbi da praticare la mossa ‘ironica’, suggerita da Giacometti nel saggio Una professione impossibile ?  , di far finta di essere ciò che il consultante si aspetta che siamo (degli oracoli da consultare) per accompagnarlo a capire ciò di cui veramente ha bisogno (nonostante non sappia di averne): un’autonomia di pensiero. La sua domanda è di essere curato in senso terapeutico, ma – se non è effettivamente da affidare a uno psicoterapeuta - noi vogliamo guarirlo dall’illusione, deresponsabilizzante,  di aver bisogno di un terapeuta.

Sulla seconda tematica mi pare che siamo interrogati soprattutto quando ci dedichiamo ad altre pratiche filosofiche di gruppo. Qui rendiamo “lo spazio pubblico” come “un luogo filosofico” sia volendolo che non volendolo, sia sapendolo che non sapendolo: infatti ogni volta che organizziamo un assetto di confronto tra più soggetti non possiamo non orientarli (con il tema prescelto, con le regole della discussione, con il ruolo che ci ritagliamo, soprattutto con le nostre valutazioni di merito) in un senso politico. In senso democratico, partecipativo o autoritario, passivizzante: comunque in un senso politico.

Augusto Cavadi

www.augustocavadi.com

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