venerdì 14 marzo 2014

Cattolici o protestanti o ...Non c'è un solo modo di essere cristiani !


“Riforma”, 11.3.2014



L’INQUIETUDINE ‘ECUMENICA’ DEI CRISTIANI IN RICERCA: UNA SFIDA PER LE CHIESE



    Le frequenti fasi di stallo dell’ecumenismo ufficiale, istituzionale, ci hanno insegnato a valorizzare l’ecumenismo di base, effettivo: quel processo poco vistoso, ma continuo, per cui, in una determinata città o regione del mondo, alcune comunità cristiane si relazionano in vista di un progetto sociale o culturale o spirituale, indipendentemente dalla propria appartenenza confessionale. E’ noto, in questa direzione,  l’impegno teologico e liturgico pluridecennale del Sae (Segretariato per le attività ecumeniche) su tutto il territorio nazionale; chi ha i capelli grigi ricorda già all’inizio degli anni Ottanta forme di aggregazione e di militanza interconfessionale in determinate aree del Paese, per esempio nella Sicilia orientale quando si protestava contro l’installazione di basi missilistiche della Nato a Comiso.

     Non mi pare, però, che sia stato sinora notato un terzo livello nei processi ecumenici: un livello ancora più informale, più spontaneo, più sfuggente rispetto alle iniziative delle chiese locali. Mi riferisco a un fenomeno sociologico sempre meno infrequente, soprattutto nelle grandi città, che coinvolge cristiani (o aspiranti tali) in sincera ricerca di persone e ambienti capaci di accoglierli non solo con gentilezza e affabilità (il che non è poco e non è così diffuso), ma con autentica apertura alla loro problematicità, alla loro inquietudine. Ogni comunità – cattolica o protestante, per non allargare lo sguardo sino alle comunità ebraiche o islamiche o induiste – ha una propria identità, una propria tradizione, starei per dire una propria personalità. Questo non è solo inevitabile, ma anche positivo. In società sempre più anonime, le aggregazioni religiose devono parte del proprio fascino proprio a questo carattere di specificità, di memoria della storia e di progetto per l’avvenire. Le difficoltà sorgono quando i simboli identitari, i patrimoni di fede, le narrazioni locali finiscono  - intenzionalmente e spesso anche involontariamente – col perimetrare un’esperienza comunitaria sino al punto da chiuderla rispetto all’esterno: il confine diventa bastione, ciò che lega gli interni re-lega gli estranei.  Allora quella comunità dà per ovvia, per scontata, la condivisione di credenze, di norme di comportamento, di stili di vita: chi bussa alla porta viene accolto ma gli si fa capire, con modi più o meno espliciti, che o si adegua o ritorna da dove è partito.

        Diciamolo con chiarezza: una certa dose di protettività è fisiologica. Nessuna collettività può permettersi il lusso di rimettere in discussione i propri fondamenti ogni volta che un altro chiede di farne parte.  E’ la logica per cui alcuni pensiamo che l’Italia debba accogliere chiunque voglia venire a vivere, a lavorare e a morire dentro i suoi confini, tranne quanti  - extracomunitari poveri come certi nigeriani o straricchi come certi svizzeri – non accettino gli articoli della Costituzione italiana. Devono anche preferire Dante anzicché Shakespeare, Manzoni anzicché Tolstoj, Lucio Battisti anzicché Louis Armstrong?

          Torniano allora alle comunità cristiane. Un antico adagio recita: unità nelle questioni essenziali, libertà nelle opinabili, carità in tutto.  Esse devono tenere duro su alcuni princìpi, ma proprio tra questi princìpi rientra la tolleranza verso ciò che non è centrale. E quale può essere il criterio di giudizio se non il vangelo di Gesù?  In base ad esso, una comunità deve difendersi dalle infiltrazioni degli ipocriti, dei mafiosi, dei corrotti e dei corruttori; ma deve spalancare le porte ai figliuoli prodighi, ai pubblicani in crisi, alle prostitute desiderose di cambiar vita. Già nell’annunziare il vangelo dovrebbe tener presente la situazione spirituale non solo dei vicini, ma anche dei lontani; non solo di chi (a ragione e spesso a torto) vive beatamente una fede senza dubbi e senza angosce, ma anche di chi avverte l’esigenza di avvicinarsi a Dio “in spirito e verità”, senza conformismi né fideismi sentimentali.

           Ebbene, sempre più numerose sono le persone che intuiscono quali comunità cristiane (cattoliche o protestanti) praticano l’accoglienza evangelica a trecentosessanta gradi  e quali sono troppo preoccupate di preservarsi dagli interrogativi e dalle inquietudini del “mondo”. E scelgono. Per un periodo frequentano una chiesa, per un altro un’altra chiesa; nella propria città riconoscono come punto di riferimento evangelico un prete, nella città in cui lavorano si trovano meglio con una pastora… Come denominare questo fenomeno sociologico  senza qualificarlo già, con disapprovazione o con incoraggiamento, in virtù degli aggettivi prescelti?  Un ecumenismo selvaggio, individualistico, qualunquistico o non piuttosto molecolare, selettivo, radicale nel senso che fiuta la radice delle differenze?

                                                            Augusto Cavadi

                                                                     
Il Direttore di "Riforma" sarebe interessato a ospitare interventi, consistenti ma non troppo estesi, sulla problematica da me sollevata.
Lo potete contattare anche mediante il sito www.riforma.it

1 commento:

Maria D'Asaro ha detto...

Riflessioni davvero significative. Grazie per aver "postato" questo splendido articolo.