venerdì 14 marzo 2014

Stefania Borghi recensisce "Beato fra i mafiosi"



La comprensione della poliedricità del fenomeno mafioso e la condotta che ne consegue rappresentano insieme l’atto intimidatorio più efficace contro la criminalità organizzata. Don Pino ha incarnato questo potente binomio, tanto da assurgere a emblema della lotta per la liberazione dalla sudditanza malavitosa ma, questo stesso fatto, rischia di pietrificare la portata rivoluzionaria della sua condotta in un’immagine sfocata, adatta ad essere rispolverata una volta l’anno per le celebrazioni di rito per poi venir prontamente riposta con cura in un angolino dell’immaginario collettivo.
Beato fra i mafiosi. Don Puglisi: storia, metodo, teologia (Di Girolamo, pp.200, € 15,00), scritto da Augusto Cavadi, Francesco Palazzo e Rosaria Cascio, si prefigge l’ambizioso compito di restituire corpo e volto alla figura del prete palermitano, riconsegnando alla sua concreta azione quel tratto vivido e indispensabile a comunicare a chi legge il profondo e complesso significato dell’impegno profuso.
Perché il parroco dai toni dimessi, dalla presenza pacata, dalla condotta calma e paziente, mai impulsiva o esasperata, divenne un pericolo tanto grave per l’azione della criminalità organizzata? Questo è l’interrogativo a partire dal quale si dispiega il filo conduttore che guida l’analisi sviluppata nel volume.
Il testo ricostruisce con cura l’ordinaria straordinarietà di quest’uomo e propone un racconto alternativo che individua con precisione il contesto storico-sociale nel quale si è inserita l’azione del presbitero e rivela le origini dell’elaborazione del cosiddetto “metodo Puglisi”. Infine, si interroga su quale sia il valore teologico da attribuire alla sua uccisione, comunicando una visione nuova, libera dalla mole di equivoci che si sono sedimentati in questi anni, circa l’effettiva incidenza della condotta tenuta da don Pino nel contesto sociale in cui ha operato.
Una volta specificati i momenti salienti della formazione spirituale, affinata sul campo, e indicati i principi che hanno ispirato il quotidiano lavoro del parroco, vengono portati alla luce i tratti essenziali della metodologia di lavoro che padre Puglisi ha assunto anche nella sua ultima missione. L’aggiornamento continuo degli eclettici studi teologici, filosofici e sociologici affrontati, ha sostenuto e reso ancora più efficace l’operato pastorale sia sul pulpito sia all’esterno delle mura della chiesa, garantendo un costante afflusso di linfa vitale all’instancabile e pluridirezionale impegno speso costantemente a favore della collettività.
Egli inizia il mandato a Brancaccio con la cautela che gli è propria, studia il contesto sociale in cui si trova ad operare e instaura strette collaborazioni con le realtà assistenziali e di volontariato già esistenti. Così, nel quartiere stringe un profondo sodalizio con il Comitato Intercondominiale “Hazon”, movimento nato per rivendicare e ottenere dalle istituzioni quei servizi essenziali considerati essenziali in ogni consorzio civile, ma lì assenti, a partire dalla rete fognaria. Il Comitato è molto attivo, si batte anche per la costruzione di una scuola media, per la creazione di un distretto socio-sanitario e il legame che don Pino intesse con questa organizzazione suscita ben presto forti fastidi.
Padre Puglisi, infatti, non è interessato a svolgere attività di mero assistenzialismo passivo, ma si impegna giorno dopo giorno in un’azione sociale finalizzata a «creare la fine della dipendenza degli assistiti» e lavora senza tregua con gli adulti del territorio che «vogliono per il quartiere diritti e non favori». È proprio questo incessante e sistematico impegno a rivelarsi tanto pericoloso per la criminalità organizzata: se le persone cominciano a scommettere sulle proprie capacità e potenzialità, a sperimentare la possibilità di uscire da condizioni di subalternità, il consenso in favore della mafia rischia di venir meno.
Sulla scia di questo suo agire, don Puglisi matura il proposito di realizzare una struttura in grado di supplire alle gravi carenze sociali esistenti nel quartiere e per tale motivo, con instancabile pazienza e incrollabile fiducia, nel gennaio 1993 inaugura il centro di accoglienza Padre Nostro. Cominciano allora a intensificarsi le intimidazioni, egli infatti conosce l’ambiente e i pericoli che possono «scaturire da un’azione mirata a scalfire marginalità e soprusi», eppure con il fare pacato che gli è proprio non desiste, ma riesce addirittura a compiere l’insperato: crea modelli di vita alternativi a quelli imposti dalle cosche. Il suo instancabile esempio materializza la possibilità di edificare realtà sociali e vite individuali dignitose, libere da ricatti mortificanti; pur non lanciandosi in virulenti attacchi frontali contro la criminalità organizzata, dimostra che un’esistenza diversa è praticabile e invita ogni singola persona all’impegno quotidiano.
Questo suo operato ha contribuito anche a scolpire un nuovo modello di presbitero che «assume come proprio compito pastorale il riscatto culturale, civile, economico del territorio» e il testo prospetta un’interessante riflessione sul significato teologico dell’uccisione di Padre Puglisi. Egli è un martire della fede perché ha incarnato il messaggio autentico del Vangelo: il suo impegno e la sua beatificazione hanno «rivoluzionato il modello della santità cattolica», smascherando quella religione priva di fede che si trincera dietro un «atteggiamento astrattamente neutrale» giustificato dalla scaltra e opportunistica interpretazione secondo la quale la Chiesa non può schierarsi a favore di alcuni a discapito di altri.
Don Pino non si è mai scagliato contro nessuno, non ha lanciato invettive furiose ma, con la pratica sempre coerente ai principi testimoniati, è riuscito a conquistare la fiducia delle persone, a contagiarle con la sua umanità, trasmettendo loro valori positivi e aprendo squarci di luce inaspettati. Il semplice e ossequioso rispetto per il dettato evangelico assume così una carica eversiva per il potere della mafia, perché ne sconfessa tutti i dogmi. Il piccolo parroco «ha strappato la maschera al Dio dei mafiosi… E molti cattolici hanno scoperto, con sgomento, che quel volto – assai distante dal Dio di Gesù – assomiglia inquietantemente al Dio della loro formazione catechistica, delle loro tradizioni familiari…».
Con equilibrata fermezza ha concretizzato un modello civico di lotta nonviolenta; la capillare condotta intrapresa, la sua perseverante pressione nei confronti delle istituzioni e, soprattutto, l’aver acquisito credibilità agli occhi degli abitanti del quartiere, hanno fatto vacillare le fondamenta del consenso di cui la mafia da sempre si nutre. L’azione pastorale da lui innescata ha aperto la comunità ecclesiale alle esigenze del mondo circostante e ha comunicato a ciascuno l’idea rivoluzionaria di pensarsi come attore della propria vita, non più vittima passiva e inconsapevole del fato.
Bandito qualsiasi tentativo di osannare la figura di padre Puglisi, il testo propone spunti di riflessione non scontati, capaci di attribuire rinnovato vigore al messaggio del parroco che, come afferma Salvo Palazzolo, in una delle preziose testimonianze presenti nel libro, è stato ucciso perché «aveva annunciato il futuro nel quartiere che futuro non doveva avere».
Stefania Borghi
(www.excursus.org, anno VI, n. 56, marzo 2014)

1 commento:

Maria D'Asaro ha detto...

Bella recensione, meritata dall'ottimo libro.