martedì 22 maggio 2018

CHIESA CATTOLICA E MAFIA: IN CONVERSAZIONE CON LUCA KOCCI

DOCUMENTO ANTIMAFIA DEI VESCOVI SICILIANI. L’ANALISI DI AUGUSTO CAVADI E ALESSANDRA DINO

Adista 
26 MAGGIO 2018 • N. 19 
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    S’intitola “Convertitevi!” la lettera che la Conferenza episcopale siciliana (Cesi) ha reso nota lo scorso 9 maggio, in occasione del venticinquesimo anniversario dell’ormai storica invettiva antimafia di Giovanni Paolo II nella Valle dei Templi di Agrigento («Dio ha detto una volta: “Non uccidere”: non può uomo, qualsiasi, qualsiasi umana agglomerazione, mafia, non può cambiare e calpestare questo diritto santissimo di Dio!... Convertitevi! Una volta ver- rà il giudizio di Dio!»). 
«Tutti i mafiosi sono peccatori, quelli con la pistola e quelli che si mimetizzano tra i cosiddetti colletti bianchi», si legge nella lettera della Cesi (pubblicata anche da Il Pozzo di Giacobbe). Le mafie sono «strutture di peccato» e, scrivono i vescovi, sono peccati non solo omicidi, stragi e traffici illeciti, grandi e piccoli, dentro e fuori la Sicilia (o l’Italia), ma anche «l’omertà» (il «silenzio» di chi diventa «complice») e la «la mentalità mafiosa», che «si esprime nei gesti quotidiani di prevaricazione». 
La lettera affronta in termini autocritici anche il nodo dei legami fra Chiesa cattolica e mafia. «La mafia – scrivono i vescovi – è un problema che tocca la Chiesa, la sua consistenza storica e la sua presenza sociale in determinati territori e ambienti, il vissuto dei suoi membri, di quelli che resistono all’invadenza mafiosa e di quelli che invece se ne lasciano dominare». Per molto tempo la Chiesa è restata in «silenzio» davanti al fenomeno mafioso. Ora la «comunità credente, nel suo complesso», ne ha «preso le distanze». Però, notano i vescovi, «rischiamo di passare dal silenzio alle sole parole», e «il discorso ecclesiale riguardante le mafie» di essere «più descrittivo che pro- fetico». Vanno bene le «scomuniche», ma hanno «eco brevissima». Invece devono entrare nelle «parrocchie» (con una «catechesi interattiva, pratica e contestuale»), attraversare «le strade delle nostre città e dei nostri paesi», «scuotere davvero i mafiosi» ad una «conversione sincera» («chi si affilia alle organizzazioni mafiose pur continuando a farsi il segno della croce»). 
«In questo messaggio si riconosce l’impronta di un episcopato giovane che ha avuto modo di analizzare, negli anni della sua formazione al ministero, il fenomeno mafioso (anche sulla scia di docenti come don Francesco Michele Stabile, don Pino Ruggeri e mons. Cataldo Naro), un episcopato rappresentato da presuli come don Corrado Lorefice che, nel discorso di insediamento alla guida della diocesi di Palermo, cita Peppino Impastato accanto a don Pino Puglisi», spiega ad Adista Augusto Cavadi, fondatore della “Casa dell’equità e della bellezza” di Palermo e autore, fra l’altro, de Il Dio dei mafiosi (San Paolo, 2009). «In questo messaggio – prosegue – i vescovi cercano di rimediare a un grosso limite della lettura della mafia da parte di Giovanni Paolo II che vi vedeva esclusivamente l'aspetto criminoso-militare e non anche la valenza corruttivo-politica. Né il papa allora né vescovi oggi, però, accennano alla portata “mafiogena” della dottrina teologica cattolica: invocano infatti un recupero della religiosità come antidoto alla mafia senza sospettare che il cattolicesimo meridionale, per certi versi antidoto alla mentalità mafiosa, per altri versi ne è una riserva di idee, pregiudizi, simboli... Basti pensare soltanto alla concezione di un Padre-padrino che si placa solo al cospetto del sangue del Figlio o alla convinzione che Egli conceda grazia e favori terreni solo per la raccomandazione di mediatori celesti come la Madonna e i santi del calendario». 
Coglie luci e ombre del documento anche Alessandra Dino, docente di Sociologia della devianza, studiosa dei rapporti fra Chiesa cattolica e mafie, e autrice fra l’altro de La Mafia devota (Laterza, 2008). «Dopo il Concilio Vaticano II e dopo la strage  di Ciaculli del 1963 – spiega ad Adista –, anche la Chiesa siciliana comincia a porsi

esplicitamente il problema mafia dopo decenni caratterizzati da silenzi, forme di “coabitazione” ed episodi di compromissione con esponenti mafiosi. In particolare tra il 1973 e il 1982, la Cesi parla più volte delle moderne forme di gangsterismo mafioso, dell’accumulazione parassitaria, della violenza che affligge la Sicilia, esortando le comunità ecclesiali a un ruolo attivo di educatori, soprattutto nei confronti dei giovani. Il tema però, pur evocato a parole, resta perlopiù confinato nei documenti, non ha ricadute diffuse e univoche nella prassi ecclesiale e pastorale di vescovi e parroci, anche se non mancano decise prese di posizione, come l’iniziativa promossa, nell’agosto del 1982, dai parroci del cosiddetto triangolo della morte (Bagheria, Altavilla Milicia, Casteldaccia) o le dure e accorate omelie del card. Pappalardo, o la Nota della Cesi del 1994 Nuova Evangelizzazione e Pastorale in cui la mafia è inequivocabilmente definita come “struttura di peccato”». Tuttavia, prosegue Alessandra Dino, si assiste ad un procedere ondivago con avanzamenti, in occasione di eventi eclatanti, arretramenti e spaccature profonde, quando a essere chiamati in causa sono questioni cruciali (pentimento/collaborazione, giustizia divina/giustizia terrena) o soggetti interni alla Chiesa stessa (si pensi, per fare solo un esempio, all’effetto prodotto sulla comunità religiosa dall’arresto di padre Mario Frittitta e alle critiche seguite alla pubblicazione del documento dei saggi che definiva il comportamento del carmelitano una “indebita cappellania”)». Quanto all’oggi, conclude, «la nuova lettera dei vescovi di Sicilia presenta indubbie novità sia nel corredo di immagini che accompagna il testo (e che, pur senza nominarle, mostra i volti di alcune importanti “vittime laiche” di mafia) sia nel lessico e nello stile volutamente incentrato sul registro dell’annuncio evangelico, risoluto contro il fenomeno mafioso ma ugualmente deciso a preservare la “propria identità”, riconoscendo nella mafia “un problema che ha dei contraccolpi anche sull’autoconsapevolezza della Chiesa e sull’immagine che di sé essa offre”. Meno attento però è il documento nell’analisi del fenomeno mafioso che viene prevalentemente presentato nelle sue dimensioni e ricadute culturali (“deficit culturale” contrapposto ad “impegno pedagogico”), rischiando di sottovalutare le sue radici economiche, politiche e sociali e il suo intreccio, non occasionale ma strutturale, con i luoghi del potere. Un potere criminale in grado di dialogare e colludere anche con ambienti religiosi, con effetti che vanno oltre il comportamento di “qualche ministro di Dio, pavido e infedele,” indotto a “dimenticare il diritto di resistere a ogni costo a ciò che è contrario al Vangelo”. Insieme allora ai pur importanti pronunciamenti, penso che il punto di svolta siano le prassi concrete, quell’ “efficacia performativa” cui il nuovo documento della Cesi fa rifermento e che dovrebbe, non solo “interpellare i mafiosi”, ma anche portare gli uomini di Chiesa a riflettere sulle scelte concrete da intraprendere nel quotidiano esercizio del loro ministero». (luca kocci) 

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