sabato 14 maggio 2022

EDUCARE IN FASE DI MUTAMENTI EPOCALI


 EDUCARE IN FASE DI MUTAMENTI EPOCALI

 

 

G. Buondonno – G. Bagni, Suonare in caso di tristezza. Dialogo sulla scuola e la democrazia, PM edizioni, Varazze 2021, pp. 191, euro 14,00.

 

Quando un settantenne di oggi andava a scuola, da alunno, incontrava insegnanti che appartenevano – grosso modo – alla stessa era geologica. Ai nostri giorni non è più così: i 40-50 anni di differenza fra gli scolari e i loro docenti segnano un passaggio d’epoca che rende ancor più difficile di sempre intendersi. A questo stacco generazionale (che vale anche all’interno delle famiglie se i genitori non sono più giovanissimi) si reagisce in vari modi: dal pugno duro dell’autoritarismo dogmatico alla rassegnazione di chi abdica a ogni ruolo educativo e, magari, prova a comprarsi un po’ di rispetto giocando a fare l’eterno adolescente. I risultati, in questa varietà di casi, non sono entusiasmanti: si cresce male sia in regime carcerario che senza nessuna indicazione normativa, sia pur da disattendere. Due educatori di lunga esperienza scolastica – Peppino Buondonno e Peppe Bagni – si sono confrontati a lungo, via posta elettronica, su alcuni risvolti didattici di questa problematica e hanno deciso di condividere, in un oggetto cartaceo tradizionale chiamato libro, una parte dei loro messaggi. E’ nato così Suonare in caso di tristezza. Dialogo sulla scuola e la democrazia (PM edizioni, Varazze 2021, pp. 191, euro 14,00) scritto da due “immigrati digitali che insegnano a nativi digitali” (p. 28), consapevoli del cambiamento tra quando il professore doveva “sedurre i propri allievi, nel senso letterale di «se ducere»: condurre con sé, verso un mondo che sapeva di conoscere molto meglio di loro” (p. 29) a quando, come adesso,  li deve preparare a un mondo per certi versi più noto a loro che a lui e, per altri versi, ignoto a entrambi. 

In questa incertezza globale le poche acquisizioni certe delle scienze cognitive (dalla neurologia alla psicologia dell’età evolutiva) non entrano – di norma – a rivoluzionare la didattica quotidiana effettiva: per esempio facendo sul serio i conti “con gli aspetti percettivi mutati, con quelli elaborativi, con la capacità di concentrazione, con il mutato rapporto tra pensiero ed emozione” (p. 38). Fare i conti con questi mutamenti antropologici non significa assecondarli passivamente, ma provare a gestirli criticamente. Prima di tutto con onestà intellettuale e senso di autocritica: se, ad esempio, io insegnante per primo non riesco a staccarmi dieci minuti dal cellulare o se mi accorgo – riflettendoci su – che non riesco a leggere per intero un libro da più di un anno perché dedico tutto il tempo libero a curiosare su internet, è preferibile che eviti  rimproveri e consigli. Meglio sperimentare preliminarmente su se stessi strategie di liberazione e di acquisizione di quella ‘nuova’ saggezza che consiste nell’abbinare, alla capacità di cercare ciò che non si sa, l’intelligenza di capire cosa è meglio continuare a ignorare per non affollare la mente di nozioni e immagini superflue. 

Il dibattito sull’impatto della quarta rivoluzione industriale  - la rivoluzione che ha introdotto le zone privilegiate del pianeta nell’infosfera – nelle pratiche didattiche ha ricevuto una forte accelerazione dalla pandemia da covid-19. I due autori concordano nel valutare positivamente la didattica a distanza come “sforzo della scuola, sacrosanto e bello, per dare segni della sua presenza e permanenza comunque”; per “ricordare a ciascuno che la scuola c’è, che li attende, che si sforza di tenerli in contatto tra loro, perché il legame sia reale e non virtuale”. Ma a patto di non trasformare queste modalità d’emergenza “in un modello innovativo  per la scuola del futuro”. Si tratta piuttosto di vivere la chiusura temporanea della scuola - casa (fisica) comune – come occasione per riscoprirne il valore: “come scrive Saramago, per vedere l’isola devi remare verso il largo. Solo a distanza apprezzi i suoi confini” (p. 99).

Le problematiche pedagogiche, lungi dall’incidere soltanto all’interno dei perimetri scolastici e universitari, comportano effetti dirompenti sul piano socio-politico: ormai siamo dentro un circolo perverso nel quale politici ed elettori sono carnefici e vittime, insieme, di un’involuzione cognitiva ed etica verso “la semplificazione, l’annientamento della complessità e della contraddittorietà” (p. 41). Non è certo “un caso se, in assenza di un pensiero critico sulla conoscenza, anche il pensiero critico sulla società capitalistica globale è minoritario e impotente” (p. 51).   Dunque, ancora una volta – e come sempre -  “dalle domande sulla scuola, emerge una domanda sull’umanità, sulle strutture sociali, sulla democrazia” (p. 42). 

E’ del tutto comprensibile che in un dialogo sulla scuola - per quanto a trecentosessanta gradi come questo fra due educatori di lungo corso -  non si possano affrontare tutti gli aspetti. Senza nessuna vena polemica, quindi, ma solo come contrappunto integrativo mi permetto di avanzare due considerazioni.

La prima è suggerita dalla constatazione che gli autori sottolineano, opportunamente, la necessità che a scuola si impari, concretamente, a “cercare risposte collettive perché, come questo tempo di pandemia dimostra drammaticamente, sono le uniche efficaci” (p. 98): non mancano, in proposito, qua e là, i riferimenti nostalgici all’aria del Sessantotto, quando i fermenti e i conflitti sociali si riverberavano all’interno delle aule e dalle aule rimbalzavano per le strade e le piazze. (In qualche passaggio ho trovato delle trasfigurazioni idealizzanti, almeno rispetto alle mie esperienze effettive dell’epoca: le assemblee studentesche non sono mai state solo espressione di “partecipazione orgogliosa”(p. 187), ma anche esercizi di narcisismo dettati da impulsi esibizionistici, nei leader,  e voglia di ottenere tutto senza faticare molto, nei gregari). Non manca  (a p. 186) un riferimento all’incisiva sentenza Don Milani: “Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è politica. Sortirne da soli è avarizia”. Sentenza preziosa per chi, come me, aveva ricevuto in ambienti cattolici una formazione incentrata (almeno metodologicamente) sulla crescita interiore, e gli riusciva faticoso superare la diffidenza nei confronti delle proposte ‘rivoluzionarie’ (identificate spesso con i socialismi ‘reali’ in URSS e in Cina). Ma, leggendo le pagine di questi colleghi cresciuti in ambienti culturali marxisti, o comunque di ‘sinistra’, mi sembra di cogliere una difficoltà per così dire speculare: la diffidenza nei confronti della dimensione spirituale (identificata spesso con l’adesione di fede a una chiesa). Proprio la testimonianza del parroco di Barbiana, invece, mi ha anche insegnato negli anni a capire che la dimensione politica, militante è autentica solo come risvolto di quella dimensione interiore che, nel pur prezioso dialogo fra i due co-autori, viene trascurata o, almeno, data per scontata.  A me ex-sessantottino, il mezzo secolo successivo trascorso da docente e consulente filosofico ha insegnato la necessità di una difficile sintesi fra coltivazione della propria soggettività e impegno civile in mobilitazioni collettive: fra cura della propria spiritualità (prima di tutto basica, laica, a-confessionale) e investimento energetico nello spazio politico (senza accecamenti ideologici che impediscano la critica all’interno stesso degli schieramenti in cui ci si decide a militare). Arrivato anch’io al tramonto dell’avventura terrena, non posso esimermi dal testimoniare che dei tanti compagni che nella seconda metà del XX secolo dichiaravano (con sincerità e passione) di voler cambiare il mondo, molti si sono limitati a ritagliarvisi un cantuccio dove rifugiarsi o da dove arrampicarsi per una privatissima scalata sociale. Chi ha provato davvero a incidere nella storia, complessa e intrigata, dell’umanità sono state quelle persone – donne e uomini – che hanno riversato nell’attività professionale di magistrato o di insegnante, di amministratore pubblico o di imprenditore privato, di giornalista o di poliziotto, di regista o di prete…i frutti di un’effettiva maturazione intellettuale e morale (per evocare Gramsci). A conferma della luminosa asserzione di Georges Friedmann: “Numerosi sono quelli che si immergono interamente nella politica militante, nella preparazione della  rivoluzione sociale. Rari, rarissimi quelli che, per preparare la rivoluzione, se ne vogliono rendere  degni”. La scuola che sogno è dunque certamente il luogo in cui qualcuno – in controtendenza rispetto alla opinio communis – mostra alle nuove generazioni che il sistema mondiale non può continuare come è andato negli ultimi cinque secoli; che urgono inversioni di tendenza decisive e che “scelte radicali rendono necessari conflitti duri e coraggiosi”  (p. 103) contro i privilegiati che autolesionisticamente stanno guidando la storia dell’intera umanità verso il precipizio; ma anche una palestra dove si imparano la meditazione silenziosa, la contemplazione della bellezza, l’alfabetizzazione emotiva, la grammatica affettiva, la sobrietà nei consumi, la compassione verso tutti i viventi, l’ammissione dei propri errori, la magnanimità di rallegrarsi per i pregi altrui. Perché non è vero che si diventa felici spendendosi per la rivoluzione, piuttosto la rivoluzione ha qualche chance di riuscita se a gestirla  è gente felice. Gli infelici sono marci e, quando hanno in mano uno scampolo di potere, l’usano o per sadismo o per interesse privato. 

Proprio la stima verso i co-autori di questo agile, ma denso, libretto mi suggerisce una seconda considerazione: il rammarico di non aver letto il loro parere su una questione che ritengo primaria. Per essere brevi e un po’ spietati: nei quaranta e più anni di servizio ho constatato che raramente gli alunni e le alunne più in gamba decidono di studiare all’università per diventare insegnanti. Medici o magistrati, dirigenti nell’amministrazione statale o nelle imprese private, giornalisti o diplomatici…ma insegnanti no. La ragione più ricorrente: se si è consapevoli delle proprie doti, a vent’anni non si intraprende una strada da cui è certo che si uscirà a settanta con lo stesso riconoscimento sociale e con la stessa remunerazione economica con cui si è entrati. In tutti gli altri settori professionali puoi diventare, se ci aspiri, primario d’ospedale o giudice di cassazione, capo di gabinetto ministeriale o direttore di banca, corrispondente da Mosca o ambasciatore a New York. Ma, se scegli l’insegnamento, sai che ti arruoli da soldato semplice e che da soldato semplice sarai congedato. A meno che non decida di fare il dirigente scolastico o l’ispettore ministeriale: cioè di abbandonare il lavoro che ti appassiona. Per molti di noi intraprendere la strada dell’insegnamento ha comportato una scelta etica, e ascetica, gravosa: come avevamo previsto e accettato, ci troviamo a riscuotere un emolumento mensile pari alla metà, spesso a un terzo o un quarto, dei nostri coetanei. Possiamo andarne fieri (personalmente rifarei esattamente le stesse scelte professionali, anche se né l’idraulico né l’elettricista hanno preso per vera la mia risposta alla loro domanda sull’ammontare della mia pensione), ma non possiamo pretendere che altri siano animati dallo stesso spirito missionario e/o politico-ideologico. Si badi bene: non è necessariamente una questione di soldi, ma neppure si può prevedere che in una società capitalistica l’unico settore professionale nel quale il denaro non abbia rilevanza sia il comparto degli insegnanti. Sino a quando vigerà il patto tacito fra Stato e i docenti della scuola primaria e secondaria (vi assumo senza filtri severi e, una volta in ruolo, vi esonero da qualsiasi verifica della quantità e della qualità della vostra prestazione; ma in cambio accontentatevi di stipendi inferiori agli altri professionisti), non sarà evitabile il paradosso di una scuola che – mediamente - non riesce ad arruolare fra i suoi quadri proprio i frutti migliori della sua semina. In Italia operano – senza contare gli istituti privati – circa 700.000 insegnanti: è intuitivo che, per rispondere a questo fabbisogno di operatori, non si possano adottare gli stessi criteri selettivi vigenti per i circa 10.000 magistrati. Ma in ciascun ordine e grado di scuola non ci sono maestri/e e professori/esse unanimemente riconosciuti/e come appartenenti a una fascia di merito e altri/e appartenenti ad altre fasce di merito? Non ci sono strumenti per ufficializzare e istituzionalizzare queste differenze effettive, senza mortificare né chi può e vuole dare di meno alla scuola né chi può e vuole dare di più? E’ equo riservare il medesimo trattamento sia al docente che svolge una seconda attività privata, si assenta spesso, arriva abitualmente in ritardo, è scostante o aggressivo con gli alunni, non si aggiorna né sui contenuti della propria area disciplinare né sui termini dei dibattiti pubblici né sulle sperimentazioni didattiche…sia al docente che si dedica alla sua professione a tempo pieno, si assenta solo in casi gravi, rispetta con puntualità gli orari di servizio, è comprensivo e rispettoso nei confronti degli alunni, dimostra continuo desiderio di approfondimento sia nell’ambito dei propri studi che nelle questioni socio-culturali in generale ?   Si potrebbero esaminare delle proposte legislative (anche mutuate da sistemi scolastici di altri Paesi come la Francia)  se non si fosse prigionieri, soprattutto nelle aree ‘progressiste’, di alcuni tabù pseudo-egalitari: ma non è questa la sede per esporle e per controbattere le solite obiezioni demagogiche sull’impossibilità di valutare una prestazione ‘sacra’ come l’insegnamento. Mi limito a osservare che, sino a quando non si scioglierà questo nodo (una sorta di conventio ad excludendum gli studenti migliori dalla professione docente), non sarà minimamente intaccato l’80% delle difficoltà del sistema scolastico. Viceversa, inserirvi nei gangli numerose personalità carismatiche – a cominciare dal carisma di saper mettere, senza arroganza sprezzante, le proprie doti a servizio dei colleghi e degli studenti di tutto l’istituto in cui si è incardinati – senza scoraggiarle in fase di scelta della professione e, nel caso che comunque intraprendano la professione docente, senza indurle ad abbandonare la scuola, primaria e secondaria, per accedere alle cattedre universitarie o agli uffici di dirigenti scolastici, sarebbe un’iniezione di vitalità intellettuale e di energia morale.   C’è qualcosa di perverso nella situazione attuale in cui, se un bravissimo insegnante di scuola dell’infanzia o di scuola primaria (apprezzato autore di saggi e relatore ai convegni internazionali) ha da mantenere decentemente una famiglia, è costretto a lasciare il suo ruolo per insegnare al liceo o all’università  dove, invece, accanto a docenti altrettanto preparati, vegetano – praticamente inamovibili – personaggi manifestamente inadeguati: ma davvero riteniamo che educare con saggezza bambini e adolescenti sia più facile, e meno socialmente rilevante, che tenere lezioni a studenti maggiorenni fortemente motivati? I piloti di aerei devono avere una notevole preparazione, ma non riuscirebbero a volare nei cieli se a terra operassero dei mediocri controllori di volo: che succederebbe se i controllori di volo più esperti avessero, come unica possibilità di carriera, diventare piloti d’aereo?

 

Augusto Cavadi

www.augustocavadi.com

 

http://www.istitutoeuroarabo.it/DM/educare-in-fase-di-mutamenti-epocali/

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