lunedì 27 maggio 2024

GESU', IL FIGLIO DEL BOSS, NEL RACCONTO DI SALVO ALES


Yeshu’a è un nome aramaico (in latino Jesus) molto diffuso prima, durante e dopo la vita di Gesù il Nazareno (che, infatti, ebbe bisogno di ulteriori denominazioni per essere individuato fra molti omonimi: “figlio di Giuseppe”, “l’Unto (nel senso di  Inviato)”. Nulla di strano, dunque, che si incontrino, nella vita reale e nella letteratura, persone con questo nome i cui tratti caratteriali possono somigliare poco – talora per nulla – all’immagine che di Gesù ci hanno consegnato i vangeli (sia ‘canonici’ che ‘apocrifi’).

A noi italiani è difficile non pensare al “Gesù bambino” che “gioca a carte e beve vino” della toccante canzone 4 marzo 1943 di Lucio Dalla. Su questa lunghezza d’onda – affettuosamente demitizzante – troviamo il protagonista del romanzo di   Salvo Ales, Lo chiamavano Gesù (Gruppo Editoriale Bonanno, Acireale 2024).       

Non è un santo, almeno non secondo il prototipo dell’immaginario collettivo cattolico (se mai vicino al protagonista de La leggenda del santo bevitore di Joseph Roth). Addirittura è figlio di un boss mafioso e, per certi versi, ne condivide alcune caratteristiche. Ma, sostanzialmente, ne prende le distanze, un po’ come Peppino Impastato nei confronti del proprio padre e della famiglia d’appartenenza. Così la narrazione scorre su un registro ambivalente: a momenti sembra che questo Gesù ricalchi la mitezza, la pazienza, la dolcezza di quell’altro;  in altri momenti, invece, ne è come l’immagine capovolta, antipodica. Infatti di solito è incapace di rispondere alla violenza con la violenza, ma è anche “invidioso” del fratello biologico, al punto da arrivare a volersi “vendicare” di un suo ennesimo atto di spavalderia. Il risultato letterario è intrigante: un personaggio complesso, equidistante dalla enfatizzazione sdolcinata come dalla demonizzazione moralistica.

Qualcuno, spiazzato da tale complessità,  ha ritenuto blasfemo questo scritto, un po’ come vennero giudicate blasfeme le poesie-canzoni di Fabrizio De André raccolte nell’album La buona novella (non a caso qui citato in esergo). Se riteniamo che il Gesù della storia sia stato il Cristo Pantocratore dei catini absidali bizantini, allora questa rappresentazione letteraria è davvero blasfema, o almeno troppo riduttiva. Ma – non so quanto consapevolmente – Ales si sintonizza con le più recenti interpretazioni della figura di Gesù secondo cui egli è stato un essere umano come tuti gli altri e che solo gradualmente è diventato Dio nel culto delle prime comunità e nelle definizioni dogmatiche dei primi concili (a partire da Nicea nel 325). Se – come mi sono convinto dopo decenni di studio – questa cristologia dal “basso” è la più aderente alla verità storica, la lettura di Gesù che traspare nelle pagine di Ales non è solo consentita, ma  addirittura l’unica ortodossa. Ci restituisce, infatti, un Gesù vivo, vero, capace di sperimentare l’amore a trecentosessanta gradi: non solo dunque come agape e philia, ma anche come eros. Un Gesù imitabile perché imperfetto, in progress: come lo siamo gli uomini e le donne della storia effettiva, non delle idealizzazioni alienanti. 

PER COMPLETARE LA LETTURA, BASTA UN CLICK QUI:

https://www.zerozeronews.it/gesu-sulla-croce-di-cosa-nostra/

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