domenica 29 giugno 2025

SI DELINQUE PERCHE' SI E' MASCHI O PERCHE' LO SI VUOLE DIVENTARE ?

Maschilità, devianze, crimine (Meltemi, Milano 2018), di Cirus Rinaldi, non è un testo divulgativo, ma la sua tesi centrale merita di essere divulgata (anche dopo alcuni anni dalla pubblicazione). Non è un testo divulgativo: infatti l’autore procede in fittissimo confronto con i sociologi, i criminologi, gli antropologi elencati nella bibliografia finale, che occupa ben venti pagine (pp. 161 – 181). Tuttavia la sua tesi centrale merita di essere conosciuta ed esaminata: infatti, capovolgendo l’opinione tradizionalmente maggioritaria, consiste nell’affermare che i maschi, quando delinquono, delinquono  non perché sono maschi, ma perché vogliono diventarlo.

A prima vista la tesi può risuonare sterilmente provocatoria: maschi si nasce, non lo si diventa (né consumando reati né compiendo imprese eroiche). Ma se questo è vero (abbastanza vero, non assolutamente) dal punto di vista biologico, non lo è dal punto di vista socio-culturale: sin dai primi vagiti, ciò che siamo per natura è modellato secondo le idee e i costumi dominanti nel nostro ambiente. Dunque siamo maschi o femmine anche, ma non esclusivamente né prevalentemente, per ciò che ci troviamo fra le gambe (il “sesso”): ma almeno altrettanto rilevante il ruolo che la società ci assegna (il “genere”).  Non si tratta di questioni puramente teoretiche.

Se, come in questo denso testo di Rinaldi, ci limitiamo all’angolazione sociologico-giuridica, osserviamo che in una prima fase la criminologia di matrice materialistico-positivistica ha attribuito alla “essenza” del maschio la propensione a certi delitti e alla “essenza” della donna la propensione ad altri delitti (e ciò sino al punto, ad esempio, che per decenni la giurisprudenza ha stentato ad attribuire a donne responsabilità apicali nelle gerarchie mafiose perché ritenute prive delle qualità psico-fisiche e mentali necessarie). Ma l’evoluzione della ricerca scientifica ha indotto una graduale, sostanziale, modifica: ci sono “vari tipi di maschilità” che “si (ri)producono, insieme ad altre dimensioni identitarie, proprio attraverso il compimento di condotte devianti e criminali” (p. 151): sia “giovani maschi, razzializzati, di classe operaia o sottoproletari che vivono in contesti svantaggiati economicamente”, sia “maschi privilegiati” appartenenti alla borghesia imprenditoriale, autori di “crimini specifici – come frodi finanziarie, peculato, riciclaggio, danni ambientali, etc. –”, “non fanno ricorso a condotte devianti/criminali perché mossi da predisposizioni, indole o propensioni <naturali>” (p. 152), sono “maschi che si sentono in dovere di fare i maschi ad ogni costo o che per sembrare maschi non possono rifiutarsi di fare qualcosa” (pp. 152 – 153). Tipico il caso dei reati ai danni di donne, omosessuali e portatori di handicap che riducono le caratteristiche socialmente attribuite agli uomini: è dominando, offendendo, umiliando, picchiando questi ‘non-maschi’ che certi maschi rassicurano se stessi e gli altri di essere tali.

In queste tematiche la cautela non è mai troppa. Come l’essenzialismo naturalistico rischia di de-responsabilizzare i singoli soggetti (“E’ un maschio e si sa che il maschio è cacciatore…”), così altri approcci socio-culturalistici possono incorrere in errori simili (“Si è comportato così perché il suo ambiente sociale non gli aveva offerto altri modelli di maschilità…”). Ma la ricerca intellettuale è fertile quando, costeggiando gli estremi, ne apprende le parti di vero e le raccoglie verso sintesi nuove, se pur provvisorie. E soprattutto quando sa arrendersi agli enigmi antropologici: per quanto condizionati da tanti fattori biologici e sociali, agli esseri umani probabilmente resta un residuo, sia pur minimo, di libertà. E’ ammettendo  questa capacità irriducibile all’auto-determinazione che possiamo spiegare come mai non si possono stabilire leggi sociologiche assolute: in ogni tipologia di maschi, infatti, troviamo tanto criminali quanto soggetti proattivamente impegnati a rendere questo mondo meno invivibile.

Augusto Cavadi

www.augustocavadi.com

Per la versione originaria (dal titolo redazionale un po' fuorviante) cliccare qui:

Ancestralità criminale del maschio ? no solo pulsioni individuali più o meno patologiche - Zero Zero News

giovedì 26 giugno 2025

LA NOSTALGIA PER “CICCIO”, IL LEONE DI VILLA GIULIA

Il barone parigino G. de Nervo, nel suo Viaggio in Sicilia 1833, attesta l’ammirazione per due spazi verdi attigui. Del primo, l’Orto botanico allora chiamato “il giardino della Flora”, afferma che si tratti del “più completo che esista in Sicilia, contiene più di quattromila piante esotiche o indigene” ed è “curato a meraviglia”.

Il secondo spazio è la “Pubblica Villa Giulia” i cui “ombrosi viali”, pregni del profumo di alberi di agrumi, sono puntellati dai “monumenti innalzati dai loro concittadini in onore di Dione, di Archimede, di Pindaro, di Diodoro, di Teocrito”. L’autore raccomanda ai visitatori di non essere “troppo indiscreti” perché “è sotto le ombre misteriose di questo giardino che la bella palermitana concede segreti incontri”.

A dire il vero, non mi pare che Villa Giulia sia rimasta, anche per la mia generazione, tra i luoghi romantici per eccellenza: più che ad abbracci furtivi, la memoria va al pacifico, sornione, leone “Ciccio”, che per tanti anni vi fu ospitato in una grande gabbia, per la gioia dei piccoli e a dispetto di una coscienza animalista ancora immatura.

 Augusto Cavadi

“Il Gattopardo/Sicilia” , n.83, aprile 2025  

martedì 24 giugno 2025

MEDITERRANEO DI GUERRA E DI PACE

 “Nello spazio mediterraneo questo è chiarissimo: i problemi ambientali, sociali, politici ed economici, e quindi bellici sono tra loro profondamente intrecciati: si può pensare di affrontarli solo insieme e con tutto se stessi”: questo passaggio della Prolusione del cardinale Matteo Zuppi all’inaugurazione dell’anno accademico 2024 – 2025 della Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale (Napoli) è un po’ la chiave del volume a più voci (Mediterraneo di pace, Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2025, pp. 189, euro 18,00) che alcuni docenti della medesima Facoltà hanno costruito con le proprie risonanze al testo del Presidente della Conferenza episcopale italiana.

Un primo grappolo di contributi è pervenuto dall’area dei teologi (F. Mandreoli, M. Prodi, N. Oliveri, M. Naro, S. Zetea, C. Franchitti, P. Trianni, F. D’Andrea, M. Serio, C. Matarazzo, E. Scarpino, A.P. Borrelli ) che hanno provato a rispondere alla domanda iniziale di Zuppi: “Quali fondamenti per una teologia e prassi di pace?” (p. 11). Nell’impossibilità di sintetizzare, senza banalizzare, tali contributi, mi limito a segnalare – dal momento che la trovo particolarmente originale oggettivamente e particolarmente eloquente per la mia attuale esperienza soggettiva – l’appello di Paolo Trianni : “Tutta la vita è in pericolo”: ripartire dal rispetto per la vita (pp. 67 – 72). Il riferimento principale è al tema (tradizionalmente estraneo al mondo cattolico) dell’attenzione alla sofferenza animale e della conseguente scelta vegetariana: “senza il vegetarianesimo ed il rispetto per la vita – qualcuno ha perfino ipotizzato che senza i mattatoi non ci sarebbero stati i lager nazisti – diviene difficile e persino incoerente parlare di pace” (p. 72).

Una seconda costellazione di risonanze alla Prolusione dell’arcivescovo di Bologna è stata offerta dal punto di vista del Diritto ecclesiale e della Sociologia: M. Munno ha sottolineato l’urgenza de Il “necessario ritorno alla via di Gesù” (pp. 107 – 113); U. R. Del Giudice ha insistito su La “notte” e la “luce” del Diritto tra culture e sapienza religiosa (pp. 115 – 120); L. M. Guzzo ha tracciato delle piste Per una storia del diritto canonico a partire dagli ultimi (pp. 121 – 126); G. Marcello, rilanciando il Tutto è connesso di papa Francesco, ha sostenuto che “l’economia capitalistica impoverisce e uccide, e che siamo di fronte a una guerra mondiale combattuta a pezzi, alimentata dalle diseguaglianze economiche, sempre più profonde” (p. 130).

Un terzo gruppo di interventi provengono da studiosi di storia come D. Garribba (La storia: un’irrinunciabile compagna di viaggio, pp. 133 – 138); A. Carfora (Ragionare storicamente per “disarmare” il Mediterraneo, pp. 139 – 145); A. Criscuolo (Dalla “Regina delle vittorie” al “Sollievo dei migranti”: storicizzare per evitare “cortocircuiti” spirituali, pp. 147 – 152); A. S. Romano (Al servizio della verità storica: lIstituto di Storia del cristianesimo “Cataldo Naro, vescovo e storico della Chiesa” , pp. 167 – 182). Quest’ultimo contributo restituisce la storia ormai quasi ventennale dell’Istituto della Sezione “San Luigi” della Facoltà pontificia partenopea: una storia feconda di pubblicazioni (“133 libri, cioè un libro ogni 52 giorni”, p. 171), distribuite in tre Collane ospitate dalle edizioni trapanesi “Il pozzo di Giacobbe”.

Le dense pagine di S. Tanzarella (Il Mediterraneo e la catastrofe umana: l’afasia di una teologia senza contesto, pp. 153 – 166) costituiscono un prezioso sigillo all’intero volume: esse richiamano fortemente l’esigenza che la teologia non si sottragga alle dolorose provocazioni della storia contemporanea e che, sulla scia di Simone Weil, solleciti le comunità cristiane – e, tramite esse, l’intera umanità – ad “andare oltre la legalità di leggi ingiuste e dimostrare, in nome della retta coscienza, che è impossibile una giustizia senza misericordia e senza carità” (p. 166). Ciò in tanti campi e su tanti fronti, a cominciare dalla “catastrofe umana che quotidianamente si consuma in questo mare Mediterraneo e sulle sue sponde (come su tutti i confini impenetrabili dell’Europa), lì dove ogni diritto umano è negato. Perché la condizione dell’essere migrante non sottrae o cancella il diritto alla vita” (ivi).

 

Augusto Cavadi

 “Adista/ Segni Nuovi”, n. 25 del 28.6.2025

venerdì 20 giugno 2025

TEMPIO SEGESTANO


 


Su trentasei  zampe                                                                                                                                                             ben saldo                                                                                                                                                          

attendo

paziente                                                                                                                                                  

che finiscano

di scannarsi                                                                                                                                                        a vicenda.

                                                                                                                                                               (Segesta, 2 giugno 2025)

mercoledì 18 giugno 2025

ERASMO DA ROTTERDAM, PIONIERE DELLA SPIRITUALITA' LAICA

Oltre la (pur necessaria) critica demolitrice

Anche ad opera di studiosi cattolici si è diffusa la critica all’impostazione dottrinale e morale tradizionale: il libro di Bruno Mori (recensito in questo stesso numero di “Viottoli”: https://www.augustocavadi.com/2025/01/dopo-limplosione-del-sistema-cattolico.html)  ne costituisce una recente, e non poco eloquente, testimonianza. Ma, dopo alcuni decenni di pars destruens, è arrivato il tempo della pars costruens: di una vera e propria “rifondazione”, di una ri-partenza dalle fondamenta.

In questa operazione ognuno è chiamato a dare la propria testimonianza. Personalmente osservo con ammirata attenzione le sperimentazioni di vari compagni e compagne di strada in direzione di un al di là delle religioni istituzionali, alla ricerca di un’unione “mistica” (dunque silenziosa, ineffabile) con il Segreto dell’universo. Ritengo tuttavia che questo orizzonte di ricerca esperienziale trovi giovamento se accompagnato – direi quasi bilanciato – da un contrappeso: una prospettiva spirituale al di qua delle religioni positive. Anche i voli più arditi hanno bisogno di piste di decollo terra-terra; anche i grattacieli più svettanti reggono solo su solide fondamenta sotterranee.  L’ipotesi che, sino ad oggi, mi guida in questa ricerca è che le grandi  “religioni” tradizionali  siano state un apparato per esprimere un sentimento di “religiosità” più basico, più elementare (spesso venato di tinte panteistiche); il quale, a sua volta, è uno dei mille modi per manifestare la tensione al “ben vivere” che ci caratterizza universalmente (almeno in questa fase evolutiva), come esseri umani , indipendentemente dalle nostre convinzioni nell’ambito della “religione” (istituzionale) e dalla nostra sensibilità nell’ambito della “religiosità” (come sentimento più o meno vagamente mistico).

Come denominare questa dimensione antropologica “laica” che accomuna credenti e non-credenti in senso confessionale, anzi anche persone che non avvertono nessuna apertura al “divino”? In attesa di uno più adatto, da tempo condivido la convenzione linguistica, comune ormai a molti autori, di adottare il termine “spiritualità”.

Poiché ovviamente non è questione di etichette, l’impresa più impegnativa è di provare a esplicitare i contenuti di una simile spiritualità ‘laica’: “esplicitare” perché non si tratta di inventarli più o meno genialmente a titolo individuale, ma di rintracciarli, di riconoscerli, di evidenziarli man mano che si ritiene di incontrarli nelle proprie peregrinazioni sia diacroniche (nel mio caso attraverso il patrimonio della tradizione occidentale) sia sincroniche (dunque attraverso l’ascolto cordiale delle sapienze radicate nelle varie aree del pianeta). Tra i maestri della storia occidentale  (la cui voce profetica è stata smorzata, quando non del tutto assopita) da cui ricavare indicazioni costruttive per i nostri giorni rientra certamente Erasmo da Rotterdam (1466 – 1536) che  - pur essendo un acuto, talora feroce, critico della cristianità- si è impegnato strenuamente anche per offrire nuove prospettive di metodo e di merito.

 

Un’idea dell’essere umano

I molti modi di concepire, e vivere, la spiritualità mi sembrano accomunati da una caratteristica: intendono coltivare le migliori potenzialità dell’essere umano. Ma quali sono queste potenzialità? Come distinguere le migliori dalle peggiori e dalle pessime? In ultima analisi, siamo alla domanda che da Socrate ad Heschel si ripropone puntualmente da una generazione all’altra: chi è l’uomo (ovviamente inteso come genere umano, non come genere maschile)? Ecco perché, per valutare una spiritualità   - per misurarne l’efficacia, i limiti e gli eventuali effetti disastrosi-  è  decisivo metterne a fuoco la visione antropologica.

Nel caso di Erasmo, egli rivela un’idea realistica del genere umano: che non è capace solo di pensieri elevati e di azioni nobili, ma neppure riducibile a un immondo groviglio di errori e cattiverie:

 

“L’uomo è predisposto ad un’effettiva ragionevolezza, ratio, in forza del suo ingenium o intellectus; tuttavia , tende fin dalla nascita piuttosto alla stultitia , all’immoralità e alla follia, che praticamente          si manifesta con ogni genere di ‘barbarie’ – ignoranza, immoralità, superstizione, crudeltà, ingiustizia, oppressione, guerra, ecc. – Il mero sviluppo intellettuale non può quindi essere d’aiuto perché, in caso di cattiva inclinazione, viene utilizzato in modo improprio. L’educazione quindi è un’eruditio orientata a saggezza, sapientia la quale, quando arriva a comprendere se stessa, diventa philosophia[1].

 

Questo essere ambivalente è segnato dalla vulnerabilità, dalla caducità, dalla transitorietà:

 

“Quanto è breve, fuggevole, fragile la vita dell’uomo, a quanti malanni è esposta, quante malattie, quante calamità la assalgono di continuo: disgrazie, naufragi, terremoti, fulmini. Non vi sarebbe quindi alcun bisogno di aumentare i mali con le guerre; di qui tuttavia nascono più mali che da ogni altra calamità ”[2].

 

Esso va dunque accolto con cura sin dai primi anni di vita, stimolato, accompagnato nel suo processo di “fioritura” (Martha Nussbaum): ed è questo insieme di strategie trasformative ed auto-trasformative che possiamo denominare “spiritualità”. Più precisamente, nel caso di Erasmo, di una spiritualità che definirei volentieri “laica”: egli lavora infatti nell’ottica di una religio naturalis in cui s’intrecciano – a parità di merito - la sapientia greca e l’insegnamento cristiano (dei primi secoli)..

Erasmo, infatti,  è uno studioso di letterature classiche (greco e latino) - che, a suo parere, rappresentano il paradigma dell’umanesimo – ma è anche un cristiano. Ed è convinto che non vi sia nessuna opposizione fra la spiritualità naturale, basica, universale e il Vangelo di Gesù Cristo. Anzi, se il messaggio cristiano viene liberato dalle superfetazioni dogmatiche, moralistiche e ritualistiche, viene a coincidere con la coltivazione di ciò che di migliore può esprimere ogni essere umano, in qualsiasi area del pianeta si trovi a vivere: “Tutto quanto di storico, cerimoniale e dogmatico c’è nel cristianesimo è puramente e semplicemente secondario”[3] e può confliggere con la saggezza condivisa dalla maggior parte dei popoli della Terra. Ma ciò “ciò che conta è che lo spirito del Vangelo, cioè l’humanitas, si realizzi durante tutta la vita”[4].

Così egli cerca una chiave per uscire dall’impasse della Modernità occidentale sia

 

 “in quei pensatori, poeti e saggi latini e greci le cui visioni della vita coincidono, a suo avviso, con il significato più profondo del Vangelo”  sia “in quei padri cristiani che un tempo cercarono deliberatamente di armonizzare il pensiero antico con il Vangelo nuovo. <<Santo Socrate, prega per noi! >> esclama questo sacerdote cristiano quasi in visibilio”[5].

 

In termini equivalenti, “la vera religione è tutt’uno con quella morale universale di cui Socrate e Cristo hanno dato il grande esempio. Non solo la magia e il ritualismo, ma anche la mitologia e il messianismo sono con ciò di fatto aboliti: la vera imitatio Christi consiste nel perseguimento come filosofo (philosophus) di quella piena saggezza che è un tutt’uno con l’amore più alto”[6].

 

Una cristologia sobria

L’angolazione di Erasmo si comprende meglio se si esplicita la cristologia che vi rientra:

“se Cristo nel platonismo idealistico dei fiorentini è soprattutto una figura divina, come ad esempio Orfeo, e l’uomo è glorificato come Deus in terra (…), secondo il religioso moralismo tinto di realismo di Erasmo, Cristo è piuttosto la norma dell’essere umano o, meglio ancora, più propriamente: l’uomo normale” [7].

 

Già in uno dei suoi primi scritti giovanili, De Contemptu Mundi, è evidente il registro linguistico “laico” tipico del migliore Rinascimento: “definisce Gesù il suo «amico più importante», per citarlo esattamente allo stesso modo con cui cita Virgilio o Cicerone”[8].

Comunque per tutta la sua esistenza resta convinto che gli slanci mistici o le proclamazioni eroiche non hanno nessuna attendibilità se non si basano su un solido fondamento: l’esercizio delle “comuni virtù che la ragione naturale o la pratica della vita o gli insegnamenti dei filosofi forniscono anche ai pagani”[9].

La prospettiva di Erasmo non è una sua esclusiva: egli vive in un’epoca in cui “lo spirituale, che si è imparato a sentire in sé, non si considera più qualcosa di sovrumano, ma lo si riconosce come tipicamente umano”[10].

 

Alcuni tasselli del mosaico

Non posso sintetizzare in poche pagine quella sorta di mosaico dalle molte tessere costituito dalla spiritualità laica di Erasmo. Mi limito, quasi telegraficamente, a elencarne alcune per suscitare il desiderio di continuare – eventualmente – l’indagine meditativa su di esse.

 

a)     il primato dell’esperienza sensoriale. Una vita spirituale sana è radicata nell’esperienza corporea, nell’apertura alla dimensione fisica e della nostra soggettività e di ciò che – suo tramite – possiamo incontrare. Sulla base di questa convinzione, Erasmo accorda all’esperienza diretta della natura accessibile ai sensi la priorità rispetto allo studio dei testi scritti da altri osservatori, sia pur illustri, quali possano essere “Aristotele, Teofrasto, Plinio”[11].

b)     La necessità dell’esperienza interiore. L’esperienza di ciò che ci circonda all’esterno, per quanto necessaria, è insufficiente: va integrata con l’esperienza di ciò che siamo nel nostro intimo (dunque con una conoscenza intuitiva e approfondita del nostro animo): “Mi racconti i tumulti che avvengono in Inghilterra. Narrami invece piuttosto quali tumulti fanno nel tuo intimo l’ira, l’invidia, la libidine, l’ambizione, vizi che è opportuno siano messi sotto il giogo”[12].

c)      L’amore per la conoscenza. L’ambito dell’esperienza personale (sensoriale ed interiore) è potenzialmente estensibile attraverso l’attività conoscitiva. Una vita spirituale è insufflata di amore per la conoscenza di tutto ciò che è conoscibile, pur nella consapevolezza dei limiti costitutivi delle possibilità intellettive umane: “Anche se non si può mai conoscere appieno il conoscibile, si può comunque arrivare a conoscerlo meglio, e si deve anche farlo, per essere veramente umani”[13].

d)     Equanimità nel giudicare. Un amore così puro per la verità “oggettiva” (sia pur nella misura limitata in cui è perseguibile) comporta la tendenza all’equanimità dei giudizi. Ma non è facile assecondarla. Di Erasmo un suo intelligente lettore ha scritto: “la sua energia creativa non ha il fanatismo estremo, la tenacia ultima, il furore dell’unilateralità”[14].

e)     I limiti della razionalità. In una vita spirituale armonica il desiderio di conoscere non deborda in razionalismo né, ancor meno, in libidine intellettuale. Per quanto necessaria, “una scienza che non sia al servizio della virtù può risultare solo dannosa”[15].

f)       La solitudine dell’anticonformismo. Chi intraprende il sentiero dell’autenticità spirituale dev’essere disposto alla solitudine dell’anticonformismo. Chi persegue la ricerca del vero e del bene non può aspettarsi l’applauso, dal momento che “le sue opinioni ed i suoi gusti divergono nel modo più radicale da quelli della folla. E’ logico che questo modo diverso di vivere e di pensare gli procacci l’odio di tutti; poiché tra gli uomini non si fa nulla che non sia pieno di follia”[16].

g)     Solidarietà universale. Solitudine non è sinonimo di isolamento, tanto meno di indifferente insensibilità nei confronti di ciò che avviene agli altri esseri senzienti. Non c’è spiritualità dove manca la costante coscienza del dolore che innerva la storia e il conseguente sentimento di solidarietà universale: “Quasi buddhista-pessimista, sa scrivere della sofferenza alla quale sono soggetti i figli degli uomini. Ma il comune bisogno risveglia la consapevolezza della loro interdipendenza e la necessità di una comunità fisica, morale e culturale”[17]. Erasmo ama ricordare una potente espressione di Plinio nella sua Storia naturale: “E’ un dio colui che aiuta gli uomini”[18].

h)     L’arte di comunicare con chiarezza. Se avverto il legame congenito, radicale, con i miei simili, sarò incline ad acquisire la capacità di comunicare in maniera chiara, efficace e gradevole le mie intuizioni, sia a voce che per iscritto: “Chi vive puro fa una gran cosa, e seppure non soltanto per sé, al massimo per i pochi che lo circondano. Quanto più ampiamente si irradia la sua virtù come una torcia accesa, così la conoscenza si diffonde con il suo carattere puro. Quando una persona può affidare alle lettere i pensieri più belli della sua mente ed è al tempo stesso sia colta che eloquente, la sua influenza benefica si espande ovunque e raggiunge non solo l’ambiente circostante e i suoi contemporanei, ma anche gli estranei, la sua discendenza e coloro che abitano agli estremi confini della terra”[19].

i)       Mantenere la mitezza dei toni. La lodevole intenzione di comunicare ad altri i frutti della propria contemplazione va concretizzata con toni persuasivamente miti. Di Lutero, ad esempio, Erasmo condivideva molte critiche alla Chiesa, ma aggiungeva: “Coloro che sono favorevoli a Lutero preferirebbero che scrivesse in modo più civile e moderato”[20].

j)       Non accettare l’inaccettabile. La persona immatura smette presto di scandalizzarsi dei mali del mondo e vi si rassegna come fossero inevitabili: “Ci siamo  a tal punto abituati alle guerre, al brigantaggio, ai tumulti civili, alle faziosità, ai saccheggi, alle pestilenze, alle carestie, alla fame che quasi non consideriamo più tutte queste cose come dei mali”[21].

k)     Sobrietà nei costumi e nei consumi. Lo sviluppo armonico delle proprie potenzialità costruttive – che è poi un altro modo di definire una spiritualità matura – non può non implicare predilezione spontanea verso la sobrietà nei costumi e nei consumi. Chi è ricco dentro di ricchezza reale non ha nessuna coazione a cercare fuori di sé ricchezze illusorie o, comunque, parziali. Egli “cerca di costruire un mondo e una filosofia di vita secondo la norma classica dell’humanitas, che si sarebbe finalmente realizzata nella pacifica Età dell’Oro, quando gli uomini (…) non avrebbero appunto più  usato proprio l’oro” [22].

l)       Libertà dalla sete di potere e di fama. La sovrabbondanza spirituale, che libera dall’ansia dell’accumulo di beni materiali, dona altresì la libertà dalla sete di potere e di onori: “Oh, irragionevole ragione degli uomini che, pur potendo vivere ininterrottamente felici, a causa della loro ambizione, si mettono in testa una continua infelicità! E ciò mentre dall’honestas scaturisce la vera voluptas, che rende già possibile un’esistenza armoniosa sulla terra”[23].

m)  La pari dignità fra i generi. Dalla “piena dipendenza” dalla “educazione pesantemente sessuofobica e maschilista tipica degli ambienti conventuali in cui era cresciuto” lo libera, sia pur parzialmente, la frequentazione della società extra-ecclesiale: ebbe parole di gratitudine verso “Tommaso Moro, di cui aveva conosciuto la famiglia di tutte femmine, per di più intellettuali, per avergli fatto cambiare opinione sulle donne”[24]. Infatti nell’Erasmo della maturità si intravedono segnali anticipatori  anche su questo elemento dell’evoluzione spirituale: “vuole coinvolgere la donna nello sviluppo generale. La sua educazione umanistica è necessaria: per lo sviluppo della sua personalità, per renderla compagna di vita di suo marito anche dal punto di vista intellettuale, e allo scopo dell’educazione dei figli”[25].

n)     I diritti dei minori. Alla scarsa considerazione della dignità della donna si accompagnava al tempo di Erasmo altrettanta misconoscenza dei diritti dell’infanzia sin dai primissimi giorni di vita. Su questa lacuna egli è più attento, più esplicito: “I bambini poveri hanno gli stessi diritti dei ricchi ad una buona educazione: ogni essere umano, in quanto tale, ha il diritto di acquisire i più alti attestati di nobiltà attraverso il «vero studio». Una buona istruzione è infinitamente più importante dell’avere importanti antenati ed una vera erudizione è il blasone più nobile che si possa immaginare”[26].

o)     Rispetto per gli altri animali. Rispetto per le donne, per i minori: ma anche per gli animali non-umani. Erasmo non perde occasione  per ribadire la “condanna del tanto brutale quanto crudele sport della caccia, che fa degenerare i cacciatori stessi  «ad un livello più basso degli animali selvatici»[27].

p)     Senso della paternità/maternità.Un profilo spirituale apparirebbe deficitario se mancasse di qualsiasi senso di paternità/maternità. Erasmo è convinto che la biologia può supportare questa valenza, ma che sia decisiva l’attitudine pedagogica: la vera, completa, genitorialità  è da attribuire a  chi  è animato dal sincero desiderio di favorire la crescita integrale delle nuove generazioni. A suo avviso “la paternità (…) non si fonda sulla capacità di concepire, che è comune agli uomini e agli animali, ma sulla capacità di educare i giovani razionalmente e moralmente”: “è addirittura l’educatore il vero padre del bambino, poiché in un vero spirito di unione la comunanza spirituale ha la precedenza sulla parentela di sangue”[28] .

q)     Orizzonti cosmopolitici. La spiritualità a trecentosessanta gradi è caratterizzata da una sorta di benefico strabismo: un occhio al qui, all’ambito familiare e locale; un altro al là, all’orizzonte planetario dell’umanità. Anche da questo punto di vista, ha offerto un modello esemplare: “Non mai fisso in un paese, ma sentendosi ovunque in patria, primo cosmopolita ed europeo convinto, Erasmo non riconosceva superiorità alcuna di una nazione sulle altre; aveva addestrato il suo cuore a valutare ciascun popolo soltanto secondo i suoi spiriti più nobili e perfetti, tanto che tutti gli apparivano poi del pari degni di amore. Si propose come scopo dell’esistenza un tentativo sublime: convocare gli uomini di buona volontà di ogni paese, di ogni razza, di ogni classe, in una grande lega delle menti più colte e migliori. (…) Questo desiderio degli uomini dello spirito di allearsi nello spirito, dei linguaggi di fondersi in un superlinguaggio, delle nazioni di pacificarsi in una supernazione, questo trionfo della ragione, fu anche trionfo di Erasmo, segnò l’ora sacra, ma breve e fugace, della sua vittoria nel mondo” [29].

r)      Saper perdonare. La personalità spiritualmente risolta non è immune dalle ferite nella battaglia della vita individuale e collettiva. Eviterà, per quanto può, di ferire e, se ferito egli stesso, non mostrerà preclusione alcuna al perdono: “Che perniciosa follia è quella di diventare più malvagi vendicarsi della malvagità altrui ? (...) Con la vendetta invece lo stesso male che cerchi di allontanare si rivolge contro di te e non senza un cattivo frutto” [30].

s)      Gentilezza affabile. Suggello e distintivo di una spiritualità laica matura è quella “particolare attitudine mentale” per la quale l’umanista Giovanni Pontano coniò il termine facetudo: “una gentilezza solare, una gioia affabile che rilassa ed ha bisogno di tanto in tanto di rilassamento e si caratterizza per un sorriso”[31]. 

 

Augusto Cavadi

 

“Viottoli”, 2024, 2



[1] B. de Ligt, Erasmo nonviolento. La voce dell’Umanesimo in un’Europa dilaniata dalle guerre, a cura di R. Altieri, Centro Gandhi Edizioni, Pisa 2023 (ed. or. 1936), p. 252. Non ci s’inganni sul significato del termine philosophia nel vocabolario erasmiano: per lui si tratta di una pratica trasformativa della vita (transformatio vitae) più che d’un esercizio meramente cerebrale (ratio).

[2] Erasmo da Rotterdam, L’educazione del principe cristiano in Idem, La formazione cristiana dell’uomo, a cura di E. Orlandini Traverso, Rusconi, Milano 1989, p. 424.

[3] B. de Ligt, Erasmo, cit. pp. 309 – 310.

[4] Ivi, p. 310.

[5] Ivi, p. 90.

[6] Ivi, p. 264.

[7] Ivi, p. 269.

[8] Ivi, pp. 215 – 216.

[9] E. Orlandini Traverso, Introduzione a Erasmo da Rotterdam, La formazione, cit., p. 11.

[10] B. de Ligt, Erasmo, cit., p. 199.

[11] Ivi, pp. 314 – 315. “E qui” – chiosa l’autore della monografia -  “si potrebbe stabilire un certo legame tra Erasmo e Leonardo da Vinci” (p. 315).

[12] Erasmo da Rotterdam, Enchiridion militis christiani, a cura di R. Di Nardo, Japadre, l’Aquila 1973, p. 187,  cit. in G. Monaca, La spiritualità secolare di Erasmo, Mimesis, Milano – Udine 2019, p. 43.

[13] [13] B. de Ligt, Erasmo, cit., p. 222.

[14] S. Zweig, Erasmo da Rotterdam, Rusconi, Milano 1994, p. 54.

[15] E. Orlandini Traverso, Introduzione, cit., p. 32.

[16] Erasmo da Rotterdam, Elogio della follia, a cura di N. Petruzzellis, Mursia, Milano 1993, p. 57.

[17] B. de Ligt, Erasmo, cit. p. 269.

[18]  Erasmo da Rotterdam, Elogio, cit., p. 36.

[19] B. de Ligt, Erasmo, cit., p. 223.

[20] Ivi, p. 316.

[21] Erasmo da Rotterdam, Sull’opportunità di muovere guerra ai Turchi, cit. in R. Altieri, Erasmo, cit., p. 62.

[22] B. de Ligt, Erasmo, cit., p. 214.

[23] Ivi, p. 215.

[24] G. Monaca, La spiritualità, cit.,  p. 20.

[25] B. de Ligt, Erasmo, cit., p. 253.

[26] Ivi, p. 254.

[27] Ivi, p. 314.

[28] Ivi, p. 251.

[29] S. Zweig, Erasmo, cit., pp. 10 – 12.

[30] Erasmo da Rotterdam, Manuale del soldato cristiano in Idem, La formazione, cit., p. 303.

[31] B. de Ligt, Erasmo, cit., p. 115.

martedì 17 giugno 2025

PALESTINA: DIRE “BASTA!” , MA COME ?


Che in Palestina, dopo il 7 ottobre 2023, sia in atto una strage ingiustificabile è evidente.

Che le persone oneste vogliano far di tutto per interromperla al più presto è comprensibile.

Tutte le iniziative mirate a questo scopo sacrosanto sono ugualmente efficaci?

A mio sommesso avviso, no.

Ce ne sono di utili (più o meno) e di controproducenti (più o meno).

Per distinguere le prime dalle seconde è necessaria qualche premessa.

 Due premesse

a  a) Il conflitto terroristico in corso non riguarda 2 popoli (ebraico e palestinese) ma 2 governi più o meno legittimi (Netanyahu e Hamas): si può essere solidali con gli ebrei e avversari del governo in carica, si può essere solidali con i palestinesi e avversari del governo in carica.

   b)     Quando due soggetti litigano in maniera feroce (ancor più se c’è un’evidente sproporzione di forze), se il terzo osservatore ha la forza per interrompere la strage deve farlo immediatamente: salvare vite umane è la priorità assoluta. Come ipotesi esemplificativa, Gandhi stesso ammetteva che – se davvero non ci sono alternative – un omone che picchia a morte una ragazzina va bloccato anche con le armi. Aggiungeva che restare inerti a guardare “come va a finire”, è molto peggio che intervenire con la forza fisica.

c      c) L’obiettivo ultimo dell’eventuale “terzo” in campo dev’essere comunque la ‘conversione’ (per ragioni o etiche o politiche o di mera convenienza utilitaristica) dei due soggetti in conflitto affinché la tregua immediata preceda una pace duratura perché giusta.

 

Che fare?

Ciò premesso, cosa fare in concreto?

a  a) Se il “terzo” avesse la possibilità  di pressare un bottone e distruggere i 2 ESERCITI in guerra, dovrebbe farlo senza distinguere “terrorismo” da “terrore di Stato” (senza stabilire livelli di criminalità o addirittura dando ad alcuni la patente di eroici partigiani o ad altri di intemerati patrioti).

    b) Se il “terzo” avesse la possibilità di pressare un bottone e distruggere i 2 POPOLI in guerra (o anche uno solo: oggi suppongo gli ebrei), non dovrebbe farlo perché sarebbe ingiusto e – in prospettiva – controproducente: “occhio per occhio rende il mondo cieco” (Gandhi).

c     c) Poiché non esiste nessun “bottone” per distruggere i 2 ESERCITI in guerra, come DISARMARLI al più presto?  Agendo per condizionare (se non è realistico scalzarli in tempi brevi): 

-         i governi in guerra

-         i governi che li sostengono, finanziano, armano (ad esempio gli Stati Uniti d’America e i Paesi dell’Unione Europea che vedono Israele come avamposto dei loro interessi strategico-militari ed economici ai confini con i Paesi arabi a maggioranza musulmana; l’Iran che vede in Hamas il braccio armato del suo anti-sionismo)

d   d) Al fine di condizionare i governi in guerra (Hamas e Netanyahu) bisogna ridurre al minimo i rispettivi consensi elettorali (quali che fossero al momento della loro elezione)lavorando sull’opinione pubblica palestinese e israeliana. Più precisamente:

-         sostenendo con tutti i mezzi (anche finanziari) le opposizioni interne

-         sostenendo in particolare i circoli e i movimenti (che già esistono!) nonviolenti che, a costo di processi e pene estreme, esercitano l’obiezione di coscienza sia rispetto al reclutamento dello Stato d’Israele sia rispetto al reclutamento di Hamas

-         rivolgendosi a quelle maggioranze silenziose e impaurite (sia in Israele che in Palestina) che, poste dai rispettivi governi di fronte al falso aut-aut (o la resa o la distruzione del nemico in armi), restano paralizzate o propendono per la distruzione totale del nemico.

 ***

Le manifestazioni, i cortei, i concerti, le catene di digiuno, le veglie di preghiera, le fiaccolate, i sabotaggi di industrie e di navi…possono davvero convincere i palestinesi a “liberarsi” da Hamas e i cittadini israeliani a liberarsi da Netanyahu? E possono convincere gli italiani, gli europei, gli statunitensi a “liberarsi” dai propri stessi governi che dal 1948 a oggi hanno unilateralmente appoggiato Israele? A mio avviso, sino a quando saranno manifestazioni ‘totalitarie’ (a favore o contro  tutta la Palestina, senza distinguere il popolo palestinese dai criminali terroristi di Hamas e a favore  o contro tutto Israele, senza distinguere tra il popolo ebraico dai criminali che esercitano il terrore di Stato agli ordini dei partiti al potere) e ‘unilaterali’ (condividendo TUTTE le ragioni di una parte e negando TUTTE le ragioni dell’altra parte) le possibilità di scuotere le coscienze, di alterare gli attuali schieramenti parlamentari, di incidere nelle decisioni politiche che contano, sono vicine allo zero. L’opinione pubblica mondiale può risultare condizionante (sull’elettorato e sui governi dei Paesi in guerra) nella misura in cui riesce a comunicare l’equidistanza dai governi e l’equivicinanza ai popoli (anche se, in altre fasi, questi abbiano potuto contribuire con il voto o con l’astensione all’avvento al potere dei rispettivi governi).

Conclusione (parziale e provvisoria)

Agli storici del futuro il compito di ricostruire la storia medio-orientale degli ultimi 70 anni. A noi, qui ed ora, interessa che la maggior parte dei Paesi tolga immediatamente i rifornimenti militari al governo israeliano e ad Hamas, inviando almeno “caschi blu” dell’ONU (in attesa che si formino battaglioni disarmati di “caschi bianchi”); ma nessuno di essi lo farà se non costretto da una base elettorale quanto più compatta possibile. In democrazia (per quanto imperfetta e inquinata) la compattezza si raggiunge con la propaganda convincente (ad esempio spiegando che oggi i sionisti al governo dello Stato d’Israele stanno danneggiando la causa degli ebrei più di quanto siano riusciti decenni di anti-semitismo), non con le urla (per quanto sincere e comprensibili) delle opposte tifoserie. Se le manifestazioni, da sole, potessero cambiare le decisioni politiche, passerei da una manifestazione all’altra senza tornare a casa neppure la notte per dormire. Ma penso che la strategia efficace, senza scorciatoie, consista nel moltiplicare i luoghi del confronto ragionevole, documentato e pacato per tentare di  convincere i sostenitori dei governi filo-israeliani (dunque quasi tutti i governi occidentali, compreso l’italiano) a minacciare di togliere il consenso elettorale se perseverano nella politica attuale.

Augusto Cavadi

www.augustocavadi.com

Per la versione originale si può cliccare qui:

https://www.filosofiaperlavita.it/2025/06/palestina-dire-basta-ma-come ?