mercoledì 20 ottobre 2010

Consulenza filosofica e aspiranti suicidi


XVI Convegno nazionale A.FI.Pre.S ‘Marco Saura’
“Disagio individuale e crisi sociale nel postmoderno”
Palermo 20 ottobre 2010
Palazzo Steri (Rettorato Università di Palermo)

Mi scusi, dottore: e se mi togliessi la vita?”
Il filosofo consulente e l’aspirante suicida.

Il ‘dottore’ destinatario dell’interrogativo può essere un medico (neuropsichiatra), uno psicologo (psicoterapeuta) o anche un filosofo (consulente filosofico). Vorrei qui brevemente tratteggiare, sia pure per sommi capi, che cosa accomuna - e soprattutto che cosa differenzia - il tipo di rapporto che si può instaurare in questi tre differenti scenari. Con un’avvertenza preliminare: mentre sono abbastanza sicuro di cosa possa avvenire nel caso del filosofo consulente (dico ‘abbastanza’ perché ogni dialogo filosofico è, costitutivamente, imprevedibile e irripetibile), lo sono molto meno nel caso del medico e dello psicologo. Ma i convegni dovrebbero servire anche a imparare, non solo come occasioni per mostrare ciò che si sa (o, direbbe Lacan, si suppone di sapere).

a) Tre scenari
Nell’opinione comune, chi avverta pulsioni suicidarie si reca da uno psichiatra o da uno psicoterapeuta per essere aiutato a liberarsi da una ‘patologia’. In realtà, nella maggioranza dei casi si tratta di una saggia decisione: chi è in preda ad una depressione acuta, e vede nel suicidio l’unica possibilità di rasserenamento, non è in grado di assumere decisioni davvero libere. Benedetto sia dunque quel farmaco - o, soprattutto nel caso di soggetti non troppo avanti in età, quella psicoterapia – che riesca a restituire al paziente impaziente quel minimo di equilibrio psico-chimico-fisico che lo possa rimettere in grado di compiere una scelta libera.
Tuttavia non si può escludere aprioristicamente un terzo scenario che può presentarsi, a sua volta, in modalità articolate.
La prima, più problematica, è che il soggetto, nello stesso periodo in cui frequenta da paziente un gabinetto medico o uno studio di psicoterapia, chieda di frequentare, da persona umana, uno studio di consulenza filosofica. Data la complessa unitarietà del soggetto, com’è ipotizzabile accompagnare una cura farmacologica con un trattamento psicoterapeutico, così è ipotizzabile accompagnare la cura medica e il trattamento psicologico con una relazione filosofica. Si tratta di livelli interagenti ma non identificabili: la dimensione noetica (o intellettuale) è riducibile alla dimensione emotiva (o psichica) tanto poco quanto la dimensione emotiva (o psichica) è riducibile alla dimensione corporea (o fisica).
La seconda modalità è meno difficilmente rappresentabile: un soggetto si pone la questione del suicidio non perché in preda ad alterazioni psico-fisiche, ma in quanto sollecitato da fattori abbastanza ‘oggettivi’ (gli è stata diagnosticata una malattia inguaribile; ha perduto una persona cara su cui aveva concentrato l’intero senso dell’esistere; ha compiuto un gesto moralmente così riprovevole da non concepire nessuna forma di risarcimento a favore delle vittime e della società…). Egli (ovviamente penso a un adulto) non è in terapia perché davvero non ha bisogno di cure o perché ritiene di non avere bisogno di cure: non è ancora in terapia o non lo è più o non lo sarà mai. Cerca qualcuno con cui confrontarsi e sa che esistono dei filosofi che, invece di dedicarsi esclusivamente o prevalentemente all’analisi dei testi filosofici o all’addestramento di nuovi filosofi, sono disposti a ricevere persone desiderose di ragionare.

b) Liberare da una patologia o interrogarsi su un’ipotesi?
Se il terzo scenario arriva a materializzarsi (in contemporanea o in alternativa ad un approccio terapeutico), la prima cosa da chiarire è che né il consultante deve chiedere di essere guarito né il consulente deve promettere guarigione. Con il massimo rispetto per il registro della ‘cura’, il filosofo deve subito chiarire che il suo ambito professionale si pone al di là - o al di qua – di tale registro. Egli si occupa di domande filosofiche: perciò radicali. Non può dare nulla per scontato: neppure che il suicidio sia, per definizione e per postulato, un male.
Vediamo più in concreto cosa possa significare questo.
Da parte del consultante, egli deve sapere che si va dal filosofo consulente non per essere liberato da una patologia, ma per interrogarsi su un’ipotesi: avrebbe senso, per me, suicidarmi? Ci sono ancora, per me, ragioni per vivere?
Da parte del consulente, egli deve accogliere l’ospite non con l’intento aprioristico di convincerlo a non suicidarsi (sarebbe l’esatto duplicato, capovolto, del filosofo greco che andava girando per le strade a convincere gli interlocutori a suicidarsi), ma per affrontare con lui - senza pregiudizi – la tematica del suicidio. Cosa sia, cosa implichi per chi lo sceglie, cosa implica per chi resta…L’interrogazione dubitativa sul senso dell’esistenza non è disdicevole appannaggio di menti turbate, ma prezioso e perturbante patrimonio dell’intera umanità (almeno quando non decide di immergere nello stordimento le domande cruciali).

c) Quando una consulenza filosofica può considerarsi riuscita?
Se assumiamo con serietà questo quadro, non dobbiamo aver paura delle conseguenze apparentemente paradossali. Uno psichiatra o uno psicoterapeuta che apprende del suicidio del suo assistito può considerare riuscita la sua terapia? Direi di no. Nel caso del filosofo consulente, dipende. Se il consultante decide di porre fine alla sua vita senza aver mai chiarito - a sé stesso e al filosofo – le ragioni del proprio gesto, penso che si possa affermare che la consulenza filosofica sia – in quel caso – fallita. Ma se lo stesso consultante, accompagnato nel processo di consapevolezza teorica, fosse arrivato a vedere con chiarezza le ragioni del proprio suicidio e lo avesse portato a termine solo dopo e in forza di tale chiarezza,
come potrebbe definirsi fallimentare una simile relazione di consulenza? Non per amore di paradosso ma di chiarezza argomentativa, aggiungerei che la relazione filosofico-consulenziale andrebbe valutata positivamente persino nel caso che il filosofo - avendo a lungo meditato e discusso con il suo interlocutore - pervenisse alla convinzione che non solo la vita di questi, bensì la vita dell’uomo in generale, non merita di essere vissuta. E dunque arrivasse - lui, il filosofo consulente – alla decisione di porre fine alla propria vita grazie alla consapevolezza acquisita dialogando con il proprio ‘cliente’.

d) Come potrebbe attuarsi questa offerta di consapevolezza?
Ci si potrebbe chiedere quale metodologia debba, o possa, seguire un filosofo consulente per accompagnare il visitatore nel processo di consapevolezza critica. Anche qui, a costo di riuscire un po’ brutale, preferisco essere chiaro: in filosofia non c’è nessuna metodologia standard da seguire. E’ il campo in cui ognuno ha il diritto di esprimere opinioni, intuizioni, ipotesi, certezze…A una condizione: che porti ragioni a favore di ciò che sostiene. Che si appelli ad argomenti logici, razionali, comprensibili e potenzialmente confutabili. Non a sentimenti privati, a rivelazioni soprannaturali o a tradizioni consolidate.
In questo ampio e indeterminato e incatalogabile spazio filosofico, ognuno di noi si orienterà per un approccio piuttosto che per un altro. Personalmente tendo - attingendo, se possibile, a concezioni elaborate da filosofi ‘classici’ o contemporanei – a dare su ogni questione due o più prospettive diverse in modo da sollecitare il consultante a riconoscersi in una di esse o ad elaborarne una propria.
Ciò ovviamente a partire dalla situazione effettiva, concreta, unica dell’interlocutore. Alcune, infatti, saranno le prospettive filosofiche da esaminare nel caso di un aspirante suicida a causa di diagnosi infauste (qui tocchiamo l’area della bioetica e delle opposte idee sull’eutanasia e sul suicidio assistito); altre le prospettive filosofiche da esaminare nel caso di un aspirante suicida per motivi di onorabilità sociale (basti riferirsi all’alternativa fra stoicismo ellenistico e cristianesimo su questo tema: il primo inocula molte teorie nel secondo, ad eccezione dell’idea che - se non sei più all’altezza di adempiere ai tuoi doveri – hai il diritto, e in un certo senso il dovere, di rassegnare le dimissioni da questa terra).

e) Ma perché, allora, bussare alla porta di un filosofo-consulente?
Anche se, per bon ton, non tutti la verbalizzano, innegabilmente si aggruma una domanda-obiezione: ma perché, allora. Qualcuno dovrebbe investire soldi e tempo per chiedere una consulenza filosofica?
Limiterei la risposta a due argomenti principali.
Il primo, per me meno rilevante, è però anche il più facile da condividere. Ho detto e ribadisco che l’aspirante suicida che dialoga, filosoficamente, sul suicidio non chiede nessuna guarigione: non intende dare per scontato, come un presupposto dogmatico, che l’intenzione di togliersi la vita sia una malattia da cui liberarsi. Ed ho detto e ribadisco che il consulente filosofico che accoglie nel proprio studio un aspirante suicida deve mettersi in gioco, a trecentosessanta gradi, con le sue domande, sapendo da dove si parte ma non anche dove si debba arrivare: la filosofia, se autentica, non è consolatoria. Tuttavia, tra gli effetti collaterali desiderati - o desiderabili – del filosofare è una certa distanza emotiva dal groviglio delle proprie problematiche esistenziali; è una certa capacità di abitare la sofferenza senza insofferenze spasmodiche; è un modo non di risolvere alcuni nodi problematici ma di vederli dissolvere se inquadrati in una visione del mondo più ampia. Insomma: la filosofia può, in alcuni casi, rivelarsi accidentalmente, indirettamente, obliquamente terapeutica.
E quando ciò non avviene?
Scatta qui il secondo argomento, per me decisivo, della questione sul perché qualcuno dovrebbe chiedere una consulenza filosofica fuori da una prospettiva terapeutica. Medicina e (in buona parte) psicologia si muovono all’interno della logica utile/dannoso. Lo preciso a scanso di equivoci: non è una logica disprezzabile ed io per primo faccio ricorso a queste professioni pragmatiche, operative, strumentali. Solo che non ritengo che la logica utilitaristica sia l’unico orizzonte dell’esperienza umana. E’ possibile - anzi, per me, inevitabile - fare i conti con la logica del degno/indegno e affacciarsi, perciò, ad un orizzonte ulteriore. La filosofia non prescrive - almeno direttamente ed intenzionalmente – ciò che è più utile all’esistere, ma ciò che lo rende più dignitoso: può dare alla scelta di darsi la morte biologica o di continuare a darsi alla vita biologica un’impronta di serietà, di responsabilità, di (almeno relativa) libertà. Qualcuno direbbe che la filosofia può dare alla scelta di morire o di vivere il marchio dell’autenticità.

Augusto Cavadi

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