domenica 3 ottobre 2010

Le tre P: Papa, Palermo e (don) Puglisi


“Narcomafie” , 3 ottobre 2010

I giorni dell’attesa non sono stati privi di polemiche, condite da un po’ d’ironia meridionale sia sul viaggio (”I servizi segreti hanno segnalato l’imminenza di un volo su Palermo con un fondamentalista religioso a bordo, ma pare non ci sia da preoccuparsi: si tratta dell’elicottero del papa”) sia sui preparativi dell’accoglienza (”Due palchi in piazza per il papa? Anche lui si sposta con un cantante napoletano al seguito?”). Le polemiche hanno toccato vari temi: alcuni più generici (”Come fa una Regione in rosso, traboccante d’inoccupati e licenziati, di malati senza ospedali e di bambini senza scuole d’infanzia, a spendere milioni di euro per l’accoglienza del papa?”), altri più interni al dibattito ecclesiale. Soprattutto, fra questi ultimi, due.
Intanto la questione mafiosa. Benedetto XVI ne avrebbe taciuto del tutto (come Giovanni Paolo II nella sua prima visita in Sicilia) o avrebbe alzato un grido di condanna (come Giovanni Paolo II nella sua ultima visita nella Valle dei templi d’Agrigento)? La seconda questione dibattuta alla vigilia del viaggio del pontefice romano riguardava il processo di canonizzazione di don Giuseppe Puglisi, in particolare il suo riconoscimento come “martire” della Chiesa cattolica. Rispetto a queste aspettative, gli interventi di papa Ratzinger possono considerarsi deludenti o soddisfacenti? A giudicare dalle dichiarazioni di molti esponenti cattolici, la risposta sembrerebbe nettamente positiva: “Nella condanna alla mafia è stato esplicito. E il riferimento a don Puglisi ci dà coraggio” ha dichiarato don Antonio Garau, gestore di molti beni sequestrati a mafiosi. “Sottolineando l’incompatibilità tra Chiesa e mafia e indicandoci padre Puglisi come modello da imitare nella vita sacerdotale, ha detto tutto quello che potevamo sperare” gli ha fatto eco don Maurizio Francoforte, attuale successore di don Puglisi a Brancaccio. Sulla stessa lunghezza d’onda il giudizio di osservatori ‘laici’ che il romanziere Roberto Alajmo ha ben sintetizzato in un editoriale su “Repubblica – Palermo”: “Persino l’animo più anticlericalista non può negare che il Papa quello che doveva dire l’ha detto, gli argomenti che doveva toccare li ha toccati”.
Analizzando gli atteggiamenti e le parole del pontefice con qualche distacco emotivo, al di là dell’impatto immediato, tanto entusiasmo va - probabilmente – ridimensionato. Come usa dirsi in casi analoghi, la bottiglia è mezzo piena. Dunque, anche mezzo vuota. Vediamo meglio perché.
Quanto alla condanna della mafia, è vero - e rilevante – che il papa l’abbia ribadita nei due discorsi pubblici a Palermo: sia alla messa del mattino (“il mio augurio è che veramente questa Città, ispirandosi ai valori più autentici della sua storia e della sua tradizione, sappia sempre realizzare per i suoi abitanti, come pure per l’intera Nazione, l’auspicio di serenità e di pace sintetizzato nel suo nome. So che a Palermo, come anche in tutta la Sicilia, non mancano difficoltà, problemi e preoccupazioni: penso, in particolare, a quanti vivono concretamente la loro esistenza in condizioni di precarietà, a causa della mancanza del lavoro, dell’incertezza per il futuro, della sofferenza fisica e morale e, come ha ricordato l’Arcivescovo, a causa della criminalità organizzata. Oggi sono in mezzo a voi per testimoniare la mia vicinanza ed il mio ricordo nella preghiera. Sono qui per darvi un forte incoraggiamento a non aver paura di testimoniare con chiarezza i valori umani e cristiani, così profondamente radicati nella fede e nella storia di questo territorio e della sua popolazione”) sia all’incontro con i giovani alla sera (“Non cedete alle suggestioni della mafia, che è una strada di morte, incompatibile con il Vangelo, come tante volte i nostri Vescovi hanno detto e dicono!”). Non meno significativo delle parole, un gesto tanto eloquente quanto imprevisto: la breve sosta in autostrada per deporre un mazzo di fiori presso una delle stele erette nei pressi di Capaci in ricordo delle vittime della strage del 23 maggio 1992. Omaggio a protagonisti ‘laici’ che ha fatto dichiarare a Maria Falcone: “Il gesto di lasciare la corona di Capaci è un riconoscimento delle vittime come eroi della lotta alla mafia. Il discorso di Wojtyla è stato lo spartiacque tra la Chiesa di prima e quella di dopo, e Ratzinger ha agito nel solco del suo predecessore”.
Ferma restando la rilevanza di questi dati, mi pare doveroso aggiungere in che senso tale rilevanza vada circoscritta. Ancora una volta, da quando il Magistero cattolico ha rotto il silenzio sulla mafia, se ne parla in termini di “criminalità organizzata”, di “strada di morte”: insomma di mafia che spara, che minaccia, che uccide. Anche questo segmento ‘militare’ è mafia, ma non è tutta la mafia: che è un sistema di dominio più articolato, più complesso, costituito inestricabilmente da attività economiche, da infiltrazioni politiche, da relazioni sociali. Sino a quando la condanna etica non arriva a comprendere tutti i versanti del sistema mafioso, resta una condanna incompleta: e, soprattutto, una condanna che esclude qualsiasi cenno di autocritica. Infatti quei cattolici coinvolti in grovigli mafiosi sono, in rari casi, boss e killer sanguinari, ma in misura molto più consistente complici, referenti politici, consulenti strapagati, apologisti prezzolati. La storia, anche recente e recentissima, parla chiaro: la differenza fra la mafia e le altre bande criminali ‘comuni’ è nel fatto che la mafia gode di un cuscino protettore, di una zona grigia, di cittadini che (per paura, per interesse, per inettitudine, per conformismo o per altre mille ragioni) supportano i membri di Cosa nostra. E’ in questo “blocco sociale” che sta la forza della mafia; è in questo “blocco sociale” che pullulano, senza gravi conflitti di coscienza, le presenze di cattolici (laici, ma anche frati e preti); è questo “blocco sociale” che, prima o poi, le condanne ecclesiali devono raggiungere e colpire.
Un po’ diversa, e migliore, la situazione rispetto al processo di beatificazione, per ‘martirio’, di don Pino Puglisi. Il papa lo ha citato ben tre volte: alle 10.30, al Foro Italico Umberto I (“Chi è saldamente fondato sulla fede, chi ha piena fiducia in Dio e vive nella Chiesa, è capace di portare la forza dirompente del Vangelo. Così si sono comportati i Santi e le Sante, fioriti, nel corso dei secoli, a Palermo e in tutta la Sicilia, come pure laici e sacerdoti di oggi a voi ben noti, come, ad esempio, Don Pino Puglisi”); alle 17 nella Cattedrale (“La Chiesa di Palermo ha ricordato recentemente l’anniversario del barbaro assassinio di Don Giuseppe Puglisi, appartenente a questo presbiterio, ucciso dalla mafia. Egli aveva un cuore che ardeva di autentica carità pastorale; nel suo zelante ministero ha dato largo spazio all’educazione dei ragazzi e dei giovani, ed insieme si è adoperato perché ogni famiglia cristiana vivesse la fondamentale vocazione di prima educatrice della fede dei figli. Lo stesso popolo affidato alle sue cure pastorali ha potuto abbeverarsi alla ricchezza spirituale di questo buon pastore, del quale è in corso la causa di Beatificazione. Vi esorto a conservare viva memoria della sua feconda testimonianza sacerdotale imitandone l’eroico esempio”); alle 18 in Piazza Politeama (“Conosco anche l’impegno con cui voi cercate di reagire e di affrontare questi problemi, affiancati dai vostri sacerdoti, che sono per voi autentici padri e fratelli nella fede, come è stato Don Pino Puglisi”). A qualcuno - come don Francesco Michele Stabile, parroco a Bagheria e storico della Chiesa - queste parole del Papa suonano come “una premessa importantissima per il riconoscimento del martirio cristiano”. Non so se si tratti di ottimismo fondato: l’essenziale starebbe, comunque, nel precisare - senza equivoci né esitazioni – che i carnefici di don Pino sono stati certamente i sicari e i mandanti, ma anche quei cattolici (preti e laici) che, avendo assuefatto per decenni i mafiosi a una pacifica convivenza con il mondo ecclesiale, hanno ‘oggettivamente’ creato le condizioni per esporre alla ritorsione criminale un presbitero che, trasgredendo la vergognosa tradizione, ha detto basta alla politica dell’omertà.

Augusto Cavadi

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