martedì 15 aprile 2014

Psicoterapie e consulena filosofica a confronto


“Phronesis” (19 – 20)
Aprile 2014


SOFIA E PSICHE

   Sin dalle prime teorizzazioni, la Philosophische Praxis ha dovuto investire energie per marcare la differenza fra sé e le psicoterapie. Certi modi per formulare tale differenza sono stati così drastici da risultare persino equivoci: quando Achenbach, ad esempio, scrive che "la consulenza filosofica non è una psicoterapia alternativa, ma un'alternativa alle psicoterapie" (      ) può suggerire l'idea – errata - che i filosofi auspichino l’eclissi degli psicoterapeuti, laddove, più semplicemente e più saggiamente, intende avvertire che non si vive  di soli “paradigmi terapeutici” . Se, in qualche caso, si è esagerato nel marcare la differenza (anzi, preciserebbero i logici, la diversità: perché la differenza si dà all'interno dello stesso genere, la diversità fra generi), ciò è servito comunque per bilanciare altri casi nei quali il consulente filosofico ha civettato con il pubblico in modo da indurlo, sia pur vagamente, a supporre che egli potesse non soltanto affiancarsi allo psicologo, ma addirittura spodestarlo (per esempio somministrando Platone al posto del Prozac). La nostra associazione professionale è stata in prima linea (anche a costo di dolorose scissioni al proprio interno e di durevoli tensioni con associazioni analoghe all’esterno) nella difesa dell’identità filosofica: per questo si può permettere, adesso, senza rischiare fraintedimenti di segno opposto, di farsi pioniera di una nuova alleanza con il mondo variegato degli psico-cultori.
 Dopo la fase delle oscillazioni spericolate è arrivato il momento della integrazione serena fra discipline epistemologicamente distinte ma non radicalmente estranee né, ancor meno, incompatibili. Il volume Sofia e psiche, qui in esame, segna - per l'Italia e non solo - una tappa cruciale di questo passaggio dalla polemica (sia nella forma "Non abbiamo nulla in comune" sia nella forma "Io sono più efficace di te") alla cooperazione ("Proprio perché siamo diversi possiamo scambiarci ipotesi di lavoro e acquisizioni contenutistiche"): perché, data la complessità inesauribile dell’essere umano, non provare a ri-accostarsi reciprocamente per capirlo un po' meglio e, possibilmente, dargli sinergicamente una mano nel cammino dell'emancipazione? D’altra parte, si tratta di un ri-avvicinamento fra rami dello stesso albero (o, per meglio dire, dell’albero al ramo che da esso si era gradualmente diramato).


Pollastri e la memoria della differenza

    Già queste innocenti righe introduttive potrebbero scontrarsi con alcuni passaggi cruciali del primo contributo (Un estraneo in famiglia. Sulla relazione tra consulenza filosofica e psicoanalisi) in cui Neri Pollastri si attribuisce il ruolo di sentinella epistemologica, riprendendo e sistematizzando i diversi scritti in cui (con chiarezza magistrale talora addirittura tranciante) ha delineato la differenza fra i due approcci. Infatti mi è scappata la parola emancipazione per indicare un possibile obiettivo comune fra CF e psicoanalisi: ma “il benessere, la salute, la felicità, la crescita, l’autonomia, il cambiamento” non sono solo “conseguenze collaterali e non fini in sé” della CF? Dunque non anche l’emancipazione? Forse è questione di vocaboli, ma preferirei – anziché contrapporre questi obiettivi alla “ricerca della ‘verità’ nella comprensione del mondo” – assumerli a patto di qualificarli immediatamente. Mi spiego (spero) meglio: la CF non mira al “benessere” o alla “felicità”, alla “autonomia” o alla “emancipazione” tout court (o, per lo meno, nelle accezioni correnti di questi termini); ma mira a quel “benessere”, a quella “felicità”, a quella “autonomia”, a quella “emancipazione” che la filosofia può donare e che solo essa dona.  Che poi sono quelle condizioni esistenziali (diversamente interpretate da ciascun filosofo) che, comunque, si configurano come effetto e conseguenza della (almeno parziale) acquisizione di “verità”. Se questo modo di esprimersi non fosse accettabile, potrei tentare una formulazione per me equivalente ma forse più digeribile: la CF non mira alla “felicità” o al “benessere” prima, o a prescindere, dalla ‘verità’, ma solo dopo e come risvolto della verità. Detto altrimenti: quale filosofo sarebbe disposto a negare che le sue prospettive filosofiche (anche le più nichilistiche) gli stanno conferendo una “felicità” e una “autonomia” che in nessun altro modo avrebbe raggiunto  e che sono strettamente intrecciate col suo filosofare?  Oppure (interrogando me stesso): perché mi interessa cercare la verità se non in quanto può farmi “fiorire” (M. Nussbaum) come essere umano? Allora, anzicché dire ad un mio consultante che i miei colleghi psicoterapeuti lo potrebbero aiutare a liberarsi ed io invece a capire sé stesso e il mondo, penso che non tradirei la filosofia se mi esprimessi diversamente: “Psicoterapeuti e filosofi consulenti vorremmo metterci a disposizione del tuo processo di auto-liberazione; essi rispetto ai tuoi condizionamenti psichici (soprattutto inconsci), io rispetto agli errori e dalle illusioni  (di cui si ha, o si può avere senza sondaggi speleologici, consapevolezza)”. Salvare la teoreticità dello scambio fra consulente e consultante è indispensabile; ma altrettanto salvarne la dimensione pratica (nel doppio senso di esistenziale e politica). Altrimenti, per evitare una degenerazione utilitaristica della CF, si rischia di ipotizzare uno scambio fra cervelli in relazione telepatica, non fra corpi pensanti.

I distinguo (motivati) alla tesi di Pollastri
  
   Sin dal secondo contributo, a firma di Maria Luisa Martini (Pratica filosofica e pratica psicoanalitica. Un approccio ermeneutico), il resto del volume è costellato da considerazioni – implicitamente o esplicitamente – critiche  rispetto all’impianto di Pollastri (e di Achenbach). Critiche, ovviamente, nell’unico senso accettabile in filosofia: come proposte di cernita che, accogliendo il valido di una tesi, la inverano in una prospettiva più ampia (e/o più convincente). Così, almeno, mi pare di poter intendere l’invito dell’autrice a non “ridurre la portata delle questioni realmente presenti quando ci si interroga sulla eredità freudiana” (muovendo “obiezioni di principio” ad “alcuni concetti portanti della teoria psicanalitica”, soprattutto alle “modalità della pratica clinica, dall’impostazione del setting, al tipo di relazione che viene instaurata tra terapeuta e paziente, alla centralità attribuita al processo di trasnfert”), rischiando di “ignorare l’impatto e la diffusione capillare della psicoanalisi, che ha permeato profondamente, in ogni aspetto della vita quotidiana, le forme in cui l’uomo contemporaneo pensa e rappresenta se stesso”. Oppure anche il passaggio in cui si rivendica, anche alla pratica psicanalitica, sia pure in una forma “ibrida e ambigua”, un riferimento alla “verità”: intesa certo in maniera analoga rispetto alla nozione filosofica (essa è “attestata dall’efficacia della relazione terapeutica, dall’attenuazione dei sintomi, da condizioni di vita più accettabili”: qui è il contenimento del dolore, insomma, a fungere da “parametro di una verità ritrovata, di un senso di vita ricostruito”, ma non molto distante da quella “accezione del termine ‘verità’ che si va definendo nelle pratiche filosofiche” per la quale “il criterio di verificazione è rappresentato dalla vita stessa del soggetto, che testimonia con il suo concreto esistere la verità di ciò che le sue parole si limitano a enunciare. La verità di ciò che dico a te tu la vedi in me, nel mio essere e nel mio agire, nella relazione che dimostro di saper instaurare con me stesso e con gli altri nella vita quotidiana. I parametri logici o epistemologici vengono sostituiti da parametri esistenziali, da una verità incarnata dal singolo e dalla comunità filosofica”.

Contaminazioni feconde
     Si può riflettere sui rapporti generali fra CF e “mondo psy” solo sino a un certo punto: oltre il quale bisogna planare su casi concreti, nomi e cognomi in dettaglio. E’ quanto fanno, con ammirevole dovizia di rimandi testuali ed esercizi di esegesi, tutti gli altri contributi del volume (tranne l’ultimo per le ragioni che esporrò a conclusione della recensione). Vediamo, sia pur rapidamente, con quali impostazioni psicoterapeutiche (e, in particolare, psicoanalitiche) avvengono i confronti critici (quasi sempre attestanti la possibile fecondità di contaminazioni, nella consapevolezza dell’irriducibile identità originaria, fra i diversi approcci).
    Di estremo interesse il terzo articolo (Jung precursore della consulenza filosofica? Visioni del mondo a confronto) in cui Moreno Montanari, sulla scia di uno studio di Romano Mádera, mostra quanto Jung sia stato consapevolmente debitore verso la tradizione filosofica e quante indicazioni provenienti da essa - dopo di lui, proprio grazie alla sua mediazione – i consulenti filosofici possano riscoprire   dall’angolazione delle valenze esistenziale e politica. Tra le molte possibili, una sola illuminante citazione tratta da Questioni fondamentali di psicoterapia di Jung:

         [Esistono] non pochi pazienti che, pur non essendo affetti da una nevrosi
         clinicamente classificabili, consultano il terapeuta a causa di conflitti
          psichici e altre difficotà della vita, sottoponendogli problemi la cui
          soluzione implica la discussione di principi ultimi. Spesso queste
      persone sanno benissimo, mentre il nevrotico lo sa raramente, o non
      sa mai, che i loro conflitti riguardano il problema fondamentale del
      loro atteggiamento e che questo atteggiamento e che questo
      atteggiamento dipende da determinati principi o idee generali,
      insomma da certe convinzioni religiose, etiche o filosofiche. Grazie
      a questi casi la psicoterapia si estende molto al di là dei limiti della
       medicina somatica e della psichiatria, sconfinando in ambiti
      un tempo riservati a sacerdoti e filosofi. Nella misura in cui
       questi ultimi non operano più o in cui viene negata loro dal pubblico
       la facoltà di operare, si vede quale lacuna lo psicoterapeuta  sia
       talvolta chiamato a colmare e fino a che punto la cura d’anime
       e la filosofia  si siano allontanate dalla realtà della vita. Al pastore
       si rinfaccia che si sa già quanto stava per dire; al filosofo che le sue
       parole non hanno alcuna utilità pratica. La cosa curiosa è che
       entrambi  (a parte eccezioni rarissime) professano una decisa
        avversione per la psicologia.

     Con dovizia di  riferimenti puntuali, il quarto e il quinto contributo – entrambi a firma di Giorgio Giacometti, che è anche curatore dell’intero volume – costituiscono  ammirevoli esemplificazioni di quanto possa essere istruttivo mettere a confronto la CF con le lezioni dei grandi maestri della psicoanalisi. In Un’ermeneutica per la pratica filosofica. Un confronto con Ludwig Binswanger si sottolinea la rilevanza della fatica (comune a filosofi consulenti e psicoterapeuti) di decifrare il discorso dell’altro, prendendolo sul serio, senza ridurlo a sintomo di qualcos’altro di nascosto. In maniera ancora più impegnativa, ne Il discorso dell’Altro. Consulenza filosofica e psicoanalisi lacaniana, il confronto si attua con un mostro sacro della cultura del Novecento che è riuscito  - presentandosi apparentemente come discepolo di Freud – a ribaltare molti elementi della piscoanalisi tradizionale, fondando un tipo di relazione interpersonale che non rientra in nessuna delle categorie precedenti. Dei mille spunti offerti, ne colgo solo uno in continuità con il dibattito a cui ho fatto cenno in apertura di questa recensione (sui fini essenziali e costitutivi della CF): l’autore del saggio trova una convergenza nel fatto che, proprio come nella relazione analitica secondo Lacan, anche la pratica filosofica  “o è trasformativa di chi la compie , o non è affatto” (anche se, ovviamente, si sta ipotizzando non una trasformazione quale che sia e come che sia, bensì dovuta alla “verità” che emerge nel dialogo).
     Non poteva mancare, ovviamente, il confronto con Maslow e la Psicologia Umanistica (May, Rogers, Frankl): se ne assume l’onere, con la consueta competenza, Stefano Zampieri nel suo Una certa somiglianza di famiglia. Consulenza filosofica e psicologia umanistica. L’autore lavora di bisturi perché proprio le impressionanti somiglianze (qui illustrate senza remore, anzi con soddisfazione) esigono un’attenzione particolarmente accurata nell’evidenziare le differenze, sintetizzabili in una formula (che viene ampiamente argomentata): “il filosofico della consulenza non è soltanto un atteggiamento, è piuttosto un ben preciso campo d’azione all’interno del quale i suoi discorsi, cioè quanto si realizza nel colloquio, acquistano un significato”. Anche a proposito di questo contributo, rinunzio alla messe di spunti e di indicazioni interessanti, tranne che a un passaggio (sempre sul tema degli scopi intrinseci della CF): “Né il filosofo consulente né il terapeuta emettono diagnosi, né l’uno né l’altro puntano a una salute intesa magari come ‘normalità’, ma in entrambi i casi di realizza un processo di trasformazione. Rogers lo interpreta come terapia, il filosofo consulente no”. Aggiungo solo una riserva: non mi pare che si possa accusare Victor Frankl di incoerenza fra l’impostazione nietzsciana della sua “volontà di significato” e la prospettazione di un Dio come valore di riferimento assoluto per la ragione, radicale, che non vi è in lui nessuna impostazione nietizsciana. A mio sommesso avviso, infatti, “volontà di significato”  è una formula intenzionalmente ricalcata sulla nietschiana “volontà di affermazione” di Adler per esprimere un capovolgimento di prospettiva.
   Anche Cati Maurizi Enrici, nella sua Breve nota su terapia della Gestalt e tradizione filosofica, si imbatte nella domanda ricorrente in questa raccolta di saggi: “La pratica filosofica può  ‘accontentarsi’ di promuovere una più esaustiva e migliore comprensione di sé e del mondo, considerando la trasformazione personale come un possibile, forse auspicabile, ma non necessario, effetto secondario, lasciando così all’arte e alla religione la possibilità di ‘ispirare’ un radicale cambiamento?”.  Ed anche qui, mi pare, la risposta non coincida con la severa secchezza di Pollastri. Anzi, con una preziosa suggestione, non si esclude che la valenza trasformativa della parola in consulenza  possa essere intensificata da un supplemento poetico.
  Nell’avviare il Dialogo tra consulenza filosofica e medicina psicosomatica Paola Santagostino, a proposito di quest’ultima,  distingue opportunamente “le due anime con cui è nata agli inizi del Novecento, che si incontrano e spesso si scontrano vivacemente: l’anima medica e l’anima umanistica”. Ovviamente è con il secondo filone (qui rappresentato da Medard Boss) che è più agevole svolgere il confronto, che l’autrice delinea in entrambe le direzioni: quale attenzione fiosofica da parte dei medici e quale attenzione alla corporeità (e alle patologie) da parte dei filosofi.
    L’ultimo contributo firmato da un consulente filosofico è di Paolo Cervari che, in Strategie indecidibili. Ambigui incroci tra psicologia strategica e consulenza filosofica, prendendo spunto da esperienze professionali autobiografiche, traccia un confronto fra CF e la proposta scientifica e terapeutica di Giorgio Nardone (allievo di Paul Watzlawick).  Dopo aver a lungo evidenziato i segmenti di contatto, l’autore propone, dialetticamente, una sorta di schema in cui puntualmente si contrappongono i due approcci (almeno intendendo la CF secondo la lezione di Achenbach e di Pollastri). Ma è uno schema che Cervari redige per poterlo problematizzare, destrutturare e ricostruire.  Della sua problematizzazione cito soltanto  il passaggio che si riferisce, ancora una volta, all’interrogativo sul fine specifico della CF : “Certamente il terapeuta o il consulente strategico vogliono cambiare. Anzi è la loro missione. Molto discutibile mi pare invece che non lo voglia fare il consulente filosofico. Al di là del possibile ricorso a tutte quelle filosofie che hanno sempre voluto trasformare il mondo (ammesso che ve ne siano che non lo vogliano fare…), se è vero che il consulente filosofico non vuole cambiare, che fa allora? Fare significa cambiare, a mio parere. E anche parlare significa fare…”.
     Il volume è arricchito, assai efficacemente, da un articolo di un docente di psicologia dell’università di Torino. Con grande libertà di linguaggio e sincerità di accenti, in Psicologi o badanti? Sulla necessità di una formazione storico-filosofica degli psicologi, Giorgio Blandino – rivolgendosi in primis ai ai suoi colleghi e agli aspiranti colleghi -  chiude per così dire il cerchio: dopo l’invito di tanti filosofi a farsi attenti alle psicoterapie, uno psicologo invita a farsi attenti alla filosofia. Nei percorsi formativi, infatti, è stato ormai cancellato qualsiasi riferimento alla storia della filosofia e ai metodi filosofici: perché, stupirsi, dunque, che gli piscologi rischino di ridursi a “badanti della psiche”, a “dentisti della mente”? E che sempre più pazienti, delusi dalle psicoterapie, bussino alla porta degli studi di filosofi consulenza filosofica? Forse – con la crisi economica che imperversa in questa fase – questa constatazione di Blandino andrebbe corretta: la gente, infatti, si allontana sì da molti studi di psicoterapia, ma per restare a casa.

   Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com

1 commento:

Maria D'Asaro ha detto...

A furia di leggere le tue esaurienti riflessioni/recensioni sul tema, tra qualche tempo forse sarò in grado di anch'io di ... scendere in campo come consultante/consulente.