sabato 9 gennaio 2016

"MOSAICI DI SAGGEZZE": IL COMMENTO (E LE CRITICHE) DI ALBERTO G. BIUSO

www.disciplinefilosofiche.it 
(1.1.2016)



Recensione a: Augusto Cavadi, Mosaici di saggezze. Filosofia come nuova antichissima spiritualità, Diogene Multimedia, Bologna, 2015, pp. 357. (Alberto Giovanni Biuso)

 L’obiettivo di questo libro, ampio nel respiro e ricchissimo di citazioni, consiste nel «recuperare gli elementi costitutivi di una spiritualità filosofica. Nella convinzione che essa abbia qualcosa da offrire a chi non si riconosca – o in tutto o in parte – nelle proposte spirituali di origine confessionale né di matrice sapienziale orientale né di impianto psicologico né di stampo New Age» (p. 49). L’Autore è convinto che negli anni Dieci del XXI secolo sia maturo il tempo per risvegliare una spiritualità esplicitamente filosofica, che si ponga in relazione con le forme di spiritualità cristiana, orientale e psicologica senza però confondersi in nessun modo con esse. Ma che cosa si intende qui con il termine spiritualità? «Saggezza, trasformazione di sé, attività pratica» (p. 114) e poi «convinzione, passione, amor, slancio, ricerca. Di cosa? Di luce, quiete interiore, saggezza. I Greci direbbero che è questione di filia nei confronti della sofia. Di filosofia, appunto» (p. 294).
Tra i numerosi argomenti  – anche di natura operativa – affrontati dal libro, mi sembrano di particolare rilevanza l’ontologia, la morte, il tempo.
Uno dei fondamenti dell’attività filosofica, comunque la si declini, consiste infatti nell’indagine su «ciò che è in quanto è» (p. 146), sulla realtà e sulla verità degli enti, degli eventi e dei processi. Di tale realtà è parte costitutiva la fine di tutto ciò che ha avuto un inizio, in particolare la fine dei viventi, che è inscritta nel fatto stesso di essere nati: «Come ripeteva sant’Agostino, l’uomo nasce e di questo, essenzialmente, muore (incidenti, guerre, malattie sono occasioni secondarie)» (p. 260). Ne segue che una delle espressioni più chiare e radicali della saggezza filosofica consiste nell’accettare il proprio invecchiamento e soprattutto nel «rinunziare all’impresa […] di accrescere quantitativamente il tempo a propria disposizione per dedicarsi, invece, a intensificarlo qualitativamente» (p. 181). In questo modo si potrà affrontare  – come suggerisce Edgar Morin – il buio e l’incertezza dell’esistere senza tuttavia cedere alla disperazione, cercando piuttosto «di imparare la lezione del nichilismo come antidoto al delirio dell’onniscienza antropocentrica» (p. 143).
Costruito su una molteplicità di fonti e prospettive – in particolare sugli Esercizi spirituali e su altre opere di Pierre Hadot – c’è tuttavia in questo progetto qualcosa che lascia perplessi. La centralità continuamente ribadita del fattore biografico nella valutazione di una filosofia è infatti un evidente errore. I filosofi hanno ciascuno i propri lati oscuri, le loro miserie, esattamente come tutti gli altri esseri umani. Il significato della loro opera non può consistere nel rimuovere questo limite, e neppure nel comportarsi in modo sempre coerente con le proprie concezioni su una molteplicità di ambiti, ma sta nella capacità di elaborare con analiticità e rigore tali concezioni, affinché l’orizzonte di vita e di conoscenza di chi le incontra ne venga ampliato e fecondato. Lo stesso Cavadi ricorda giustamente che «per esprimere questa dimensione gratuita e disinteressata dell’attività filosofica i Greci avevano a disposizione un aggettivo specifico: “teoretico”» (p. 17). È significativo che il capitolo concettualmente più interessante del libro sia quello dal titolo “quando la filosofia era anche una spiritualità” poiché in esso, sempre sulla scorta di Hadot, si mostra (in particolare alle pp. 65-67), che la filosofia, in quanto tale, è il culmine di ogni spiritualità, qualunque concetto e pratica si intenda con tale parola.
La filosofia di per sé, se svolge il proprio ruolo con il necessario rigore teoretico e non con cangianti e impressionistici tratti esistenziali, con elevazioni spirituali, con soluzioni di angosce psichiche o con proposte di miglioramenti del mondo, è il tentativo di una riflessione scientifica che indaghi la realtà delle cose. Ha ragione Heidegger quando – nella sua magistrale analisi del Sofista platonico – individua uno dei più consistenti danni prodotti dal cristianesimo sulla filosofia greca nel fatto che da tale influsso «l’idea della ricerca fu completamente offuscata da generiche tendenze spirituali e l’idea della filosofia subì l’egemonia di esigenze culturali ben precise, fino a diventare una creazione che soddisfa in senso eccellente tali esigenze e che può a buon diritto essere chiamata “filosofia profetica”. […] Di questo fenomeno di decadenza della filosofia  – altri vi scorgono un progresso – è fondamentalmente responsabile il cristianesimo e ciò non deve sorprendere, dal momento che la filosofia è stata associata con il bisogno di elevazione dell’anima». Heidegger tuttavia supera i limiti della cristianità e ci avverte di un fondamentale e ulteriore problema: «L’altra faccia di tale stanchezza del domandare e di tale esaurimento della passione per il conoscere è nel contempo la tendenza a pretendere dalla filosofia o addirittura dalla scienza qualcosa come un appiglio, a cercare sostegno in essa per l’esistenza spirituale, oppure a congedarla qualora essa non lo conceda. Questa tendenza a cercare rifugio rappresenta un fraintendimento fondamentale dell’indagine filosofica» (M. Heidegger, Il «Sofista» di Platone, [Platon Sophistes (1925), Vittorio Klostermann, 1992]; trad. di A. Cariolato, E. Fongaro e N. Curcio, Adelphi 2013, § 39, pp. 281-284).
Un autentico lavoro filosofico è già esistenza filosofica; non ha bisogno di rinviare ad altre forme della comprensione del mondo e dell’abitare in esso. La filosofia può e deve confrontarsi con ogni altra espressione del bisogno umano di significato, permanendo sempre però nella sua identità di coglimento concettuale della vita. È dalla radicalità di tale comprensione che può scaturire la padronanza dell’esistenza. Si può dire infatti che filosofia è guardare la Medusa e far sì che sia lei a pietrificarsi.

http://www.disciplinefilosofiche.it/recensioni/32-recensione-a-augusto-cavadi-mosaici-di-saggezze-filosofia-come-nuova-antichissima-spiritualita-diogene-multimedia-bologna-2015-pp-357-alberto-g-biuso/

15 commenti:

Pietro ha detto...

Scrive Alberto: "I filosofi hanno ciascuno i propri lati oscuri, le loro miserie, esattamente come tutti gli altri esseri umani. Il significato della loro opera non può consistere nel rimuovere questo limite, e neppure nel comportarsi in modo sempre coerente con le proprie concezioni su una molteplicità di ambiti, ma sta nella capacità di elaborare con analiticità e rigore tali concezioni, affinché l’orizzonte di vita e di conoscenza di chi le incontra ne venga ampliato e fecondato." Penso che la filosofia non dovrebbe affatto rimuovere miserie e oscurità ma, anzi, illuminarle, porci di fronte alle nostre contraddizioni ed incoerenze. Qualcuno, che al solito non ricordo, scriveva che bisognerebbe pensare solo quello che si è in grado di mettere in pratica. Magari non sarà proprio così per un filosofo che, però, dovrebbe quanto meno imparare a misurare la distanza tra il proprio sapere teorico e la propria vita pratica . Il problema è che di solito il pensiero diventa strumento del nostro bisogno di eludere responsabilità e verità scomode. E forse una filosofia "pratica" potrebbe aiutare il filosofo a confrontarsi con queste accortezze della mente, con le sue rimozioni e difese.

Augusto Cavadi ha detto...

Scrive, tra l'altro, Alberto G. Biuso: "La centralità continuamente ribadita del fattore biografico nella valutazione di una filosofia è infatti un evidente errore". L'osservazione mi è preziosa occasione per precisare (innanzitutto a me stesso) i termini della questione. La quale si può formulare così: quanto è importante, nella valutazione di un filosofo, la sua coerenza pratica con ciò che sostiene teoreticamente? La mia (attuale) posizione si Scrive, tra l'altro, Alberto G. Biuso: "La centralità continuamente ribadita del fattore biografico nella valutazione di una filosofia è infatti un evidente errore". L'osservazione mi è preziosa occasione per precisare (innanzitutto a me stesso) i termini della questione. La quale si può formulare così: quanto è importante, nella valutazione di un filosofo, la sua coerenza pratica con ciò che sostiene teoreticamente? La mia (attuale) posizione si pone su un delicato crinale che lascia, a destra e a manca, due burroni egualmente letali (o, per riprendere Alberto, due "evidenti errori"). Sul primo di questi errori credo che concordiamo: nessuna incoerenza di vita può mai azzerare il valore teoretico dell'opera di un filosofo ( come ho scritto a p. 29: “Potrei aderire alla teoria platonica della reminiscenza anche se fossi convinto che Platone è stato un aristocratico autoritario o alla interpretazione materialistica della storia di Marx anche se lo ritenessi un demagogo più abile nel demolire che nel costruire”). E’ sul secondo errore che, mi pare, discordiamo: per me – a differenza di Alberto – la filosofia non è “paragonabile agli altri saperi” e un sistema filosofico non è del tutto comparabile a “una teoria matematica” o a “una medicina contro i tumori” (p. 29). Ho scritto chiaro e tondo che la concezione della filosofia esclusivamente come “produzione di sistemi concettuali, sulla base di un’attenta analisi filologica dei testi”, è una concezione “legittima e, nei suoi limiti, preziosa”, ma “incompleta” (p. 29). Proprio come lo è, ai miei occhi, ogni filosofia che intenda appiattirsi a mera biografia esistenziale rinunziando ai “parametri logici o epistemologici” (p. 30). Insomma, a mio avviso, “solo una concezione della filosofia come pensiero e come vita (dove la e congiunge ciò che le filosofie dividiate tentano di disgiungere) può avere un’anima” (p. 30). Questa mia prospettiva significa accentuare la “centralità del fattore biografico”, come Biuso rimprovera a me e, soprattutto, a quell’Hadot da cui mi sono lasciato fuorviare? Se “centralità” significa sottolineatura esclusiva o predominante della valenza esistenziale-politica, il rilievo che mi viene mosso non coglie il mio pensiero autentico. Se invece significa sottolineatura dell’imprescindibilità della valenza esistenziale-politica, allora l’obiezione raggiunge ciò che penso davvero. E, ovviamente, mi dispiace che su questo punto, Alberto ed io dissentiamo. Egli è certo in buona compagnia: mi pare che da Cartesio a Hegel (non senza delle eccezioni notevoli) la filosofia sia stata intesa come “architettura concettuale che costruisce o ricostruisce” (Hadot, da me citato a p. 30); ma neanch’io sono solo, se è vero – come suppongo – che in un dibattito pubblico nell’al di là avrei dalla mia i pre-cartesiani (da Socrate a Tommaso d’Aquino e a Giordano Bruno) e i post-hegeliani (da Schopenhauer e Feurbach a Wittgenstein e Jaspers).

Bruno Vergani ha detto...

Ente Soggetto che elabora incontaminata teoresi concettuale avulso dall’autobiografia (estraneo a sé medesimo, storia, ambiente). Manco Iddio nostrano alberga in così alte sfere e il filosofo si?

Giorgio Giacometti ha detto...

Come Augusto ricorderà, ho molto apprezzato il suo libro “Mosaici di saggezze”, quando ne discuteremmo a Messina, in occasione di un incontro di filosofi (sedicenti) praticanti. Nel frattempo ho finito di leggerlo e sono perfino riuscito a citarlo, qua e là, in sede di correzione delle prime bozze di un mio volume di prossimo uscita e di argomento affine. A mio modo di vedere, come Augusto sa, il modo corretto di porre la questione del rapporto tra “filosofia” e “vita”, di cui si discute anche su questo blog, è il seguente. La vita non si traduce forse in una molteplicità di emozioni, gesti, atti carichi di significato? Ad esempio, se chi si proclama alieno da ogni forma di razzismo evitasse come la peste coloro la cui pelle ha un colore diverso dalla sua non cadrebbe in una “contraddizione performativa” o “pragmatica” (O. Apel) e, soprattuto, non renderebbe poco “credibile” la sua “dottrina”, predicando bene, ma razzolando male? Non sono in gioco questioni “esistenziali” in senso riduttivo, ma “logiche”. Ne va della “coerenza” di una dottrina, come sapevano bene i Greci. Sapere che Rousseau abbandonò i figli in orfanotrofio getta una luce sospetta sull' “Emile” e ci induce a leggerlo ampliando la nostra prospettiva ermeneutica. Non per “condannare” moralisticamente le sua contraddizione (quante celebri dottrine, a cominciare da quella platonica delle “Idee”, incorrono in contraddizioni anche semplicemente “formali”, senza per questo perdere in profondità teoretica) , ma per comprenderne più a fondo il senso. Hadot cita l'episodio dello scettico Pirrone, spaventato a morte da un cane, che, interrogato dai suoi discepoli perché mai avesse abbandonato la sua “atarassia”, rispose più o meno: “E' difficile uccidere l'uomo”. Se Heidegger avesse risposto in modo simile (e meno oracolare e furbetto...) alla domanda perché egli avesse aderito al nazismo (per esempio: “E' difficile uccidere le proprie ambizioni accademiche”), non sarebbe risultato non semplicemente più umanamente simpatico, ma anche più credibile?

Alberto Giovanni Biuso ha detto...

Caro Augusto, mi stupisce un poco la tua chiusa. Scrivi infatti come se non ci conoscessimo da tanti anni. Sai benissimo che io mi pongo sulla seconda delle due linee che indichi (un poco schematicamente), vale a dire in quella che dai pensatori delle origini (meglio che il riduttivo 'presocratici' ancora utilizzato da molti) va ai maghi del Rinascimento (Bruno, appunto), a Spinoza, Schopenhauer, Nietzsche, Bergson. Forse non è così facile schematizzare le filosofie, neanche la mia per quanto piccola essa sia. Nella recensione ho cercato di dire che il lavoro filosofico se praticato con rigore e passione trasforma di per sé l'esistenza, rende più sensata la vita propria e altrui. Questo ho detto, niente di più e niente di meno. L'immagine conclusiva della filosofia e della Medusa speravo che lo chiarisse abbastanza.

Bruno Vergani ha detto...

Il dialogo leggermente amaro tra Biuso e Augusto mi ha portato a considerare che sarebbe utile annoverare Freud filosofo a pieno titolo, espandendo il nostro dire dalla dimensione etica a quella psichica. Chi più preciso ha affrontato le tematiche in campo? : l’Io non padrone in casa sua e dunque il desiderio di nobiltà che vira in nevrosi che a Biuso sembra sfuggire; l’essere più sani nel concedersi, alla luce del sole, d’essere peggiori come ben evidenziava Giacometti; la religione che impone vie verso il raggiungimento della felicità e la protezione dalla sofferenza deformando in maniera delirante l'immagine del mondo reale avvilendo l’intelligenza (infantilismo psichico, delirio collettivo), rischi, a mio avviso, ben analizzati nel libro di Augusto. E ancora narcosi (religione) che controlla l’angoscia, ma ottunde la mente come Biuso denuncia puntuale. E poi il successo che non va di pari passo col merito e la profezia che si avvera come dinamica del desiderio che equivoca il sogno con la sua realizzazione.

armando caccamo ha detto...

Mi inserisco da uomo della strada, come è mia abitudine fare senza timori reverenziali verso persone che rispetto e stimo e che hanno molta più autorevolezza di quanto possa averne io.
Per troppo tempo, ma non da sempre, la ragione ha l’onere di occuparsi delle risposte alle grandi domande dell’uomo, e questo esercizio è stato chiamato: pensiero filosofico.
Questa pretesa di esclusiva ha lasciato però spazio alle religioni che, approfittando, hanno monopolizzato l’altra faccia della mente umana che ha sempre reclamato, e sempre reclamerà, il suo di spazio: la faccia irrazionale. Questa usurpazione ha permesso di manipolare il pensiero della gente per scopi non sempre limpidi.
La filosofia venne relegata a disciplina per pochi e fu un tremendo sbaglio. Sappiamo i danni causati da questa abdicazione da parte del pensiero razionale. Negli ultimi tempi un’altra presuntuosa disciplina, la scienza, si è accorta a sua volta di un simile sbaglio commesso e sta cercando di porvi rimedio.
Anche il pensiero ‘cosiddetto’ orientale già da tempo approfitta di questo vuoto lasciato dalla irresponsabile autosufficienza del razionale; per tacere dell’abnorme successo della psicologia che, per riempire vuoti, nel secolo scorso, è andata incontro alla richiesta di irrazionale, abbandonando il suo naturale campo medico.
Penso sia arrivato il tempo per la filosofia di ritornare ad abbracciare l’inestinguibile desiderio di mistero, infatti quando la filosofia nacque condivise col mito, condizionandolo, il sapere dell’uomo.
Io credo che al bordo dell’inconoscibile si possa stare se i due aspetti della mente staranno insieme con compiti diversi ma rispettando le prerogative l’uno dell’altro.
D’altra parte l’arte figurativa, la musica, la poesia sono progredite seguendo sentimenti, emozioni, intuizioni che col razionale hanno poco a che fare e che cosa, se non l’arte, può maggiormente avvicinarsi al bordo dell’oltre, a cui mai l’uomo potrà rinunciare?
Penso che il tentativo di ricerca di spiritualità filosofica nasca da questa esigenza, penso che la ricerca di senso, assistita dalla filosofia “pratica”, possa riprendere le fila di una società, come quella in cui stiamo vivendo, orfana di qualsiasi punto di riferimento razionale e/o irrazionale, e lo possa fare in tutti i campi di interesse umano.
Grazie.
Armando Caccamo


Bruno Vergani ha detto...

@ArmandoCaccamo. Pensavo all’arte - non casualmente presente, a tratti celebrata (primato del poeta sul filosofo), nel libro di Augusto - come possibile sintesi tra il filosofo teoretico che altezzoso concatena proposizioni (e talvolta s’incatena) e il mistico che fugge l’inferenza abdicando da sé medesimo. La pensavo riguardo la Medusa che secondo il mito non viene pietrificata in presa e angolazione diretta ma riflessa, scudo-specchio metafora dell’arte.

armando caccamo ha detto...

...grazie ... un meraviglioso "cammeo" al mio riferimento all'arte ... grazie ancora!

Augusto Cavadi ha detto...

Caro Bruno, non so bene a cosa ti riferisci con "leggermente amaro". La dialettica filosofica può essere un po' dura nella forma, ma - di diritto - non dovrebbe ferire le sensibilità. Di fatto qualche volta ciò non avviene: ma, quando ne ho certezza, interrompo un dialogo diventato a quel punto sterile, anzi autolesionistico.

Bruno Vergani ha detto...

Caro Augusto, amarognolo è aggettivo del mio vino che ho equivocato per il vostro.

Alberto Giovanni Biuso ha detto...

A proposito della dimensione immediatamente pratica di un pensiero filosofico rigoroso e profondo, mi permetto di citare la pagina di un libro che sto leggendo in questi giorni. L'autore è Jean Greisch, il titolo "Ontologie et temporalité" (PUF 2003) e consiste in una attenta analisi di "Essere e tempo". A p. 126 l'autore parla del 'Dasein', il termine con il quale Heidegger indica l'essere umano sempre collocato in un preciso luogo/istante, e scrive:
"L'attitudine puramente cognitiva (fatta soltanto di curiosità teorica) davanti a un mondo che così diventa un puro oggetto d'indagine teorica, non è affatto 'naturale'. Essa suppone, al contrario, che si sia già fatta astrazione di un certo numero di cure 'pratiche', di 'bisogni' (Besorgen) che caratterizzano la nostra relazione 'normale' e 'naturale' con il mondo".
Condivido del tutto e aggiungo che è anche dallo studio di Heidegger che ho imparato a dare importanza a ogni istante della vita quotidiana e a cercare di viverlo quanto meglio possibile.
So che Augusto intende anche questo con 'spiritualità' e qui ci ritroviamo interamente.

Bruno Vergani ha detto...

G.B. Contri, psicoanalista, commentando [ http://www.giacomocontri.it/BLOG/2016/2016-01/2016-01-16-BLOG_domenica_verita_potere.htm ] «Diritto senza verità» del giurista Natalino Irti 2011, affronta la tematica verità e potere -per potere intende il sano, sovrano, potere personale non il sopruso- , conclude:
«Il diritto è la sede o casa della verità, solo che non ci si sottometta più a un’idea di Verità lassù-lassù, ou-topica o da nessuna parte, relativa all’“oggetto”, che ha se-dotto senza attrattiva e senza guadagno l’umanità da millenni: intendo invece la verità come il nesso d’imputazione tra un giudizio e un atto, al posto della tradizionale definizione della verità come adeguatezza dell’intelletto alla “cosa” (adaequatio intellectus ad rem, Tommaso).»
Tutti da dimostrare i presupposti danni procurati da Tommaso. Vedo invece puntuale la contrapposizione dei due filoni filosofic: “adeguatezza dell’intelletto all’oggetto” VS il “nesso d’imputazione tra un giudizio e un atto”, che mi hanno riportato alla mente due ex amici di percorso “concettualmente” immacolati, uno sindacalista che dal palco difendeva il salario dei dipendenti e rincasato picchiava la moglie, l’altro regista che realizzava film sul rispetto dei diritti umani dirigendo con sistematico sopruso chi lavorava con lui. Dopo aver ruminato il libro di Augusto ritengo che la suesposta analisi di Contri abbia trovato sintesi che il vostro dialogare conferma e rafforza.

Bruno Vergani ha detto...

Nel primato dell’atto teoretico sulla biografia ho individuato, a distanza di tempo, una parziale contiguità con il precedente luterano del Sola Fide, quasi ne fosse la versione filosofica.

Gino Adamo ha detto...

Caro Augusto: anzitutto vivissimi rallegramenti!
Per la tua ultima fatica: , che spero quanto prima di procurarmi il piacere di leggere. Frattanto, ho potuto seguire il dibattito - sul tuo ricchissimo Blog – introdotto dalla penna agrodolce di Alberto Biuso, al quale ha fatto seguito una nutrita schiera di fedeli Amici, cui volentieri avrei voluto associarmi. E se me ne sono astenuto è stato per la mia antica norma di evitare di commentare testi non direttamente letti e meditati. Però, con franchezza, debbo aggiungere, che grazie a quanto ho ricavato dai commenti letti nel Blog, un’idea me la sarei fatta. Insufficiente indubbiamente per esprimere (per quel che vale) un serio giudizio personale, che, a mio avviso, rischia, in questi casi, di ricalcare per involontario riflesso, opinioni altrui.
Mi è parso esaustivo, oltre che al solito penetrante e autorevole, il giudizio critico di Alberto Biuso, che introduce l’argomento esaminandone tratti essenziali.
Pur consapevole della mia pochezza filosofica spero vorrai consentirmi (solo per un momento) il privilegio di dissentire dall’articolato parere del Biuso: specificamente dove osserva che la centralità continuamente ribadita del fattore biografico nella valutazione di una filosofia è infatti un evidente errore.
Da quando leggo di filosofia e di letteratura(soprattutto narrativa) mi è di frequente accaduto di voler conoscere per meglio approfondire il discorso, filosofico o narrativo, di un autore cercando nella sua trama esistenziale le tracce di motivazioni, di idee o di peculiari proposizioni: ossia, facendo quel che (se ho ben compreso) il buon Biuso bacchetta nel tuo saggio, definendolo senz’altro un evidente errore. Certo, può sembrare facile impresa per me pormi al tuo valido fianco nel rintuzzare la tesi di Biuso: ma – nel mio piccolo (anzi piccolissimo!) – l’idea di far congruo uso del dato biografico nello studio di un pensiero filosofico, mi sembra più che legittimo: irrinunciabile. S’intende senza scadere, come peraltro perfettamente tu chiarisci nell’appiattimento di una filosofia a mera biografia esistenziale rinunziando ai “parametri logici o epistemologici”. Anni addietro ti posi, in una email, un quesito, che riassumo così: in che misura, l’opera di un filosofo può essere, in qualche modo, influenzata da fattori esistenziali. E poiché allora riprendevo la malagevole lettura del capolavoro di Heidegger, con scoraggianti risultati, per il linguaggio ostico, a volta addirittura arruffato e involuto, il mio interrogativo si richiamava alla vexata quaestio della conversione al nazismo del pensatore tedesco. In sostanza, era possibile stabilire quanta parte di ideologia nazista impregnava la geniale teoria dell’Esserci? Domanda ingenua?

Affettuosi saluti,
Gino ADAMO