mercoledì 17 marzo 2021

ERRORI, OMISSIONI, INCOMBENZE DA ADEMPIERE... DEI COSIDDETTI "INTELLETTUALI"


 “Dialoghi mediterranei”

1.3.2021

 

SIAMO ORFANI DELLE “GRANDI NARRAZIONI”

L’ansia diffusa di “ricominciare” dopo la pandemia accomuna, comprensibilmente, tutti gli strati sociali. Ma – si è chiesto, nel numero scorso dei nostri “Dialoghi”, Francesco Faeta – quanto di autentico c’è nelle “poetiche del ri-inizio” e quanto di fittizio?  La sua attenzione critica si concentra sul mondo della cultura dove il “discorso pubblico” ingloba, appiattendole, le situazioni più diverse: il grande teatro di Stato o le grandi fondazioni artistiche private, i luoghi dove la cultura significa essenzialmente elevati profitti per pochi, mostrano di condividere fraternamente il destino con il piccolo libraio di San Lorenzo a Roma, che vive soprattutto dei bicchieri di vino che vende ai suoi clienti, con la comparsa di Cinecittà che non fa più una comparsata, con il clown di strada che campava con le feste private o con lo spettacolino in ospedale per i bambini malati”. Destrutturata l’aura di retorica che lo circonda, questo mondo della cultura che tutti – almeno a parole – vorremmo salvare e rilanciare, merita davvero il ripescaggio? 

L’autore è decisamente severo: nella edificazione del sistema sociale messo in crisi dalla pandemia, “se il capitalismo neo liberista ha fatto da motore, se le istanze amministrative e di governo hanno controllato e manipolato i processi, il mondo della cultura, con le dovute eccezioni naturalmente, ha svolto una comoda funzione edulcorante”. Esso, “lungi dal produrre le basi per una radicale critica degli status quo (qualsiasi essi siano)”, si limita a suonare il piffero “per garantire livelli di gratificazione accessoria per minoranze relativamente ristrette”. Nella fenomenologia di questo processo, Faeta individua alcuni fattori più rilevanti: la logica  gerarchica (gerarchia dei “valori”, degli “attori” e delle “agenzie produttrici della cultura”);  la supervalutazione della “erudizione” (a discapito della “relazione con gli altri”, delle “competenze” effettive e delle “esperienze” maturate); l’arroccamento sulla dimensione asseverativa e consolatoria” per evitare i rischi “del dialogo e dell’incontro” con gli ambienti popolari più deprivati di istruzione. La conclusione cui perviene l’autore è spietatamente sincera: “della cultura come si è negli ultimi tempi espressa, dopo il mortale abbraccio della pandemia, io non sento alcun bisogno e alcuna nostalgia”.

  L’analisi dell’antropologo suona oggettivamente   – e, suppongo, intende essere – un invito al confronto con altri sguardi epistemici. Personalmente non ho colto né lacune né esagerazioni: a settant’anni suonati avverto un’allergia crescente per un certo modo di stare al mondo e a naso, se devo scegliere a quale tavolino  del bar accomodarmi per un caffè, obbedisco a un solo criterio: non dove siedono signori dall’aria di intellettuali. Se posso mi sistemo nelle loro immediate vicinanze a origliare e dopo dieci minuti, sulla base di quanto ascoltato,  decido se spostarmi ancora più lontano oppure restare, imparare davvero, senza obbligo di intervenire: in quanto filosofo di strada sono autorizzato a evitare la divisa canonica di professore in quiescenza e posso senza difficoltà spacciarmi da semi-disoccupato forse ignorante, certamente ignorabile.

 Lette dunque le pagine di Faeta, da “specialista del generico” (come si esprime un collega tedesco, Gerd Achenbach, a cui sono debitore di molti stimoli), posso  limitarmi ad accennare qualche possibile passo di danza che consenta il transito dalla diagnosi alla terapia. 

  Un primo passo è sul piano dell’elaborazione politica. Non ci si può attendere che il  mondo della cultura – degli intellettuali, degli artisti, degli scienziati – critichi (decostruisca) l’assetto socioeconomico attuale in assenza di un chiaro scenario all’orizzonte. Se lo facesse, e quando (in sparute minoranze) lo fa, non è una buona notizia: potrebbe sottintendere, infatti, la convinzione  che il socialismo reale (rinnegato in tutti i Paesi in cui è stato in vigore) o l’azzeramento nichilistico (in nome di una fede cieca, benché ‘laica’: “Abbattiamo, abbattiamo l’esistente: qualcosa di nuovo e di migliore nascerà!”) costituiscano valide alternative. Ma, almeno a mio sommesso parere, non è così. Non basta ridicolizzare il “capitalismo” e denunziarne, con la massima serietà, gli effetti funesti (come ha fatto di recente, con indubbia efficacia letteraria, Giuseppe Sapienza ne L’arte del capitale edito da Algra nel 2020). Siamo orfani delle “grandi narrazioni”: dobbiamo prenderne atto, ma non arrenderci all’immobilismo, rinunziando a fissare una chiara direzione di marcia. Dobbiamo disegnare e proporre, con lucidità mentale e almeno un po’ di passione, un progetto per il quale abbia senso abbandonare la padella dell’individualismo predatorio capitalistico senza temere di precipitare nella brace di totalitarismi collettivistici.

  In questa costruzione di una méta utopica non dobbiamo ripartire da zero. Abbiamo i “sacri principi dell’Ottantanove” (a patto di non osare disgiungerli: libertà, uguaglianza e fraternità stanno o cadono insieme); abbiamo – per limitarci a pochi esempi italiani - maestri di spessore (Guido Calogero, Aldo Capitini, Ignazio Silone, Norberto Bobbio, Giorgio La Pira…) la cui voce pacata è stata surclassata dalle urla di ciarlatani demagoghi. Poiché i mutamenti storici, pur attivati da minoranze pensanti, si rivelano efficaci solo se  coinvolgono aree consistenti della popolazione, occorre moltiplicare gli spazi democratici dove ascoltare, esaminare, discutere, correggere, integrare…le linee generali di ogni progetto politico. 

     Ecco dunque un secondo passo che investe il registro pedagogico. Istituzioni scolastiche e universitarie, partiti, sindacati, associazionismo ‘laico’ e confessionale…dovrebbero mobilitarsi per un’alfabetizzazione politica che renda i cittadini e le cittadine in grado di partecipare, con un minimo di competenza, alla elaborazione di una concezione diversa di società. In più di quarant’anni di lavoro nel sistema dell’istruzione ho sperimentato – in colleghi e in dirigenti scolastici – delle resistenze grottesche, nei casi migliori basate sull’equivoco dell’identificazione della politica ‘partitica’  (che va tenuta fuori dalle mura scolastiche) con la ‘teoria’ politica (che va invece coltivata come asse portante dell’educazione integrale). Alcuni strumenti didattici che ho apprestato nei decenni  (tra cui  La bellezza della politica. Attraverso e oltre le ideologie del Novecento, riedita adesso dall’editore Di Girolamo) hanno ricevuto, tuttavia, da parte di  altri colleghi e di altri dirigenti scolastici un’ampia accoglienza in varie zone del Paese: segno che una domanda di “cultura” politica esiste e la gente intuisce, più o meno chiaramente, che essa non può essere soddisfatta “porta a porta”. 

  Perché questi primi due passi (elaborazione progettuale alternativa al “pensiero unico” e “democratizzazione” delle conoscenze politiche) non sono stati compiuti – o lo sono stati in maniera insoddisfacente? Si è trattato di difetto d’inventiva? Sarebbe ingenuo supporlo. La verità è più semplice e più scoraggiante: per camminare in una direzione è necessaria una motivazione adeguata. Ipotizzare altri modi di vivere la socialità, l’economia, il diritto, la sanità, le relazioni internazionali, i flussi migratori…significa auto-emarginarsi rispetto ai committenti che contano: in primis imprese (titolari di potere finanziario) e organizzazioni partitiche (titolari di potere politico). Significa abbracciare un’esistenza, se non povera, almeno sobria; se non umile, almeno decentrata; se non ignota, almeno confinata ai bordi del palcoscenico massmediale.  Chi è disposto a vivere la propria dimensione intellettuale in simili condizioni? Chi ha trovato un pozzo interiore abbastanza profondo da poter attingervi per lunghi anni  ragioni etiche più forti del canto di tante, e tanto seduttive, sirene? Qualcuno, come don Milani, si alimenterà di fede religiosa; qualche altro, come Che Guevara, di passione umanitaria; qualche altro ancora, come Peppino Impastato, di senso della giustizia. Ma come ciò avvenga in concreto resta – almeno per me – un mistero antropologico.  Il passaggio, per dirla con Pascal, dalle “buone massime” al “praticarle” non è automatico: più che una deduzione logica, un salto dalla logica alla prassi. In un anno orribile per la mia generazione, nel 1992, un gruppo di amici ci siamo costituiti in associazione di volontariato culturale per  provare a contagiarci a vicenda una ‘in-spirazione’, per sostenerci a vicenda nelle fasi di scoraggiamento, per supplire alle deficienze pedagogiche del mondo dell’istruzione e della rappresentanza politica: abbiamo così fondato la Scuola di formazione etico-politica “Giovanni Falcone” di Palermo per verificare la convinzione gramsciana che un intellettuale non è un tipo particolare di essere umano, bensì ogni essere umano è un tipo particolare di intellettuale.   A quasi trent’anni di distanza il bilancio non è entusiasmante: come ho raccontato nel recente libretto La mafia desnuda, migliaia di persone si sono lasciate coinvolgere per una sera, o per un ciclo di seminari, ma pochissime hanno accettato di impegnarsi in maniera continua, sistematica. Eravamo, secondo l’espressione di Habermas, una delle tante “minoranze morali” disseminate sul pianeta: e tali siamo rimasti. Nel mitico Sessantotto, a diciotto anni esatti, sognavamo di cambiare il mondo abbattendo le barriere ideologiche e confessionali, convertendo i cannoni in aratri per gli affamati della Terra, riconciliandoci con le istanze della Natura dentro e fuori di noi: ci siamo riusciti molto parzialmente. Gli effetti ambigui della globalizzazione ci vietano ogni trionfalismo, ma altrettanto lo sconforto disperato dei falliti. Il piccolo fuoco acceso nella notte della guerra ‘fredda’ non è riuscito a incendiare la foresta delle sperequazioni fra mortali, soprattutto fra i Nord e i Sud del mondo,  ma almeno è sopravvissuto (sinora) alle folate di vento. Possiamo consegnarlo, benché tremulo,  nelle mani delle generazioni che ci accompagneranno alla tomba (col sottofondo musicale di Imagine, di John Lennon): non è molto, ma forse abbastanza per dare senso alle nostre vite.

Proprio in queste settimane Vito Mancuso ha dato alle stampe un tomo voluminoso che, a prima vista, potrebbe scoraggiare il lettore ma anche – come è capitato nel mio caso - acciuffarlo e trascinarlo velocemente dalla prima all’ultima pagina. Si tratta de I quattro maestri (Garzanti, Milano 2020) – Socrate, Buddha, Confucio e Gesù – che, secondo l’autore – potrebbero aiutare a trovare “l’umano nell’uomo”. “In che modo?” gli ha chiesto in un’intervista su “Adista – Segni nuovi” del 6 febbraio 2021 il mio amico Luca Kocci. E Mancuso – che in questo libro, per la prima volta, dichiara di non ritenersi più un cristiano – risponde: “Ciascuno dovrebbe chiedere a se stesso qual è la fonte da cui attingere per avere quella forza morale per non diventare cattivo, nel senso latino di ‘imprigionato’, per non perdere fiducia nell’umano, per credere nella giustizia, nella dimensione politica dello stare insieme e del lottare per un mondo più giusto. E la ricerca della risposta si chiama spiritualità”.  

 

 

 

Augusto Cavadi

www.augustocavadi.com

1 commento:

gabriella ha detto...

Caro Augusto condivido il tuo pensiero sia sulla sparuta presenza di persone che veramente vogliono passare dalla teoria alla prassi del cambiamento culturale, sociale, politico e come sai a Palermo, anche insieme a te, abbiamo tentato di smuovere le coscienze e talvolta ci siamo riusciti attraverso le opere dell'associazione CeSMI.
Sto leggendo il tomo di Mancuso e lo trovo molto interessante. Da qualche tempo anche io non mi sento più cristiana nel senso in cui la chiesa vorrebbe, ma mi nutro di spiritualità laddove la percepisco fresca e nobile nella sua manifestazione visibile ed invisibile.