martedì 28 ottobre 2025

LA BIBBIA SECONDO CAZZULLO

Dopo le prime pagine del volumone di Aldo Cazzullo, Il Dio dei nostri padri. Il grande romanzo della Bibbia, HarperCollins, Milano 2024, ho avvertito un forte fastidio, al punto quasi da decidere di interromperne la lettura. Ma avrei sbagliato. Infatti, quando sono arrivato alla fine delle pagine, ho maturato un sentimento di tenerezza verso l’operazione editoriale.

Innanzitutto, il fastidio. Dopo aver dedicato più di mezzo secolo agli studi biblici, trovarmi di fronte a una lettura così naif, così ingenua, delle Scritture mi ha un po’ irritato. Lo stesso autore confida, sin dal “Prologo”, di aver ripreso in mano la Bibbia (di cui aveva “una memoria lontana, legata alle letture d’infanzia”) solo un anno prima della pubblicazione del libro: veramente una conferma, alla Karl Kraus, sulla presunzione dei giornalisti di spiegare alla gente ciò che essi per primi non hanno ben capito. Così Cazzullo riporta, senza battere ciglio, che Dio ha detto questo, ha fatto quell’altro; narra di  Abramo come fosse davvero un personaggio storico; di Davide come se davvero avesse abbattuto Golia con una fionda; di Giona come se davvero fosse finito per tre giorni dentro il ventre di una balena…Non c’è mai un dubbio: non da ateo o agnostico, ma neppure da professore gesuita dell’Istituto Biblico di Roma. Mai una precisazione sul “genere letterario” di un racconto: se si tratta di una narrazione che vuole essere storica o di una leggenda o di un’epopea o di una composizione poetica.

Però, man mano che leggevo, mi si è accesa una lampadina interiore. Può darsi che non avessi considerato con la dovuta attenzione il sottotitolo dell’opera: Il grande romanzo della Bibbia. Quando, nel “Prologo”, Cazzullo scrive che “la Bibbia è l’autobiografia di Dio”, subito aggiunge: “Per questo molti hanno pensato (e qualcuno ancora pensa) che sia stata scritta, o almeno ispirata, da lui”, ma non dichiara di essere fra questi “credenti”, pur senza escluderlo esplicitamente. A lui interessa la “trama” così come la ricevevano, senza troppi interrogativi, i “nostri padri” che – ignari di una “questione biblica” da affrontare con tutti gli strumenti delle scienze filologiche, esegetiche, storiche, archeologiche, ermeneutiche - non si scandalizzavano per i troppi passi che “suonano datati, fuori tempo, talora terribili: schiavitù, poligamia, massacri”. E’ un po’ come se presentasse una divulgazione dell’Iliade di Omero o dell’Eneide di Virgilio: per sapere non come davvero si sono svolte vicende del passato, ma “come funziona l’animo umano, di quanti vizi e quanto valore siamo capaci, quale sarà il nostro destino”. Insomma: per “un godimento dell’anima e della mente”.

Conclusione a cui sono pervenuto. Questo testo, di notevole successo, di Aldo Cazzullo può fare molto male o molto bene, a seconda dell’attrezzatura intellettuale del lettore. Può fare molto male a quanti, incuriositi dalla sintesi ben scritta, vorranno risalire alla Bibbia originale con la medesima ingenuità dei “padri”: infatti o l’accoglieranno come “parola di Dio” abbracciando il fondamentalismo già troppo diffuso in ambienti ebraici e cristiani; oppure la getteranno tra i rifiuti come uno dei testi più diseducativi della storia dell’umanità. Può fare bene, invece, a quanti non aspettavano il libro di Cazzullo per leggere la Bibbia, frequentandola da tempo con gli strumenti critici necessari, ma che grazie a questo saggio possono capire meglio le modalità della ricezione della Bibbia nella cultura occidentale e italiana in particolare.  Infatti, almeno sino alle generazioni in cui la Bibbia è stata ancora conosciuta (spesso solo a spezzoni nelle liturgie domenicali), essa è stata accolta alla lettera: è stata accolta proprio come Cazzullo la racconta, senza però l’avvertenza che si tratti di un “romanzo”. Dunque con l’effetto devastante di attribuire a Dio stesso una marea di comandi, divieti, riti, usi, costumi – talora istruttivi, talaltra disastrosi – frutto di popolazioni ancor meno evolute della nostra. Quanto sia pericoloso leggere la Bibbia senza sapere che si tratta di una “biblioteca”, composta da libri scritti nel corso di cinque/sei secoli in cui per ogni tesi si trova il suo contrario, lo aveva capito la Chiesa cattolica che, infatti, per secoli ne ha incluso le traduzioni in lingue moderne nell’elenco dei libri…proibiti! Ovviamente la mediazione, fra il singolo e la Bibbia, non può essere costituito da un Magistero che non dialoga con i ricercatori specialisti di ogni matrice culturale e che ha finito addirittura per autoproclamarsi “infallibile”; tuttavia un filtro che contestualizzi, spieghi, commenti è indispensabile. Almeno se non si vuole correre il rischio, come nel caso di mia nonna materna, di portarsi sino alla tomba un dubbio insistente che ebbe a confidarmi: “la Divina Commedia di Dante è davvero bella, ma non riesco a credere che davvero egli sia andato all’altro mondo e ne sia ritornato”.

Augusto Cavadi

* Per la versione originaria illustrata cliccare qui:

https://www.zerozeronews.it/la-bibbia-secondo-cazzullo/

 

  

domenica 26 ottobre 2025

TRE, ANZI QUATTRO RAGIONI PER CUI "ADISTA" NON DEVE MORIRE

La carta stampata, come tutto ciò che ha avuto una data di nascita (Gutenberg nel 1455), deve avere (per parafrasare Giovanni Falcone) una data di morte. Forse tocca alla nostra generazione constatarne il decesso. Infatti la crisi della stampa è ormai un fenomeno internazionale: mensili, settimanali, quotidiani – anche di rilevanza storica -  chiudono o tagliano drasticamente tirature e personale. Anche molte riviste scientifiche e culturali sono passate dalla versione cartacea alle edizioni on line e persino nella nuova veste più economica rischiano l’estinzione. Questa tendenza, in sé spiacevole, non va drammatizzata: scrivere e leggere sono attività appartenute a gloriose civiltà per almeno due millenni prima della stampa su carta e non c’è motivo di supporre che non continueranno nei prossimi. E comunque, anche se mettiamo a fuoco il passaggio antropologico epocale che stiamo vivendo, riterrei che non sia interpretabile solo in chiave negativa. Infatti, se da alcuni versanti registriamo perdite, da altri invece guadagni: il mondo dell’informazione transita dalla penuria all’abbondanza. La sua è una crisi di sovraproduzione. Da che si stentava ad avere informazioni anche su ciò che accadeva nel quartiere accanto o nel villaggio vicino, rischiamo di essere travolti da un flusso eccessivo di informazioni provenienti dai quattro angoli del pianeta. E non è solo questione di quantità, ma anche e soprattutto di velocità: perché recarsi all’edicola più vicina, per leggere sul giornale alle 8 di mattina le notizie del giorno precedente, se intanto le ho potuto apprendere in tempo reale mediante radio, televisione, computer, cellulare?

Premesso che, senza cedere alla devozione cieca nei confronti della tecnologia, non sarebbe né saggio né possibile limitarsi a rimpiangere un passato irrecuperabile, con postura adulta conviene interrogarsi su alcune criticità della transizione in atto, a mio parere sintetizzabili in tre passaggi principali.

 

Il difficile discernimento tra vero e falso

Prima questione: la marea di notizie da cui siamo invasi per così dire da ogni poro è indiscriminatamente attendibile, ‘vera’? Sappiamo quante istituzioni, organizzazioni, imprese hanno interesse a immettere nei circuiti dell’informazione dei dati solo parzialmente veri o addirittura interamente falsi. Esistono dei siti web e delle app che aiutano a smascherare le fake news: ma è probabile che il lettore medio (che già stenta a trovare il tempo fisico e psicologico per leggere un testo stampato o visionabile su uno schermo) abbia anche la pazienza di verificare, puntualmente, la fondatezza di ogni notizia? Ecco perché abbiamo bisogno di organi d’informazione di cui fidarci, da cui apprendere senza diffidenza, con cui costruire un rapporto amichevole e per questo rilassato: organi né perfetti né infallibili, ma di cui essere certi che non difendono per missione interessi economico-finanziari né promuovono per ‘partito’ preso questa o quell’altra fazione politica. Se “Adista” è stata ed è un organo del genere, non deve morire.

 

La selezione a monte delle informazioni

Una seconda questione: ammesso (e non concesso) che ci si possa alimentare solo di cibi sani – fuor di metafora: di dati corretti, di resoconti veritieri – sono essi tutti i dati che ci servirebbero o non costituiscono, piuttosto, il risultato monco di una selezione a monte? Come è noto, il monopolio mondiale dell’informazione è in mano a poche centrali a cui attingono, a cascata, i vari “canali” nazionali, regionali, locali. Abbiamo bisogno, dunque, di fonti giornalistiche capaci di scoprire storie, eventi, personaggi, tematiche che i padroni del mainstream scartano (perché li ritengono poco interessanti o poco funzionali o addirittura pericolosi), condannano all’oblio. Se “Adista” è stata ed è un organo del genere, non deve morire.

 

La riflessione critica sui dati ricevuti

Una terza questione: ammesso (e non concesso) che attraverso l’integrazione di varie fonti d’informazione e di contro-informazione si arrivasse a raccogliere un numero abbastanza ampio di dati, notizie, racconti attendibili, che potremmo farcene di una messe tanto abbondante? Non siamo dei meri registratori, degli archivi. La raccolta delle informazioni è solo una condizione preliminare, funzionale all’operazione mentale decisiva: il giudizio. Conoscere è il primo indispensabile passo: il secondo è ritornare su ciò che si è appreso, ri-flettere. Cosa pensare? Con che criteri valutare? Che atteggiamenti assumere eticamente? Quali opzioni politiche preferire? Abbiamo bisogno di andare oltre la “trasmissione” dall’emittente  A al ricevente  B, verso una qualche forma di “comunicazione” cha somigli a un dialogo o che addirittura si configuri in qualche rubrica come dialogo: abbiamo bisogno di leggere delle riflessioni che ci invitino a riflettere. Ovviamente alludo a una pedagogia sociale “indiretta” (direbbe Kierkegaard): che non prescriva ciò che si deve pensare, ma che testimoni come si possa pensare in libertà.  Se “Adista” è stata ed è una palestra del genere, non deve morire.

 

Da un giornalismo di guerra a uno di pace

In questi anni ci è stato riservato il triste privilegio di cosa significhi, in concreto, una stampa intrisa di ‘post-verità’, agli ordini di istanze gerarchicamente superiori e concentrata più a mobilitare gli umori che a stimolare l’esercizio del pensiero critico: è la stampa in tempo di guerre. Già in occasione della Prima guerra mondiale Karl Kraus notava, con la sua proverbiale icasticità, gli intrecci perversi fra governi e organi d’informazione: “Come viene governato il mondo e com’è che viene condotto in guerra? Dei diplomatici ingannano dei giornalisti e, quando poi leggono il giornale, finiscono col credere alle proprie menzogne”. L’essenziale, su questa tematica, l’ha scritto, in un libro appena pubblicato dalle edizioni Mimesis, un mio fraterno amico del Movimento Nonviolento, Andrea Cozzo: Media di guerra e media di pace sulla guerra in Ucraina. Promemoria e istruzioni per il futuro. Nella prima parte l’autore mostra, con una fitta serie di esempi tratti dalla stampa e anche dalle trasmissioni televisive in Italia, come “ciò che in tempi di pace sarebbe immediatamente percepito come un’ovvia sciocchezza, in tempi di guerra, sotto il fuoco compatto del giornalismo di fazione, diventa la semplice normalità” (pp.49 – 50). Infatti “i media si costituiscono come monolitici «media di guerra»” (p. 10), i giornalisti si considerano e vengono considerati “militari senza divisa” e “l’informazione” – parafrasando Carl von Clausewitz  – diventa “guerra combattuta con altri mezzi”. Nella seconda parte Cozzo espone, anche sulla base di una letteratura sull’argomento tanto ricca quanto ignorata, “le regole del giornalismo di pace in breve” (pp. 136 – 142), sintetizzabili nel compito di non prestarsi a nessuna demonizzazione del “nemico” e nello sforzo di farne “comprendere” il punto di vista (che non significa “condividerlo”).  Se “Adista” ha rispettato e rispetta tali indicazioni deontologiche, non deve morire.

Augusto Cavadi

QUI l'articolo originale:

https://www.adista.it/articolo/74698 

mercoledì 22 ottobre 2025

TRE GIORNI A PALERMO PER RICORDARE ORTENSIO DA SPINETOLI

(Venerdì 28 novembre – Domenica 30 novembre 2025)

Chi è stato Ortensio da Spinetoli? Un frate cappuccino osteggiato dai Superiori del suo stesso Ordine religioso; un biblista perseguitato dal Sant’Ufficio vaticano per le sue pubblicazioni; ma soprattutto un uomo d’incessante ricerca intellettuale, etico-politica, esistenziale di grande tenacia e di altrettanta mitezza[1].

Nel 2025 ricorrono sia il centenario della nascita (1925) che il decennale della morte (2015).

Il “Centro di ricerca esperienziale di teologia laica” (Palermo) in collaborazione con la sezione siciliana del Movimento “Noi siamo chiesa”, con la “Scuola di formazione etico-politica Giovanni Falcone” e con il supporto organizzativo del Gruppo editoriale “Il pozzo di Giacobbe”, gli dedicano una giornata di riflessione incastonata in una Tre giorni  turistico-culturale in una città che egli ha amato secondo il seguente programma:

venerdì 28 novembre:

ore 14 – 16: accoglienza ospiti (provenienti da fuori città) e sistemazione nelle strutture prenotate[2]

ore 16 – 17: spremuta d’agrumi di benvenuto presso la “Casa dell’equità e della bellezza”[3]

ore 17 – 20: visita guidata del Centro storico (itinerario islamo-normanno)

ore 20 : cena sociale con piatti tipici siciliani (menù vegano o vegetariano o onnivoro)[4]

sabato 29 novembre:

Mattinata libera per passeggiate a piacere (Mondello o Monreale o Catacombe Cappuccini o…) e possibilità di pranzo veloce con cibo di strada o gelati locali[5]

Ore 16 – 18: conversazione pubblica con Augusto Cavadi su “Frate Ortensio, profeta ‘laico’ ogni giorno più attuale” (presso la “Casa dell’equità e della bellezza”)

Ore 18 – 18,30: spremuta d’agrumi rilassante

Ore 18,30 – 19,30: testimonianze di persone amiche e interventi programmati

Ore 20: cena sociale con piatti tipici siciliani (menù vegano o vegetariano o onnivoro)[6]

Domenica 30 novembre

Ore 11: accoglienza reciproca presso la “Casa dell’equità e della bellezza”

Ore 11,30: Incontro di spiritualità ‘laica’ (“Domenica di chi non ha chiesa”).

Riflessione condivisa sul tema:

“Ortensio, ponte verso una spiritualità laica inedita”

Ore 13,00: pranzo condiviso con ciò che ognuno/a avrà voluto mettere a tavola

Ore 15,00: Saluti e…arrivederci

 

 

 

 

 



[1] Della nutritissima bibliografia di Ortensio da Spinetoli segnaliamo soltanto alcune edizioni recenti: L’inutile fardello (Chiarelettere), Introduzione ai vangeli dell’infanzia (Il pozzo di Giacobbe), La prepotenza delle religioni (Chiarelettere), Rifondare la Chiesa. Una follia inevitabile (Il pozzo di Giacobbe), La conversione della Chiesa. Come uscire dalla crisi (Il pozzo di Giacobbe), Tra voi non sarà così… (Servitium).

[2] Ognuno è invitato a scegliersi una sistemazione (preferibilmente nei pressi del Teatro Politeama). Contattare Lilla Graci (327.7137141) per verificare la disponibilità di alcune sistemazioni più economiche (specie se si è in 4/5/6 persone).

[3] “Casa dell’equità e della bellezza” è sita in via N. Garzilli 43/a (zona vicina al Teatro Politeama, ma esterna alla ZTL).

[4] Ovviamente la cena è riservata a chi l’avrà prenotata nella scheda d’iscrizione (il costo dipenderà da ciò che ognuno avrà scelto di consumare, secondo il prezzario del locale).

[5] Per farsi un’idea dei luoghi più intriganti da visitare si può consultare il libretto di A. Cavadi, Palermo. Guida insolita alla scoperta di una città indecifrabile, Di Girolamo, Trapani 2020. (Presso il medesimo editore è disponibile anche l’edizione in lingua francese).

[6] Vedi nota 4 (precedente).

lunedì 20 ottobre 2025

CHIESA CATTOLICA E 'NDRANGHETA: 2 SIMBOLISMI A CONFRONTO

 

Con l’approvazione convinta dell’arcivescovo di Napoli, cardinal Battaglia, giovedì 16 ottobre ha avuto luogo a Cosenza una giornata di studio dedicata a Chiesa e ‘Ndrangheta, simbologie a confronto.

La prima parte della giornata si è svolta presso il campus universitario dell’Università della Calabria. Sotto la vigile e calorosa regia di Giancarlo Costabile, docente del Dipartimento culture, educazione e società, si sono avvicendati al microfono gli esponenti delle istituzioni che hanno aderito all’organizzazione dell’iniziativa: Gianluigi Greco, neo-rettore dell’Università; Antonio Foderaro, decano della Sezione San Tommaso della Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale di Napoli; Ennio Stamile, rettore dell’Università della ricerca e dell’impegno contro la ‘ndrangheta “Rossella Casini” di Limbaldi; don Marcello Cozzi, coordinatore Istituto di Ricerca sui fenomeni mafiosi “Don Peppino Diana” di Napoli. Secondo programma si sarebbe dovuto trattare di saluti ‘istituzionali’, ma di fatto sono state vere e proprie relazioni, al punto che – dopo circa due ore – è stata concessa ai cento e più studenti presenti una pausa caffè offerta generosamente dal docente ospite.

         Anche grazie a questa pausa ristoratrice (senza la quale si sarebbe rischiato l’accanimento….pedagogico) i partecipanti hanno seguito con attenzione le due lezioni ‘ufficiali’ previste. Nel corso della prima - Il simbolo. Significato, interpretazione ed ermeneutica – l’antropologo Fulvio Librandi non si è limitato ad una pur necessaria explicatio terminorum, ma si è soffermato su una serie di esemplificazioni di scottante attualità. Ha sottolineato, fra molto altro, il fatto che il simbolismo serve alla ‘ndrangheta solo nei momenti di crisi, non quando – come adesso – prospera globalmente. E le facciamo un grande servizio quando, persino ad opera di illustri magistrati, da evento (per citare Giovanni Falcone) con una data di nascita e una data di morte la enfatizziamo come destino irreversibile della Calabria. O quando (anche ad opera di autori della cui buona fede non possiamo dubitare, come Saviano) la raccontiamo con narrazioni più spettacolari che capaci di stimolare pensiero critico e di stimolare strategie di superamento. La seconda lezione - La pratica religiosa e il simbolismo mafioso. Appunti per una pastorale antimafia è stata tenuta da Giuseppe Savagnone, noto e apprezzato saggista, per molti anni responsabile del Centro Diocesano per la pastorale della cultura di Palermo. Egli ha insistito su alcune caratteristiche della cultura contemporanea che, a suo avviso, sarebbero recepite della cultura mafiosa: l’eclissi di un’attesa del Futuro, la rinunzia alla logica del Bene comune, l’evaporazione del Sacro in una dimensione generica ed anonima. Il relatore non ha taciuto la distrazione e la pigrizia della pastorale ecclesiale su questi tre aspetti, anche per i gravi difetti di analisi del contesto contemporaneo nella formazione sia dei presbiteri che più in generale del laicato cattolico.

La sessione pomeridiana ha avuto luogo nei locali dell’Istituto Superiore di Scienze Religiose “San Francesco di Sales” ed è consistita in un dialogo - introdotto e moderato dal direttore Emilio Salatino - tra Augusto Cavadi, filosofo palermitano da decenni impegnato nel movimento antimafia e Francesco Savino, vescovo di Cassano all’Jonio - sul tema Il Dio dei mafiosi e il Dio del vangelo. Principi per una teologia antimafia. Entrambi, nonostante la differenza tra i punti di osservazione, hanno concordato sul fatto che venti secoli di teologia hanno appesantito e addomesticato la testimonianza di fede “di” Gesù, rendendo le comunità cristiane dei luoghi dove spesso circolano troppi soldi e dove si stringono legami equivoci con i poteri politici di turno. Tali comunità – strutturate in maniera rigidamente gerarchica, con esponenti apicali esclusivamente maschili e che presentano un Dio padrone/padrino placato solo dal sangue del Figlio - sono molto appetibili  per i mafiosi che ne arraffano codici culturali e simbolici per darsi un’identità e una rispettabilità. Le chiese cristiane, dunque, più che a scomunicare i mafiosi, farebbero meglio a chiedersi come mai questi aspirano a farne parte: se esse fossero caratterizzate (secondo il modello degli Atti degli apostoli) da elevati livelli di fraternità, solidarietà e nonviolenza, non sarebbero – al contrario – le cosche mafiose a deriderle come ingenue e a snobbarle come irrilevanti?

Ha concluso sobriamente ma incisivamente i lavori della giornata Giovanni Checchinato, arcivescovo di Cosenza, citando tre personaggi molti diversi della storia cristiana accomunati dalla “paradossale radicalità” di ritornare al nucleo originario, tanto semplice quanto rivoluzionario, del messaggio evangelico della liberazione: Francesco d’Assisi, Ignazio di Loyola e Jon Sobrino.

(Redazione-Adista)

 Qui il link all'originale:

https://www.adista.it/articolo/74657

sabato 18 ottobre 2025

VENTI DI GUERRA E GIORNALISMO DI PACE. UN LIBRO TRAGICAMENTE TEMPESTIVO DI ANDREA COZZO

Quando si avvicina una guerra i legami fra potere politico e organi di informazione si fanno più stretti. Karl Kraus ha sintetizzato il fenomeno con la sua proverbiale icasticità: “Come viene governato il mondo e com’è che viene condotto in guerra? Dei diplomatici ingannano dei giornalisti e, quando poi leggono il giornale, finiscono col credere alle proprie menzogne”. 

Una volta che la guerra sia dichiarata, il connubio non si scioglie, anzi si rafforza in un condizionamento reciproco che si travasa in condizionamento dell’opinione pubblica: chi osi criticare le scelte del governo – a partire dalla scelta di entrare in conflitto armato – è accusato di tradimento e, dunque, la maggior parte degli addetti ai lavori o alza il tono della voce per guadagnare medaglie come difensore dell’onor di Patria o (se nutre dei dubbi sull’entusiasmo bellicistico) previene la condanna con l’autocensura. Risultato: “I media si costituiscono come monolitici «media di guerra»”, i giornalisti si considerano e vengono considerati “militari senza divisa” e  “l’informazione” – parafrasando Carl von Clausewitz  – diventa “guerra combattuta con altri mezzi”. Questa la tesi dell’ultimo libro di Andrea Cozzo, Media di guerra e media di pace sulla guerra in Ucraina. Promemoria e istruzioni per il futuro (Mimesis, Milano-Udine 2025, pp. 190, euro 17,00), dedicato innanzitutto ai professionisti della comunicazione e, più ampiamente, a tutti noi lettori, ascoltatori e spettatori.

Il volume è distinto in tre parti. La prima fotografa la situazione in corso: “il racconto mediatico della guerra in Ucraina, fin dal 24 febbraio 2022, è stato l’apogeo della violenza culturale perpetrata quotidianamente e senza mezze misure, sulla base del triplice principio (enunciato da Johan Galtung) D- M – A:  Dicotomizzazione («Noi» vs. «Loro»), Manicheismo (il Bene – il Male), Armageddon (la Vittoria militare è l’unica soluzione)”. Vengono diffuse notizie false, a cui – se inevitabili – seguono mezze smentite: “ciò che in tempi di pace sarebbe immediatamente percepito come un’ovvia sciocchezza, in tempi di guerra, sotto il fuoco compatto del giornalismo di fazione, diventa la semplice normalità”.

Ma Cozzo – dopo decenni dedicati allo studio della gestione nonviolenta dei conflitti e a disparate forme di sperimentazione pratica del “superamento” dei medesimi – non si limita alla diagnosi dei mali: la seconda parte del volume (inspirata al principio “Un altro giornalismo è possibile!”) è infatti dedicata alle indicazioni terapeutiche per transitare (qualora se ne veda la necessità e se ne abbia la volontà) “dal giornalismo di guerra al giornalismo di pace”).

Questo libro, nato chiaramente dal crogiuolo della drammatica cronaca dei nostri giorni, non è un instant-book con la data di scadenza ravvicinata. Esso infatti, con passo induttivo, risale dal ‘basso’  della scottante attualità all’ ‘alto’ di tematiche di fondo e di lungo periodo, come dimostrano i due allegati che costituiscono la terza e ultima parte del volume: Prontuario di azione nonviolenta di fronte alla guerra e Democrazia, democratura e nonviolenza.

Inopportuno, e in ogni caso impossibile, sintetizzare in poche righe la ricchezza delle informazioni e soprattutto delle argomentazioni offerte dall’Autore in questo libro che solo uno studioso di grande preparazione e di ancor più grande onestà intellettuale poteva approntare come contributo al dibattito pubblico. E’ vero che, nell’epoca del mordi-e-fuggi, non saranno molte le persone che si vorranno regalare qualche ora di riflessione critica sulle tragedie planetarie in atto, preferendo il ruolo di tele-tifosi davanti a uno schermo televisivo o di inter-nauti appollaiati su una tastiera da cui ‘sparare’ sentenze e slogan. Ma è altrettanto vero che quelle poche persone saranno grate a Cozzo perché, ancora una volta, nel frastuono delle urla da un fronte all’altro (e viceversa!), ha saputo interporre parole meditate, meritevoli di una pausa silenziosa d’ascolto.

Augusto Cavadi

Per la versione originaria illustrata cliccare qui: https://www.zerozeronews.it/guerra-e-giornalismo/

giovedì 16 ottobre 2025

A COSENZA, OGGI, PER RIFLETTERE SU CHIESA E 'NDRANGHETA

 

Chiesa e ‘Ndrangheta, simbologie a confronto 

Cosenza, 16 ottobre 2025 

Giornata di studio 

Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale, Sezione San Tommaso - IRFI Don Peppe Diana

Arcidiocesi di Cosenza – Bisignano

Università della Calabria – Dipartimento culture, educazione e società, Cosenza

Istituto Superiore di Scienze Religiose San Francesco di Sales, Cosenza

Istituto Teologico della Calabria San Francesco di Paola, Catanzaro

Scuola di Teologia “Mons. Agostino Castrillo” Diocesi di San Marco Argentano – Scalea (CS)

Associazione San Benedetto Abate, Cetraro

Uni.Ri.Mi., Università della ricerca e dell’impegno contro la ‘ndrangheta – Rossella Casini

Programma

Sessione mattutina - Sede: Università della Calabria

Ore 09.15 – Saluti

-       S.E. Mons. Giovanni Checchinato,Arcivescovo di Cosenza – Bisignano

-   Prof. Antonio Foderaro,Decano Sezione San Tommaso Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale, Napoli

-       Prof. Gianluigi Greco, Rettore Università della Calabria, Cosenza

-  Don Ennio Stamile, Rettore Uni.Ri.Mi., Università della ricerca e dell’impegno contro la ‘ndrangheta – Rossella Casini

Ore 10.15 - Presentazione

 don Marcello Cozzi, Coordinatore IRFI – PFTIM Napoli

Ore 10.30 - 11.15

 Il simbolo. Significato, interpretazione ed ermeneutica

Prof. Fulvio Librandi, Docente di antropologia culturale, Unical - Cosenza

Ore 11.15 - 12.00

La pratica religiosa e il simbolismo mafioso. Appunti per una pastorale antimafia

Giuseppe Savagnone, docente, saggista, Responsabile del Centro Diocesano per la pastorale della cultura di Palermo

 Sessione pomeridiana - Sede: Istituto Superiore di Scienze Religiose San Francesco di Sales

Ore 16.00 – 17.30

Il Dio dei mafiosi e il Dio del vangelo. Principi per una teologia antimafia

Dialogano

S.E. Mons. Francesco Savino, Vescovo di Cassano all’Jonio – Vicepresidente della CEI per il Sud

Prof. Augusto Cavadi, teologo e filosofo

Modera

Don Emilio Salatino, Direttore Istituto Superiore di Scienze Religiose San Francesco di Sales

Ore 18.00 – Conclusioni

Mons. Giovanni Checchinato, Arcivescovo Metropolita di Cosenza -. Bisignano.

domenica 12 ottobre 2025

Domenica 12 ottobre 2025: i quattro stadi della violenza e la radice più profonda

 

Domenica 12 ottobre 2025

Riflessione iniziale della “Domenica di chi non ha chiesa”

Presso “Casa dell’equità e della bellezza” di Palermo

L’albero della violenza e la sua prima radice: l’antropocentrismo

In questi ultimi anni la violenza nel mondo, probabilmente, non è aumentata rispetto ai suoi livelli abituali, ma certamente se ne è accresciuta la percezione da parte di noi occidentali. Suppongo di non essere il solo a sentirmi schiacciato come da una lastra di marmo sul petto e ad essere tentato dallo sconforto se non proprio dalla disperazione.

Ognuno di noi tenta di sopravvivere ricorrendo a ciò che gli resta delle proprie risorse spirituali.  A cosa può fare appello chi di noi viva una spiritualità laica, sostanzialmente coincidente con la declinazione pratica della filosofia, intesa dunque come riflessione agente e azione riflessiva?

Ad una duplice mossa: cercare di capire come stanno le cose e, man mano, desiderare di adeguare la propria postura nel mondo a ciò che va conoscendo.

Ciò che mi pare di aver capito è che la violenza somigli ad un grande albero di cui vediamo agitarsi rami, foglie, frutti, ma che resiste ai venti per la solidità del suo tronco e ancor più per la profondità delle sue radici.

Gli scontri bellici, i bombardamenti sulle città, le stragi delle popolazioni inermi sono la corona agitata dell’albero o, se si preferisce un’altra immagine, la punta dell’iceberg. A questo primo livello possiamo reagire limitatamente, soprattutto facendo pressione (anche con manifestazioni pubbliche) sui nostri governi che – al di là delle etichette partitiche – dalla proclamazione della Costituzione italiana a oggi hanno più volte disatteso l’articolo 11 sul ripudio della guerra come mezzo di risoluzione dei conflitti. Qui il pericolo è assuefarsi alla cronaca sempre più spietata e inchiodarsi all’idea (per altro insegnataci dalla prima elementare in poi) che lo scontro armato sia l’unico, inevitabile, modo di gestire i conflitti politici. Che tra uccidere ed essere uccisi non ci siano alternative praticabili.

Come mai, allo scoppio di una guerra, gli obiettori di coscienza sono sparute minoranze non solo là dove non viene riconosciuto il diritto alla renitenza, ma anche nei Paesi come l’Italia in cui una legislazione avanzatissima lo prevede? Qui ci spostiamo a un secondo livello dove incontriamo la tesi di quanti vedono nell’attitudine alla militanza armata un aspetto, e in qualche misura un riflesso e un effetto, della cultura patriarcale. Con questa espressione (imperfetta come molte definizioni) non si intende ribadire la vecchia e infondata teoria secondo cui i maschi sarebbero geneticamente portati alla lotta fisica, bensì che in quasi tutte le società attuali la mentalità maschilista (condivisa, e trasmessa alle nuove generazioni, da molti uomini e da molte donne) informa e plasma istituzioni, rapporti economici, costume quotidiano, relazioni di coppia e in famiglia. Con una metafora si potrebbe dire che la violenza sistemica, strutturale, abituale ai danni delle donne (per cui si è potuto affermare che esiste una sola persona più misera del più misero degli sfruttati: sua moglie) costituisca una sorta di palestra in cui (senza volerlo e senza saperlo) ci alleniamo ad anestetizzare la nostra sensibilità per la dignità altrui.

La violenza maschile contro l’altra metà del cielo è dunque la madre di tutte le violenze? Per alcuni anni l’ho ritenuto, ma – soprattutto grazie a mia moglie Adriana – ho intuito che occorra scavare più a fondo, in direzione delle radici, attingendo un terzo livello: l’atteggiamento di violenza spontanea, data per scontata, nei confronti dei cuccioli d’uomo. La “pedagogia nera” – intessuta di divieti, minacce, punizioni fisiche, ricatti affettivi – non può che creare due tipi di soggetti: o passivi, remissivi, perfetti esecutori della “banalità del male” oppure ribelli, prepotenti, sadici, talora in grado di ipnotizzare le folle e dominarle dittatorialmente.

Mentre il rapporto dei genitori verso i figli è segnato da ambiguità – per cui  alterniamo violenza e cura, sfruttamento e difesa -, c’è un quarto livello, ancora più vicino alle radici, in cui la nostra postura di padroni onnipotenti si dispiega senza remore né culturali né psicologiche: il livello del nostro rapporto con gli altri animali. Ormai perfino la caccia, in cui permaneva un briciolo di relazione da vivente a vivente, si va estinguendo per lasciare il posto all’anonimato invisibile di immensi prigioni in cui miliardi di esseri senzienti vengono concepiti, partoriti, allevati in condizioni di tortura, macellati senza troppe cautele. Non è un caso che i lager nazisti siano stati progettati e costruiti avendo a modello i mattatoi degli Stati Uniti d’America. Si è tragicamente accettato l’invito orribile di papa Pio XII che, accogliendo in visita i macellai di carni animali in Vaticano, li esortò a considerare le urla di bovini e ovini “non dissimili dai clangori di macchine metalliche”. 

La violenza bellica dunque zampilla da una tradizione patriarcale-maschilista che, a sua volta, presuppone una propensione all’abuso (non necessariamente né esclusivamente sessuale) dei minori che attinge la linfa dal terreno invisibile dello sfruttamento impietoso degli altri viventi senzienti. Tutte queste versioni della violenza hanno – ciascuna – un molteplice varietà di cause e di concause, ma (secondo il titolo di un ormai vecchio libro di Mario Capanna) “il fiume della prepotenza” ha una sorgente comune: la follia dell’antropocentrismo. Bibbia, Corano, Modernità tecno-capitalistica, Marxismo, Nazi-fascismo…tutte le principali ideologie in cui noi occidentali ci siamo pensati e rispecchiati hanno in comune la convinzione che l’essere umano (come individuo o come società o come Stato o come specie umana) sia il “centro”, il “padrone” e il “fine” dell’universo. Detronizzato, con molte ragioni, un Dio rappresentato come il Sovrano dei sovrani terreni, ci siamo gradualmente sostituiti a Lui: l’antropocentrismo è diventato (secondo una formula di Jacques Maritain)  antropoteismo. Si tratta di una convinzione così radicata da resistere alle ormai inoppugnabili evidenze scientifiche: per miliardi di anni il cosmo ha fatto a meno dell’homo sapiens demens (come si esprime Edgar Morin) ed è assolutamente certo che lo stesso cosmo sopravviverà a lungo anche dopo la scomparsa dell’umanità dalla faccia del piccolo pianetino confuso fra miliardi di corpi celesti.

Qualora questo errore originario venisse individuato e corretto, potremmo scoprire che – in quanto “figli” e “ospiti” dell’universo – ci tocca (se vogliamo vivere una saggia e serena convivialità)  disarmare la nostra postura dominatrice nei confronti degli animali, dei minori, delle donne e più in generale degli altri esseri umani.

Che cosa questo cambiamento di mente, di cuore e di gesti possa comportare qui ed ora per ciascuno/a di noi potremmo aiutarci a suggerircelo oggi vicendevolmente.

 

Augusto Cavadi

 

 

 

 

venerdì 10 ottobre 2025

COSA DICE LEONE XIV NEL SUO PRIMO DOCUMENTO UFFICIALE ("DILEXI TE") ?

Proprio perché la postura di papa Leone XIV non mi ha entusiasmato sin dalla sua prima apparizione a san Pietro appena eletto, sono stato molto favorevolmente colpito dal suo primo documento ufficiale, l’Esortazione apostolica Dilexi te del 4 ottobre 2025 (festa, come sottolineato dal papa stesso, del “Poverello” d’Assisi, la cui “figura luminosa”  “non cesserà mai di ispirarci”). Qui mi limito a una sintesi quanto più fedele possibile, riservando ad altra occasione i commenti e i commenti ai commenti di quanti accuseranno queste pagine luminose “sulla cura della Chiesa per i poveri e con i poveri” di essere troppo o troppo poco comuniste (oppure proveranno, al contrario, a strumentalizzarle a supporto di meschini interessi di parte). A smentita di chi vorrebbe vedere in questo papa l’anti-Bergoglio, egli esordisce chiarendo che il testo (che, per tradizione, in quanto prima ‘uscita’ ufficiale costituisce quasi una dichiarazione programmatica) intende portare a esecuzione un progetto coltivato da papa Francesco negli ultimi mesi di vita.  

Sin dalle prime righe viene offerta la chiave di lettura del documento: ricordare a quanti si dicono cristiani “il forte nesso che esiste tra l’amore di Cristo e la sua chiamata a farci vicini ai poveri”. Una religione che ritenesse superflua, o anche solo opzionale, la solidarietà con chi si trovi “nel dolore, nella solitudine, nel bisogno” sarebbe falsa, o per lo meno non sarebbe qualificabile come “cristiana”. A essere in gioco non sono meri sentimenti di filantropia, ma il senso più profondo della fede: “il contatto con chi non ha potere e grandezza è un modo fondamentale di incontro con il Signore della storia. Nei poveri Egli ha ancora qualcosa da dirci”. Ma questa fondazione teologica non esclude le valenze politiche nell’accezione alta del termine: “la scelta prioritaria per i poveri genera un rinnovamento straordinario” non solo nelle Chiese, ma “nella società, quando siamo capaci di liberarci dall’autoreferenzialità e riusciamo ad ascoltare il loro grido”.

Il papa lo afferma e lo ribadisce con insistenza: “l’impegno a favore dei poveri” non può limitarsi a gesti di “beneficenza”, ma deve mirare a “rimuovere le cause sociali e strutturali della povertà”. Non si tratta dei sogni di isolati profeti o di singoli pensatori: trasformare radicalmente “le società in cui viviamo” – che “spesso privilegiano criteri di orientamento dell’esistenza e della politica segnati da numerose disuguaglianze” – sarebbe “uno degli obiettivi del Millennio” proposti a sé stesse dalle “Nazioni Unite”.

Una méta così ambiziosa presuppone “una trasformazione di mentalità che possa incidere a livello culturale. Infatti, l’illusione di una felicità che deriva da una vita agiata spinge molte persone verso una visione dell’esistenza imperniata sull’accumulo della ricchezza e sul successo sociale a tutti i costi, da conseguire anche a scapito degli altri e profittando di ideali sociali e sistemi politico-economici ingiusti, che favoriscono i più forti. Così, in un mondo dove sempre più numerosi sono i poveri, paradossalmente vediamo anche crescere alcune élite di ricchi, che vivono nella bolla di condizioni molto confortevoli e lussuose, quasi in un altro mondo rispetto alla gente comune. Ciò significa che ancora persiste – a volte ben mascherata – una cultura che scarta gli altri senza neanche accorgersene e tollera con indifferenza che milioni di persone muoiano di fame o sopravvivano in condizioni indegne dell’essere umano”.

La povertà ha molti volti: “le gravi condizioni in cui versano moltissime persone a causa della mancanza di cibo e di acqua”; “anche nei Paesi ricchi” “sono sempre di più le famiglie che non riescono ad arrivare alla fine del mese”; “doppiamente povere sono le donne che soffrono situazioni di esclusione, maltrattamento e violenza, perché spesso si trovano con minori possibilità di difendere i loro diritti”; “i malati” e i “sofferenti”, le vittime “in zone di guerra”; persone soggette alle “schiavitù moderne: il traffico di esseri umani, il lavoro forzato, lo sfruttamento sessuale, le diverse forme di dipendenza”; “carcerati che si trovano in diversi penitenziari e centri di detenzione”; i bambini e le bambine, i giovani e le giovani, privi/e di istruzione almeno elementare che “hanno diritto alla conoscenza, come requisito fondamentale per il riconoscimento della dignità umana”; le “masse di diseredati” che migrano  dalle loro patrie “in cerca di lavoro, privi della conoscenza della lingua e di mezzi capaci di permettere loro un decoroso inserimento nella società” in cui si insediano e dove sono  “spesso vittime di persone senza scrupoli”; “i rifugiati” che fuggono da regioni in guerra; “gli abitanti delle periferie esistenziali, che devono essere accolti, protetti, promossi e integrati”.

Se questo è lo scenario, il lavoro che si squaderna agli occhi della Chiesa è davvero gravoso, tenendo dritta la barra sintetizzata dal Concilio ecumenico Vaticao II (1962 – 1965): “Dio ha destinato la terra e tutto quello che essa contiene, all’uso di tutti gli uomini e popoli, e pertanto i beni creati debbono, secondo un equo criterio, essere partecipati a tutti […]. Perciò l’uomo, usando di questi beni, deve considerare le cose esteriori che legittimamente possiede non solo come proprie, ma anche come comuni, nel senso che posso­no giovare non solo a lui ma anche agli altri. Del resto, a tutti gli uomini spetta il diritto di avere una parte di beni sufficienti a sé e alla propria famiglia. […] Colui che si trova in estre­ma necessità ha il diritto di procurarsi il necessario dalle ricchezze altrui. […] Ogni proprietà privata ha per sua natura una funzione sociale che si fonda sulla comune destinazione dei beni. Se si trascura questa funzione sociale, la proprietà può diventare in molti modi occasione di cupidigia e di gravi disordini”. Si tratta di valorizzare il “ruolo attivo dei poveri nel rinnovamento della Chiesa e della società, lasciandoci alle spalle il paternalismo della sola assistenza ai loro bisogni immediati”. A tale scopo vanno individuate e scardinate quelle “strutture di peccato che creano povertà e disuguaglianze estreme”: le “strutture di ingiustizia” sono “peccato sociale” (non certo meno grave dei piccoli peccati individuali su cui si è concentrata, quasi esclusivamente, la morale cattolica tradizionale). Il che significa – tra molto altro – cessare di ritenere “scelta ragionevole organizzare l’economia chiedendo sacrifici al popolo, per raggiungere certi scopi che interessano ai potenti” o di “legittimare l’attuale modello distributivo, in cui una minoranza si crede in diritto di consumare in una proporzione che sarebbe impossibile generalizzare, perché il pianeta non potrebbe nemmeno contenere i rifiuti di un simile consumo”.

Perseguire questi obiettivi, tanto ardui quanto urgenti da raggiungere, è “compito di tutti i membri del Popolo di Dio”: pastori e fedeli devono “far sentire, pur in modi diversi, una voce che svegli, che denunci, che si esponga anche a costo di sembrare degli ‘stupidi’. Le strutture d’ingiustizia vanno riconosciute e distrutte con la forza del bene, attraverso il cambiamento delle mentalità ma anche, con l’aiuto delle scienze e della tecnica, attraverso lo sviluppo di politiche efficaci nella trasformazione della società”.

                                                      Augusto Cavadi 

Cliccare qui per la versione originaria: 

https://www.zerozeronews.it/leone-xiv-riparte-da-bergoglio-e-da-san-francesco/

giovedì 2 ottobre 2025

I SICILIANI E LE SICILIANE VITTIME PASSIVE DI DOMINAZIONI STRANIERE?


Il paradigma del sicilianismo piagnone si basa su due luoghi comuni quasi del tutto falsi: a) che il popolo dell’Isola mediterranea sia stato, lungo i secoli, vittima di oppressione straniera e b) che l’abbia subito passivamente. I due volumi di Elio Cammilleri, Siciliani contro (con prefazione di D. Stimolo) e Siciliane contro (con prefazione di G. Proto), editi da Algra (Viagrande 2025), smentiscono entrambi gli stereotipi.

Smentiscono il secondo perché presentano, capitolo dopo capitolo, i profili biografici di cittadini siciliani e cittadine siciliane – non di rado ignoti/e o dimenticati/e - che hanno alzato la testa contro ogni genere di sopraffazione, di ingiustizia, di violenza sistemica: dal XIX secolo (Giovanni Corrao, Bernardino Verro, le “patriote antiborboniche”, le “catanesi con Garibaldi”, le “sgualdrine” dei Fasci) al XX (da Giovanni Orcel e Nicolò Alongi sino a Piersanti Mattarella e Pio La Torre, da Maria Occhipinti a Serafina Battaglia, da Felicia Impastato a Michela Buscemi). Poiché la lista degli oppositori ai regimi oppressivi è molto lunga (nonostante sia, inevitabilmente, incompleta) il lettore può farsi un’idea più adeguata dell’inconsistenza della tesi che i siciliani abbiano, sempre e comunque, accettato ogni genere di dominazione. (Tesi la cui percentuale di verità sta nel fatto che sono stati capaci più di insurrezioni localistiche che di rivoluzioni di ampio respiro e che, là dove di rivoluzione organizzata e sistematica si poteva parlare, come negli anni 1889 – 1894 con i “Fasci siciliani”, la repressione dello Stato è stata così pesante e capillare da dissuadere per decenni dal  rifare l’esperimento e da indurre le generazioni più fresche ad emigrare).

Ma i due testi di Camilleri demistificano anche il primo dei due stereotipi sicilianisti. Infatti chi sono i dominatori, gli oppressori, gli sfruttatori dei siciliani? Prima di tutto, ed essenzialmente, altri siciliani. E’ vero che l’Isola ha attratto popolazioni straniere, anche lontane, dai Romani agli Arabi, dai Francesi agli Spagnoli (e questa è la particella di verità della fabula): ma nessuna di esse avrebbe potuto governare (tra l’altro non sempre malamente né solo con intenti predatori) senza la complicità dei ceti dirigenti e possidenti indigeni ai danni della maggioranza della gente comune (contadini e pescatori prima, operai e manodopera intellettuale a basso costo dopo). Il caso del dominio mafioso è esemplificativo: i mafiosi cercano e ottengono protezione interessata da politici nazionali, imprenditori settentrionali, criminali di varie regioni. Ma sono essi – siciliani di nascita e di residenza – a vessare i corregionali, a inquinarne la vita economica, a costringere all’esodo i giovani indisponibili a vendersi l’anima o a rischiare la vita.

Un episodio di questi giorni mi sembra confermare, quasi plasticamente, questa lettura degli eventi. A Pontida si è riunito un partito tradizionalmente e animosamente anti-meridionale per rilanciare una visione-del-mondo estranea (e per molti versi opposta) al “pensiero meridiano” (ben esposto dal compianto Franco Cassano): una cultura centrata sulla xenofobia, sul suprematismo razziale, sull’orgogliosa esaltazione del circolo produttivismo-consumismo (anche a costo di sfinire il già precario equilibrio ecologico). Ebbene, non si presentano a Pontida dei cittadini siciliani a offrire, con il cappello in mano, l’alleanza del proprio partito politico (la “Democrazia cristiana” rinata ad opera di un condannato per reati connessi alla mafia) per rafforzare ed estendere nell’Isola la presenza, già consistente, della Lega? Quando tra qualche decennio si potranno misurare adeguatamente i danni che l’attuale Destra governativa sta già perpetrando ai danni del Meridione, si imprecherà contro la “invasione” dei Lombardi e, da parte dei più raffinati, contra la “colonizzazione” della cultura del Sud ad opera della cultura Nord-occidentale del pianeta. E nessuno si ricorderà di quei siciliani che, non contenti dei suffragi elettorali di altri corregionali alla Lega, sono andati a Pontida per sollecitarne l’influenza ‘benefica’ (come gli investimenti multimilionari in opere pubbliche megagalattiche tanto eclatanti quanto inutili).

Augusto Cavadi 

Qui il link alla versione originaria illustrata:

https://www.zerozeronews.it/siciliani-e-siciliane-contro-gli-oppressori-piu-indigeni-che-stranieri/