La carta stampata, come tutto ciò che ha avuto una data di nascita (Gutenberg nel 1455), deve avere (per parafrasare Giovanni Falcone) una data di morte. Forse tocca alla nostra generazione constatarne il decesso. Infatti la crisi della stampa è ormai un fenomeno internazionale: mensili, settimanali, quotidiani – anche di rilevanza storica - chiudono o tagliano drasticamente tirature e personale. Anche molte riviste scientifiche e culturali sono passate dalla versione cartacea alle edizioni on line e persino nella nuova veste più economica rischiano l’estinzione. Questa tendenza, in sé spiacevole, non va drammatizzata: scrivere e leggere sono attività appartenute a gloriose civiltà per almeno due millenni prima della stampa su carta e non c’è motivo di supporre che non continueranno nei prossimi. E comunque, anche se mettiamo a fuoco il passaggio antropologico epocale che stiamo vivendo, riterrei che non sia interpretabile solo in chiave negativa. Infatti, se da alcuni versanti registriamo perdite, da altri invece guadagni: il mondo dell’informazione transita dalla penuria all’abbondanza. La sua è una crisi di sovraproduzione. Da che si stentava ad avere informazioni anche su ciò che accadeva nel quartiere accanto o nel villaggio vicino, rischiamo di essere travolti da un flusso eccessivo di informazioni provenienti dai quattro angoli del pianeta. E non è solo questione di quantità, ma anche e soprattutto di velocità: perché recarsi all’edicola più vicina, per leggere sul giornale alle 8 di mattina le notizie del giorno precedente, se intanto le ho potuto apprendere in tempo reale mediante radio, televisione, computer, cellulare?
Premesso
che, senza cedere alla devozione cieca nei confronti della tecnologia, non
sarebbe né saggio né possibile limitarsi a rimpiangere un passato
irrecuperabile, con postura adulta conviene interrogarsi su alcune criticità
della transizione in atto, a mio parere sintetizzabili in tre passaggi
principali.
Il
difficile discernimento tra vero e falso
Prima
questione: la marea di notizie da cui siamo invasi per così dire da ogni poro è
indiscriminatamente attendibile, ‘vera’? Sappiamo quante istituzioni,
organizzazioni, imprese hanno interesse a immettere nei circuiti
dell’informazione dei dati solo parzialmente veri o addirittura interamente
falsi. Esistono dei siti web e delle app che aiutano a smascherare le fake
news: ma è probabile che il lettore medio (che già stenta a trovare il tempo
fisico e psicologico per leggere un testo stampato o visionabile su uno
schermo) abbia anche la pazienza di verificare, puntualmente, la fondatezza di
ogni notizia? Ecco perché abbiamo bisogno di organi d’informazione di cui
fidarci, da cui apprendere senza diffidenza, con cui costruire un rapporto
amichevole e per questo rilassato: organi né perfetti né infallibili, ma di cui
essere certi che non difendono per missione interessi economico-finanziari né
promuovono per ‘partito’ preso questa o quell’altra fazione politica. Se
“Adista” è stata ed è un organo del genere, non deve morire.
La
selezione a monte delle informazioni
Una
seconda questione: ammesso (e non concesso) che ci si possa alimentare solo di
cibi sani – fuor di metafora: di dati corretti, di resoconti veritieri – sono
essi tutti i dati che ci servirebbero o non costituiscono, piuttosto, il
risultato monco di una selezione a monte? Come è noto, il monopolio
mondiale dell’informazione è in mano a poche centrali a cui attingono, a
cascata, i vari “canali” nazionali, regionali, locali. Abbiamo bisogno, dunque,
di fonti giornalistiche capaci di scoprire storie, eventi, personaggi,
tematiche che i padroni del mainstream scartano (perché li ritengono
poco interessanti o poco funzionali o addirittura pericolosi), condannano
all’oblio. Se “Adista” è stata ed è un organo del genere, non deve morire.
La
riflessione critica sui dati ricevuti
Una
terza questione: ammesso (e non concesso) che attraverso l’integrazione di
varie fonti d’informazione e di contro-informazione si arrivasse a raccogliere
un numero abbastanza ampio di dati, notizie, racconti attendibili, che potremmo
farcene di una messe tanto abbondante? Non siamo dei meri registratori, degli
archivi. La raccolta delle informazioni è solo una condizione preliminare,
funzionale all’operazione mentale decisiva: il giudizio. Conoscere è il primo
indispensabile passo: il secondo è ritornare su ciò che si è appreso, ri-flettere.
Cosa pensare? Con che criteri valutare? Che atteggiamenti assumere eticamente?
Quali opzioni politiche preferire? Abbiamo bisogno di andare oltre la
“trasmissione” dall’emittente A al
ricevente B, verso una qualche forma di
“comunicazione” cha somigli a un dialogo o che addirittura si configuri in
qualche rubrica come dialogo: abbiamo bisogno di leggere delle riflessioni che
ci invitino a riflettere. Ovviamente alludo a una pedagogia sociale “indiretta”
(direbbe Kierkegaard): che non prescriva ciò che si deve pensare, ma che
testimoni come si possa pensare in libertà.
Se “Adista” è stata ed è una palestra del genere, non deve morire.
Da
un giornalismo di guerra a uno di pace
In questi anni ci è stato riservato il triste privilegio di cosa significhi, in concreto, una stampa intrisa di ‘post-verità’, agli ordini di istanze gerarchicamente superiori e concentrata più a mobilitare gli umori che a stimolare l’esercizio del pensiero critico: è la stampa in tempo di guerre. Già in occasione della Prima guerra mondiale Karl Kraus notava, con la sua proverbiale icasticità, gli intrecci perversi fra governi e organi d’informazione: “Come viene governato il mondo e com’è che viene condotto in guerra? Dei diplomatici ingannano dei giornalisti e, quando poi leggono il giornale, finiscono col credere alle proprie menzogne”. L’essenziale, su questa tematica, l’ha scritto, in un libro appena pubblicato dalle edizioni Mimesis, un mio fraterno amico del Movimento Nonviolento, Andrea Cozzo: Media di guerra e media di pace sulla guerra in Ucraina. Promemoria e istruzioni per il futuro. Nella prima parte l’autore mostra, con una fitta serie di esempi tratti dalla stampa e anche dalle trasmissioni televisive in Italia, come “ciò che in tempi di pace sarebbe immediatamente percepito come un’ovvia sciocchezza, in tempi di guerra, sotto il fuoco compatto del giornalismo di fazione, diventa la semplice normalità” (pp.49 – 50). Infatti “i media si costituiscono come monolitici «media di guerra»” (p. 10), i giornalisti si considerano e vengono considerati “militari senza divisa” e “l’informazione” – parafrasando Carl von Clausewitz – diventa “guerra combattuta con altri mezzi”. Nella seconda parte Cozzo espone, anche sulla base di una letteratura sull’argomento tanto ricca quanto ignorata, “le regole del giornalismo di pace in breve” (pp. 136 – 142), sintetizzabili nel compito di non prestarsi a nessuna demonizzazione del “nemico” e nello sforzo di farne “comprendere” il punto di vista (che non significa “condividerlo”). Se “Adista” ha rispettato e rispetta tali indicazioni deontologiche, non deve morire.
Augusto
Cavadi
QUI l'articolo originale:
2 commenti:
Uno o due mesi fa Adista aveva pubblicato un invito a fare una piccola offerta per essere aiutata a fare fronte alla crisi, speravo che bastasse...
Adista ha portato per anni a conoscenza persone, fatti, riflessioni controcorrente., come le vicende del Centro di accoglienza di Vicofaro. Non deve morire!
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