“Repubblica – Palermo” 22.4.03
Augusto Cavadi
VITA E MORTE DI UNA DONNA NORMALE
In base alle cronache quotidiane, impastate di violenze e corruzioni, il tessuto sociale dovrebbe ormai essere a tal punto lacerato da rendere impossibile la sopravvivenza dei cittadini. Come mai, invece, pur fra ingiustizie e stenti, il mondo va avanti lo stesso – e in qualche campo addirittura progredisce? Forse perché le nuvole sono reali, effettive, numerose: ma non si noterebbero neppure se sullo sfondo mancasse il cielo. Fuor di metafora: disonesti e profittatori non potrebbero neppure esercitare il loro parassitismo se, bene o male, istituzioni e relazioni umane non fossero alimentate dall’onesta dedizione dei più. Pensare che politici e magistrati, medici e professori, preti e notai siano modelli di virtù civile sarebbe imperdonabile ingenuità. Ma pensare, e sostenere, l’esatto contrario non è realismo: si chiama qualunquismo.
Proprio contro la minaccia del qualunquismo (il cui effetto finale è la deresponsabilizzazione: “Se fanno tutti schifo, perché proprio io dovrei nuotare contro corrente?”) i giornalisti dell’edizione europea del settimanale “Time” hanno deciso di dedicare il numero in edicola a 25 “eroi” contemporanei che vivono ed operano nel Vecchio Continente. Significativa la precisazione dei curatori dell’iniziativa: l’eroe non è tale perché compie azioni eccezionali, ma perché dedica l’intera esistenza a ideali costruttivi per il genere umano. Come, ad esempio, il medico Gino Strada, fondatore di Emergency; il pubblico ministero Stefano Dambruoso, attualmente impegnato in indagini rischiose sulle cellule di estremisti islamici presenti nel nostro Paese; lo storico del cristianesimo Andrea Riccardi, tra i fondatori della Comunità S. Egidio di Roma. La lettura della notizia ha agito come un mestolo nell’impasto di ricordi col tempo sedimentati nella mia memoria e, gradualmente, si è andata aggrumando una domanda: “E Palermo, e la Sicilia, che sarebbero oggi senza eroi normali?”. Mi sono tornati in mente i quotidiani che, alla metà degli anni Novanta, sfogliavo la mattina in biblioteca durante un breve periodo di studio a Cambridge: una sorta di rubrica fissa era dedicata al profilo di quei personaggi che giorno dopo giorno andavano decedendo non senza aver lasciato traccia nella storia della comunità locale. Nella nostra cultura non c’è spazio, neppure in extremis, per chi non abbia vissuto una vita spettacolare: non importa se – come amava ripetere Baden Powell - per “lasciare il mondo un po’ migliore di come lo si è trovato” o per sbalordire con la propria sete di potere, di denaro e di successo. E proprio mentre scrivo queste righe mi scorrono, come in un filmato, le immagini di uomini e donne che ho incontrato per le strade della mia città e della mia esistenza, che hanno vissuto lontano dai riflettori ma nel cuore delle situazioni e spesso delle gente: cittadini e cittadine quotidianamente fedeli a ciò che avevano scelto come mestiere, o come missione, e senza cui Palermo sarebbe ancor meno vivibile. Perché questa lunga fila di eroi normali non dev’essere risvegliata – almeno per un giorno - dal sepolcro dell’oblìo e dell’ingratitudine? Perché non dare loro – almeno per un giorno – la possibilità di incoraggiare alla fedeltà, al servizio, all’onestà civica le generazioni superstiti? Soprattutto le più giovani cui una sorta di illusione ottica mediatica può dare l’impressione paralizzante di vivere in un mondo di volgare egoismo. Solo un mese fa – è un’esemplificazione, un caso fra mille – si è spenta divorata dal cancro Candida Di Vita. Quando l’ho conosciuta, agli inizi degli anni Ottanta, mi confidava di essere tornata da Roma perché voleva investire su Palermo le energie della sua maturità. E a Palermo ha lavorato per quasi vent’anni: non solo, da assistente sociale, per le prime sei ore della giornata, ma anche da operatrice volontaria per tutte le altre ore disponibili. Talora persino dopo cena. Quante centinaia di individui, di famiglie, di gruppi ha contattato di sua iniziativa o per rispondere a richieste d’aiuto? Mai ha chiesto – o accettato – bustarelle per l’espletamento dei suoi doveri istituzionali: più d’una volta, sommessamente, le ha passate a chi proprio non ce l’avrebbe fatto sino a sera. Senza di lei, poi, non sarebbe sorto il “Laboratorio Zen insieme”: dunque, ad integrazione del lavoro pastorale della Parrocchia cattolica “San Filippo Neri”, non sarebbe sorto uno spazio laico, pluralistico, di aggregazione per i bambini, per i giovani, per le donne. Con intelligente solidarietà non ha voluto creare qualcosa di ‘suo’, ma – alleandosi con altre belle persone di diverso orientamento ideologico - promuovere un’associazione di adulti che potessero, in autonomia, ragionare con la propria testa e camminare sulle proprie gambe. E quando la malattia si è insinuata nel suo corpo non si è atteggiata a vittima illustre: l’ha combattuta con coraggio, con determinazione, ma senza ribellarsi interiormente. Ne parlava, se interpellata, con la piena consapevolezza di stare attraversando un sentiero comune al resto dell’umanità. Si riteneva quasi privilegiata per il fatto che, a differenza di tanti altri ammalati, avesse qualche risparmio per curarsi, il sostegno di due splendide sorelle e di un’amica affezionata. Sorrideva mestamente quando formulava la speranza di non perdere, con l’aggravarsi del male, pazienza e serenità d’animo. E’ stata accontentata. Sino all’ultimo, insomma, una donna eccezionalmente normale.
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