venerdì 18 maggio 2007

LE SUORE DI CAMILLERI


Centonove 18.5.07

Augusto Cavadi

IL MARTIRIO DELLE SORELLE

Qua e là, soprattutto in riviste religiose a diffusione nazionale, si continua a polemizzare con la tesi  - ventilata più che affermata - di Camilleri nell’ultimo romanzo Le pecore e il pastore: che dieci giovani suore si sarebbero lasciate morire, in pochi anni, nel loro convento di Palma di Montechiaro dopo aver offerto la propria vita a Dio in cambio della guarigione del vescovo di Agrigento, mons. Peruzzo, vittima di un attentato mafioso. Per contestare l’ipotesi letteraria dello scrittore siciliano viene citata una nota ufficiale della Curia agrigentina firmata da don Carmelo Petrone, portavoce dell’attuale vescovo: “E’ falso affermare che alcune suore si sono lasciate morire di fame e di sete. La morte di quelle suore è avvenuta per cause naturali come la malattia, la tisi o altro. Per capire certe parole come ‘offrire la vita ‘ bisogna entrare in una logica cristiana altrimenti si sbaglia totalmente bersaglio. Alcune monache di quel tempo sono ancora in vita e raccontano con semplicità il senso di quella offerta e di quella preghiera. Rimane l’atto di fede che fa offrire la propria sofferenza o il proprio morire per unirlo all’offerta di Cristo sulla croce e farlo diventare motivo di salvezza e di redenzione per l’umanità!”.

Ma questa nota chiude davvero la discussione o - forse senza volerlo - la riapre ad un livello più profondo e più impegnativo? In sintesi si sostiene che la morte delle dieci suore non è stata una forma di suicidio religioso. Esse hanno semplicemente offerto la loro vita, la qualità e la durata della loro esistenza, a Dio: il quale, se lo avesse voluto, avrebbe potuto accettare come sacrificio a lui gradito le loro malattie, e la loro morte, in unione al Crocifisso.

Allora, per fare il punto. Che queste dieci suore siano decedute negli anni immediatamente successivi al loro ‘voto’ è un dato storico che nessuno smentisce. Ciò che si può discutere, perché mancano prove documentarie e testimonianze, è la ragione del loro decesso: è stato - come suggerisce la Curia - un intreccio casuale, e un po’ grottesco, di malattie ed accidenti del tutto indipendenti dalla loro dedizione interiore? E’ stata - come ipotizza Camilleri - una loro consapevole, esplicita volontà di immolazione (tradottasi in astensione dal cibo e dalle cure) accolta dall’Onnipotente? E’ stata - come si potrebbe ulteriormente ipotizzare - una sorta di condizionamento psichico inconscio che, proprio in conseguenza della loro disponibilità ad immolarsi al posto dell’amato pastore, ne ha abbassato le difese fisiche nei confronti delle malattie? 

Se sul piano dei fatti storici dobbiamo sospendere il giudizio, non così avviene sul piano culturale. La Curia di Agrigento, in linea con la teologia cattolica tradizionale, afferma che “in una logica cristiana” le suore avrebbero potuto “offrire la propria sofferenza o il proprio morire per unirlo all’offerta di Cristo”. Questo significa che Gesù Cristo ha voluto soffrire per amore dell’umanità; che Dio, suo padre,  ci ha perdonato in virtù dei patimenti del figlio; che il dolore non è poi un fattore così negativo dell’esperienza umana perché può essere comunque valorizzato come “motivo di salvezza e di redenzione”. Da almeno quarant’anni, però, la teologia cristiana si interroga sulla sensatezza di questa interpretazione che rischia di far apparire Gesù di Nazareth un masochista, Dio Padre un sadico e i credenti cristiani dei rinunciatari autolesionisti. Si è così appurato che questa teoria teologica della “soddisfazione vicaria” (Gesù che soffre al posto dell’umanità peccatrice e così salda il debito infinito verso l’Eterno) non è così tradizionale come si suppone: non ha solide basi nella Scrittura, risale all’XI secolo d. C. (al Cur deus homo di sant’Anselmo d’Aosta), risente della mentalità giuridicista del medieove latino, va radicalmente ripensata e riformulata per dare ai credenti del XXI secolo una ben differente visione del dolore fisico e del diritto/dovere di combatterlo a livello individuale e a livello sociale. 

Che di questo dibattito teologico, nella nota della Curia agrigentina,  non ci sia traccia, è un ‘peccato’ (almeno di omissione…). La comunità dei cristiani non è certo obbligata a restare in silenzio quando la cronaca si occupa di questioni religiose, ma nell’intervenire  darebbe prova di sapienza evangelica se non pestasse sempre nello stesso mortaio: se utilizzasse le provocazioni del mondo culturale ‘laico’ per far correggere e migliorare il suo modo umano di interpretare la fede.

Qua e là, soprattutto in riviste religiose a diffusione nazionale, si continua a polemizzare con la tesi  - ventilata più che affermata - di Camilleri nell’ultimo romanzo Le pecore e il pastore: che dieci giovani suore si sarebbero lasciate morire, in pochi anni, nel loro convento di Palma di Montechiaro dopo aver offerto la propria vita a Dio in cambio della guarigione del vescovo di Agrigento, mons. Peruzzo, vittima di un attentato mafioso. Per contestare l’ipotesi letteraria dello scrittore siciliano viene citata una nota ufficiale della Curia agrigentina firmata da don Carmelo Petrone, portavoce dell’attuale vescovo: “E’ falso affermare che alcune suore si sono lasciate morire di fame e di sete. La morte di quelle suore è avvenuta per cause naturali come la malattia, la tisi o altro. Per capire certe parole come ‘offrire la vita ‘ bisogna entrare in una logica cristiana altrimenti si sbaglia totalmente bersaglio. Alcune monache di quel tempo sono ancora in vita e raccontano con semplicità il senso di quella offerta e di quella preghiera. Rimane l’atto di fede che fa offrire la propria sofferenza o il proprio morire per unirlo all’offerta di Cristo sulla croce e farlo diventare motivo di salvezza e di redenzione per l’umanità!”.

Ma questa nota chiude davvero la discussione o - forse senza volerlo - la riapre ad un livello più profondo e più impegnativo? In sintesi si sostiene che la morte delle dieci suore non è stata una forma di suicidio religioso. Esse hanno semplicemente offerto la loro vita, la qualità e la durata della loro esistenza, a Dio: il quale, se lo avesse voluto, avrebbe potuto accettare come sacrificio a lui gradito le loro malattie, e la loro morte, in unione al Crocifisso. Allora, per fare il punto. Che queste dieci suore siano decedute negli anni immediatamente successivi al loro ‘voto’ è un dato storico che nessuno smentisce. Ciò che si può discutere, perché mancano prove documentarie e testimonianze, è la ragione del loro decesso: è stato - come suggerisce la Curia - un intreccio casuale, e un po’ grottesco, di malattie ed accidenti del tutto indipendenti dalla loro dedizione interiore? E’ stata - come ipotizza Camilleri - una loro consapevole, esplicita volontà di immolazione (tradottasi in astensione dal cibo e dalle cure) accolta dall’Onnipotente? E’ stata - come si potrebbe ulteriormente ipotizzare - una sorta di condizionamento psichico inconscio che, proprio in conseguenza della loro disponibilità ad immolarsi al posto dell’amato pastore, ne ha abbassato le difese fisiche nei confronti delle malattie?  Se sul piano dei fatti storici dobbiamo sospendere il giudizio, non così avviene sul piano culturale. La Curia di Agrigento, in linea con la teologia cattolica tradizionale, afferma che “in una logica cristiana” le suore avrebbero potuto “offrire la propria sofferenza o il proprio morire per unirlo all’offerta di Cristo”. Questo significa che Gesù Cristo ha voluto soffrire per amore dell’umanità; che Dio, suo padre,  ci ha perdonato in virtù dei patimenti del figlio; che il dolore non è poi un fattore così negativo dell’esperienza umana perché può essere comunque valorizzato come “motivo di salvezza e di redenzione”. Da almeno quarant’anni, però, la teologia cristiana si interroga sulla sensatezza di questa interpretazione che rischia di far apparire Gesù di Nazareth un masochista, Dio Padre un sadico e i credenti cristiani dei rinunciatari autolesionisti. Si è così appurato che questa teoria teologica della “soddisfazione vicaria” (Gesù che soffre al posto dell’umanità peccatrice e così salda il debito infinito verso l’Eterno) non è così tradizionale come si suppone: non ha solide basi nella Scrittura, risale all’XI secolo d. C. (al Cur deus homo di sant’Anselmo d’Aosta), risente della mentalità giuridicista del medieove latino, va radicalmente ripensata e riformulata per dare ai credenti del XXI secolo una ben differente visione del dolore fisico e del diritto/dovere di combatterlo a livello individuale e a livello sociale.  Che di questo dibattito teologico, nella nota della Curia agrigentina,  non ci sia traccia, è un ‘peccato’ (almeno di omissione…). La comunità dei cristiani non è certo obbligata a restare in silenzio quando la cronaca si occupa di questioni religiose, ma nell’intervenire  darebbe prova di sapienza evangelica se non pestasse sempre nello stesso mortaio: se utilizzasse le provocazioni del mondo culturale ‘laico’ per far correggere e migliorare il suo modo umano di interpretare la fede.

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