venerdì 20 aprile 2012

Dal marxismo al cristianesimo


“CENTONOVE”
6.5.2011

DAL MARXISMO AL CRISTIANESIMO

Quando il Regno d’Italia si è costituito, il governo liberale si trovò d’accordo con la gerarchia vaticana nel decidere una separazione schizofrenica fra studi teologici e il resto dello scibile. Nelle università statali si sarebbe potuto insegnare di tutto, tranne che teologia; la quale sarebbe rimasta appannaggio, esclusivo, delle università pontificie. Abbagliati dalla reciproca convenienza immediata (lo Stato avrebbe risparmiato soldi, la Chiesa avrebbe conservato il monopolio della ricerca teologica), le due istituzioni non si resero conto dei danni gravissimi che stavano per provocare a sé stessi e, soprattutto, alla società. Infatti, con questa frattura, la teologia veniva condannata alla fossilizzazione (solo confrontandosi con la ricerca intellettuale negli altri ambiti il discorso teologico può riuscire significativo per la comunità civile), mentre lo Stato si precludeva di promuovere, nello spazio garantito delle proprie strutture universitarie, un pensiero teologico alternativo (rispetto al dogmatismo confessionale). Negli ultimi anni questo muro divisorio rivela qualche crepa. Il fenomeno si dà in due direzioni opposte: teologi cattolici che avvertono di soffocare dentro il recinto istituzionale e, anche a costo di gravi rampogne da parte dei custodi dell’ortodossia, si aprono con cordiale sincerità alle sfide del pensiero contemporaneo, da una parte; intellettuali di formazione decisamente laica che, spiazzando i lettori abituali, si cimentano in meditazioni teologiche appassionate.
Nella seconda categoria ritroviamo Pietro Barcellona, per anni autorevole esponente del Partito Comunista Italiano. Come racconta nel suo Incontro con Gesù (Marietti, Milano 2010), all’inizio degli anni Settanta si è avvicinato, per esigenze personali, alla psicoanalisi e gradualmente ha maturato la convinzione - professata dal suo analista, Davide Lopez - che “la verità psicologica sia la verità dell’esistere e dell’essere”. Il crollo del muro di Berlino, nel 1989, assesta un colpo decisivo alla sua militanza marxista: la rivoluzione sovietica, che “sembrava realizzare in terra l’Idea Messianica”, si è risolta “in uno dei drammi più cupi della recente storia umana”. Così a Barcellona s’impone la figura storica di Gesù di Nazareth nel quale egli scopre “non soltanto la critica al conformismo ipocrita con cui la casta dei sacerdoti e dei rabbini costringeva i fedeli ad un’osservanza tutta esteriore dei comandamenti”, ma “soprattutto la denuncia di una falsificazione permanente del rapporto tra il pensiero e la vita”. Nel tratto finale del cammino terreno, l’ex-deputato comunista testimonia la ragione determinante della sua conversione all’annunzio evangelico: “Non una rivoluzione che trasferisca la proprietà da una classe all’altra - e magari temporaneamente allo Stato monopolistico – ma soltanto una nuova creazione, che consenta di vedere e sentire ciò che gli esseri umani non hanno più la capacità di vedere e sentire, può realizzare una vera trasformazione della persona umana”.
La traiettoria autobiografica di Barcellona presenta vari pregi. Due spiccano sugli altri. Il primo è la sincerità quasi spietata con cui un personaggio come lui, che non ha certo mai peccato per eccesso di modestia, mette a nudo in pubblico la condizione emotiva e morale in cui è vissuto prima della conversione: “Per l’intera giovinezza e anche dopo, ho finito per l’indossare spavaldamente i panni del giovane Edipo. Da un lato, senso di colpa, invidia e desiderio di vendetta, dall’altro, fantasie onnipotenti di vittorie clamorose”. Inoltre, a differenza di tanti ex-comunisti che sputano sull’ideologia in nome della quale hanno per decenni sputato su chi comunista non si professava, Barcellona ha il buon gusto di distinguere ciò che di valido resta nell’analisi di Marx da quel “comunismo rozzo” che Marx per primo aveva previsto e condannato in anticipo.
Tuttavia la trattazione di Barcellona non appare priva di punti deboli: essenzialmente due. Il primo appartiene al campo della critica biblica: egli esalta unilateralmente la novità del vangelo rispetto alla tradizione ebraica precedente rischiando l’ennesima riedizione della demonizzazione del Primo Testamento (e dunque della religiosità ebraica) per divinizzare la figura di Gesù Cristo. Oggi questa contrapposizione non regge più: Gesù è il più coerente degli ebrei. Egli riprende – e porta a compimento – il meglio della tradizione profetica. Non intese fondare nessuna nuova religione, proporre nessuna nuova teologia, costruire nessuna nuova chiesa, se non nel senso di liberare religione, teologia e chiesa del suo popolo dalle superfetazioni per riportarle all’essenziale.
Meno agevole è sostenere, in poche righe, una seconda obiezione all’impianto di Barcellona: mi riferisco alle ragioni radicali per cui si può credere in Gesù Cristo e nel suo Dio. Egli scrive che “la verità” del cristianesimo “non appartiene al territorio della logica, del razionalismo astratto e neppure al salto nel buio del misticismo della fede”. Perfetto: ma allora? Barcellona prosegue: “La verità dell’esperienza non può che essere soggettiva”. Se Dio non c’è, la vita è assurda: dunque non sopportabile. Ma – obietterei – è questa una ragione sufficiente per credere? Dio c’è perché senza di lui la vita non avrebbe senso o la vita ha senso perché (per altre vie, possiamo asserire che) egli c’è? Insomma: il nichilismo va escluso (se può essere escluso convincentemente) per motivazioni ‘psicologiche’ o per argomentazioni ‘razionali’? Insomma: non ho mai condiviso la tesi di chi sostiene che Dio non c’è perché sarebbe troppo bello se esistesse e l’uomo ne avverte il bisogno; ma non posso neppure condividere la tesi di chi sostiene che Dio c’è perché sarebbe troppo brutto se non esistesse e il bisogno di rassicurazione dell’uomo rimarrebbe frustrato.
Mi rendo conto di aver solo sfiorato interrogativi abissali. Qui basti segnalare il dato di fatto di un intellettuale che, sollecitato da autentici travagli vitali, non esita a tuffarsi nel mare della teologia con un “salto senza rete” . Come altri che egli stesso evoca nel corso della narrazione: da Simone Weil a Luigi Pareyson, da Maria Zambrano a René Girard, da Pier Paolo Pasolini a Fabrizio De André, da Leszek Kolakowski a Julia Kristeva. Bigotti clericali e anti-clericali storceranno il naso: ma “si potrebbe arrivare alla conclusione che Gesù Cristo sia alla base della nostra civiltà come ‘mito’ di cui è impossibile fare a meno” , se non come soluzione almeno come interrogativo.

Augusto Cavadi

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