martedì 3 aprile 2012

Auguri pasquali dal “Cortile della gente in ricerca”


“Repubblica – Palermo”
3.4.2012

MAFIA E IMMIGRATI SFIDE PER LA CHIESA
Con la conferenza introduttiva del cardinale Gianfranco Ravasi, nella splendida cornice del Duomo di Monreale, ha avuto inizio l’edizione palermitana del “Cortile dei Gentili”. Di che si tratta? La formula è metaforica e, per capirne il senso, bisogna sapere che il Tempio di Gerusalemme è accessibile solo agli ebrei praticanti. I ‘gentili’ – vocabolo che indica i pagani, i non-ebrei, la gente in ricerca – possono sostare solo in uno spazio antistante l’ingresso del Tempio vero e proprio. Gianfranco Ravasi - che adesso, in quanto presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, è una sorta di ministro della cultura del Vaticano – ha promosso in alcune città italiane dei convegni di confronto fra credenti e non-credenti (o, come altri preferisce esprimersi, diversamente credenti). Convegni, dunque, non all’interno dei recinti confessionali, ma ai limiti esterni: in territorio laico.
Il duplice filo conduttore della tappa palermitana è in qualche modo obbligato: la tematica (interna all’isola) della criminalità organizzata e la tematica (che interessa la Sicilia in quanto crocevia del Mediterraneo) del dialogo interreligioso. Il ruolo della Chiesa nell’ambito della seconda tematica è intuitivo: il cattolicesimo in evidente difficoltà di consensi - la secolarizzazione, sia pur lentamente, avanza inesorabile anche nel Sud – ha davanti a sé due strategie alternative. O la via della chiusura a riccio, della difesa a oltranza, o la via dell’apertura, dello scambio paritetico. Ravasi – che invitai a Palermo nel 1982, quando era solo un giovane, ma già brillante e stimato, insegnante di teologia biblica – è uomo di straordinaria ampiezza mentale (e non è un caso che sia, fra tanto altro, collaboratore fisso del domenicale del “Sole 24 ore”). E’ nato e si è formato nel profondo Nord, una zona del Paese in cui hanno operato arcivescovi come Carlo Martini o Dionigi Tettamanzi, decisi propugnatori del dialogo con l’Islam e con ogni altra confessione religiosa professata da immigrati, ma anche arcivescovi come Giacomo Biffi, sensibili ai condizionamenti della Lega e alle tentazioni xenofobe (è il prelato di Bologna che suggeriva di accogliere gli extra-comunitari cattolici, o per lo meno cristiani, a preferena degli altri). Dunque il presidente del Consiglio vaticano della Cultura sta cercando di rafforzare, all’interno della Chiesa, le correnti intellettualmente più avvertite che non vogliono intestardirsi a contrastare il corso della storia, arroccandosi su posizioni di difesa identitaria, o addirittura alimentando “scontri di civiltà”. E sa che, per questa strategia culturale, c’è bisogno di iniezioni di tolleranza, anzi di ripetto, nelle vene della vecchia Chiesa cattolica. C’è bisogno di sinergia con le forze più vive e più rappresenattive del mondo laico.
Meno evidente sembrerebbe il ruolo della Chiesa nella seconda tematica di questa edizione palermitana del “Cortile dei Gentili”: la criminalità organizzata (o, se vogliamo chiamarla con il suo nome, la mafia). Non deve forse la comunità dei discepoli di Cristo mantenere una saggia, ferrea, equidistanza fra lo Stato e i mafiosi? Non deve conservarsi come una sorta di ‘terra di nessuno’ per poter accogliere, nello stesso grembo, le vittime e i carnefici, i giudici e gli imputati, le guardie e i ladri? Questa, per troppo tempo, è stata in effetti la linea della maggior parte dei vescovi e dei preti, dei dirigenti di Azione Cattolica e dei catechisti di parrocchia. Ma, appunto, è tale concezione falsamente neutrale - pericolosamente equilibrista – che iniziative come questa intendono scardinare e capovolgere. In nome, e sull’esempio, di pastori come don Pino Puglisi o don Giuseppe Diana, c’è una parte della Chiesa cattolica che vuole assumere il contrasto al sistema di dominio mafioso come compito teologico, religioso, etico. Che vuole, come sostiene don Cosimo Scordato nel quartiere Ballarò, “strappare almeno una generazione alla mafia”. Che non vuole entrare e uscire, come il parroco della Kalsa padre Frittitta, dai bunker dove i boss trascorrono latitanze devote (e dorate). Il Consiglio pontificio della Cultura - con la collaborazione sia dell’Arcidiocesi sia dell’Università di Palermo – ha chiesto a giuristi, sociologi, filosofi, storici un supporto per motivare questa parte di Chiesa che (come il compianto arcivescovo di Monreale, Cataldo Naro) vuole schierare il patrimonio pedagogico e simbolico del mondo cattolico dalla parte giusta. Sappiamo che l’operazione, senz’altro meritoria, è ardua. Dagli inizi degli anni Ottanta, infatti, è stato facile mobilitare i fedeli in occasione di delitti eccellenti e di stragi terroristiche; non altrettanto facile convincere gli stessi fedeli a prendere le distanze dai mafiosi con i colletti bianchi e dai loro amici in carriera politica. E’ dunque una nuova visione della mafia che bisogna focalizzare (scientificamente) e diffondere anche negli ambienti cattolici: una mafia come associazione criminale che non soltanto minaccia e spara, ma corrompe e inquina. Solo così chiedere raccomandazioni, tessere relazioni clientelari, esercitare il voto di scambio, evadere le tasse, deturpare le coste…saranno considerati non solo reati (tutto sommato ‘minori’), ma anche peccati. Ferite inferte al tessuto ecclesiale quanto civile. Attentati alla dignità delle persone e alla solidarietà tra le persone: dunque rifiuto e disprezzo del progetto creatore di Dio.
Augusto Cavadi

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