lunedì 15 luglio 2013

CINQUANT'ANNI DOPO IL MANIFESTO DEL PASTORE PANASCIA SULL'ECCIDIO DI CIACULLI


“REPUBBLICA- PALERMO”

 SABATO 13 LUGLIO 2013

CHIESA E MAFIA CINQUANT’ANNI DOPO CIACULLI


 La lupara ad personam non è mai stata l’unica tecnica adottata dalla mafia per imporre il suo violento dominio territoriale. Già il 26 dicembre del 1920  quattro persone incappucciate, rimaste sconosciute, lanciarono una bomba all'interno della sezione socialista di Casteltermini, nell’agrigentino, provocando, oltre a numerosi feriti, la morte del segretario locale e di quattro contadini iscritti al partito. Altri attentati dinamitardi di matrice mafiosa (la strage di Partinico con due vittime e la strage di Canicattì con 4 morti e circa 20 feriti) furono consumati nei mesi successivi alla strage di Portella della Ginestra del 1 maggio 1947 (in cui si contarono, come è noto, 11 morti e 56 feriti ). Probabilmente però la strage di Ciaculli, quartiere periferico di Palermo,  del 30 giugno 1963 ebbe una caratteristica sinistramente originale: l’Alfa Romeo  Giulietta imbottita di tritolo fu la prima strage ‘interna’  a Cosa nostra. Preparata da mafiosi con l’intento, fallito, di far fuori altri mafiosi.
      Forse per questa caratteristica di faida tra criminali, l’opinione pubblica non sembrò sconvolta dalla notizia. Ancora una volta prevalse fra la gente il ritornello, illusoriamente consolatorio, del “tanto s’ammazzano fra loro”.  Eppure si trattava, oggettivamente, di un evento sconvolgente che anticipava la successiva strategia stragista degli anni Novanta. A saltare in aria, infatti, non furono – come nei piani – altri mafiosi, ma sette servitori dello Stato: avvertiti da una telefonata anonima accorsero artificieri e uomini delle Forze dell’ordine che constatarono l’innocuità di una bombola che faceva capolino dall’interno della vettura. Si trattava purtroppo di una trappola. Infatti l’esplosione avvenne dopo, quando uno dei militi intervenuti aprì il portabagagli per vedere cosa contenesse: a rimanere dilaniati il tenente dei carabinieri Mario  Malausa, i marescialli Silvio Corrao e Calogero Vaccaro, gli appuntati Eugenio Altomare e Marino Fardelli, il maresciallo dell'esercito Pasquale Nuccio, il soldato Giorgio Ciacci.
     Erano gli anni in cui alla stragrande maggioranza della popolazione la parola ‘mafia’ si fermava in gola per la paura: solo “L’Ora”, Danilo Dolci e qualche altro “comunista” più o meno incosciente riusivano a pronunziarla. Gli ambienti religiosi, “moderati” e perbenisti, poi, erano troppo impegnati a discettare sulle lacrime delle Madonne in vena di apparizioni per abbassarsi a occuparsi di assassini, bombe e vittime civili…In campo cristiano,  unica voce a spezzare l’assordante silenzio, il pastore Pietro Valdo Panascia che dovette vincere le resistenze persino all’interno della sua piccola chiesa valdese. Di tasca propria, infatti, fece stampare e affiggere un Manifesto (“Iniziativa per il rispetto della vita umana”) per le vie della città  in cui  si appellava, , “a quanti hanno la responsabilità della vita civile e religiosa del nostro popolo, onde siano prese delle opportune iniziative per prevenire ogni forma di delitto, adoperandosi con ogni mezzo alla formazione di una più elevata coscienza morale e cristiana, richiamando tutti ad un più alto senso di sacro rispetto della vita e alla osservanza della Legge di Dio che ordina di non uccidere”.
     Ma l’appello cade nel vuoto. Il cardinale Ernesto Ruffini, a capo della chiesa cristiana più numerosa, tace. Su input dello stesso papa Paolo VI,  la Segreteria di Stato vaticana scrive all’arcivescovo di Palermo per segnalare l’iniziativa della comunità valdese e per suggerire “un’azione positiva e sistematica per dissociare la mentalità della così detta ‘mafia’ da quella religiosa”, ma il “principe della Chiesa cattolica” risponde quasi piccato: “Mi sorprende alquanto che si possa supporre che la mentalità della così detta mafia sia associata a quella religiosa”. Il modo in cui la chiesa cattolica si dedica all’educazione morale dei cittadini  “non è eccezionale, come l’intervento del Pastore Pier Valdo Panascia, ma continuo”.  La disistima di Ruffini, capo di una diocesi di 700.000 fedeli, nei confronti di Panascia, pastore di una comunità di 700 membri, è palpabile: egli stesso aveva da anni promulgato un decreto per cui chi fosse entrato, anche solo per curiosità, dentro il tempio valdese di via Spezio sarebbe stato ipso facto scomunicato!
      Due ecclesiologie erano di fronte: una concezione della chiesa come istituzione di potere che ritiene l’alleanza con la Democrazia cristiana e la lotta al comunismo una priorità assoluta rispetto ai fenomeni mafiosi, ridotti al rango di criminalità comune come se ne trova in tutto il pianeta; e, dall’altra parte, una concezione della chiesa come minoranza morale, coscienza critica di una società ormai assuefatta alla violenza da non avere più neppure la capacità di indignarsi.
Sul momento l’ecclesiologia ruffiniana risultò vincente, ma i decenni successivi rimetteranno in gioco molti (perversi) equilibri. I frutti dell’azione pastorale sistematica di Ruffini si snocciolarono anno dopo anno: una lunga lista di cattolici di indubbia complicità criminale (da Lima e Ciancimino sino a Cuffaro e Antinoro). Parallelamente il seme piantato da Panascia è andato crescendo: il Centro diaconale della Noce (che ha voluto organizzare in questi giorni un convegno per celebrare il cinquantesimo anniversario del “Manifesto” valdese) è diventato uno dei punti di riferimento più significativi della città, soprattutto per la cura dei minori in difficoltà e per l’accoglienza materiale e spirituale degli immigrati dall’Africa.
     Anche da parte cattolica, in questi decenni, si sono fatti enormi passi in avanti, dei quali la beatificazione per martirio di don Pino Puglisi ha recentemente segnato una tappa significativa. Ma cattolici e protestanti, come più in generale credenti e ‘laici’, non possono rifugiarsi sotto nessuna icona celebrativa: l’unico modo decente di fare memoria dei pionieri dell’antimafia è di perseverare, se possibile accentuandolo, nell’impegno per una Sicilia meno corrotta e meno ingiusta. Impegno di analisi teorica, di progettualità politica, di tensione etica: insomma qualcosa di più costoso delle generiche dichiarazioni d’intenti di cui abbiamo ormai le tasche piene.

                                                     Augusto Cavadi

3 commenti:

Maria D'Asaro ha detto...

Condivido al 100%. Col tuo permesso, più tardi lo "rilancio" nel mio blog. Grazie.
Maria D'Asaro

Anonimo ha detto...

Da allora sono trascorsi 50 anni e il card. Ruffini rimane un personaggio della storia di Palermo “discusso” (qualcuno ne celebra ancora le attività sociali), ma ormai quasi dimenticato. Come diverso è ormai l’atteggiamento della Chiesa cattolica nei confronti della mafia. Concordo sul fatto che religiosi e laici contemporanei “non possono rifugiarsi sotto nessuna icona celebrativa”, assumendo astrattamente la beatificazione di don Pino Puglisi come dato definitivo e risolutivo. Chiaramente occorre un impegno costante e una pratica quotidiana che vanno al di là delle semplici dichiarazioni di intenti. Ma qualcosa di positivo è iniziato e non da oggi.
La famosa omelia di Agrigento, pronunciata in terra di Sicilia dal papa Giovanni Paolo II il 9 maggio 1993, nel pieno della strategia terroristico-mafiosa iniziata con le stragi del ’92, fu anche una risposta forte ad una misteriosa lettera di chiaro stampo mafioso indirizzata nel febbraio del 1993, per conoscenza, anche al papa, al vescovo di Firenze e al cardinale di Palermo. Quell’omelia fu un netto rifiuto, un anatema vero e proprio. In quell’occasione, dopo tanti anni di silenzio, la Chiesa, tramite la sua più alta carica, dimostrò di non volere accogliere le istanze di quella lettera e di non avere alcuna disponibilità al dialogo con la mafia, anzi la condannò pubblicamente e la additò al mondo come male. A seguito di ciò, la mafia spostò anche su obiettivi religiosi la sua orrenda strategia. Così, dopo quelle di Firenze e di Milano, fece esplodere le sue bombe anche a San Giovanni in Laterano e a San Giorgio in Velabro a Roma (ambedue il 28 luglio 1993) e, in ultimo, uccise padre Pino Puglisi a Palermo (15 settembre 1993), atto estremo, il primo omicidio mafioso di un religioso “colpevole” di avere operato contro gli interessi della mafia.
Ma, nonostante queste rappresaglie, ci sono state delle coraggiose prese di posizione da parte di esponenti della Chiesa siciliana:
1) Nel mese di luglio 2012, il parroco don Leopoldo Argento, su disposizione dell'arcivescovo di Agrigento Francesco Montenegro, si è rifiutato di celebrare i funerali religiosi per un uomo della cosca di Siculiana.
2) Domenico Mogavero, vescovo di Mazara del Vallo, il 18 febbraio 2013 ha detto: ”Oggi non abbiamo più paura della mafia, ne ammettiamo l'esistenza, ne riconosciamo la pericolosità e la combattiamo con la denuncia e la testimonianza. Abbiamo delle linee direttive chiare e inequivocabili che per noi costituiscono le tappe di un cammino nel quale non sono ammessi passi e ritorni indietro”. Una recente lettera aperta di protesta, indirizzata a lui dalla vedova di un mafioso, ha rivelato un precedente rifiuto delle esequie religiose messo in atto tempo fa da mons. Mogavero e passato inosservato ai più.
3) Il 20 giugno 2013, il vescovo di Acireale mons. Antonino Raspanti ha emanato il “Decreto di privazione delle esequie ecclesiastiche per chi è stato condannato per reati di mafia”, valido nel territorio della sua diocesi.
(prima di due parti)
Sandro Riotta

Anonimo ha detto...

(seconda di due parti)
4) Il 7 luglio 2013, sulle pagine del Giornale di Sicilia don Cosimo Scordato, rettore della chiesa di San Francesco Saverio nel quartiere dell’Albergheria di Palermo, ha dichiarato: “La mafia è inconciliabile con il Vangelo. [...] Il sistema mafioso è agli antipodi degli insegnamenti di Gesù, che parla di amore, di servizio e che dice chiaramente che non si può servire contemporaneamente Dio e mammona. Questo concetto vale anche per lo Ior e per tutti i sistemi di corruzione che ci sono nella società”.
Frattanto, il 21 maggio scorso, in occasione dell’incontro “Ad limina apostolorum” con i vescovi siciliani, il papa Francesco, dopo avere ricordato don Pino Puglisi come “un esempio da seguire nell’affermare i valori umani e cristiani contro chi li calpesta con la criminalità”, ha espresso la propria condivisione della posizione dei prelati che hanno chiuso le porte ai mafiosi “perché, non accettando il messaggio evangelico, si pongono fuori dalla Chiesa”.
È già qualcosa, qualcosa che era stato detto 20 anni fa, ma quanto meno la conferma di un orientamento chiaro da cui partire per affrontare una svolta più decisa e più articolata.
In realtà occorrerebbe un analisi più approfondita delle problematiche legate soprattutto al ruolo quotidiano svolto dai singoli parroci e sacerdoti sul territorio, una sorta di codice comportamentale che suggerisca soluzioni pratiche di fronte alle molteplici e subdole forme assunte dalla mafia a tutti i livelli, dal più basso al più alto, e viceversa. Occorrerebbe un dialogo più serrato all’interno del mondo clericale per far conoscere meglio gli aspetti del fenomeno mafioso “nel sociale”, dialogo dal quale potrebbero scaturire proposte operative, che potrebbero smuovere e motivare un intervento più incisivo da parte della chiesa di Roma. E non solo in Sicilia.
Proprio ieri sera, fotografando tutti gli stendardi che precedevano la “vara” di S. Rosalia, ho contato ben 57 tra confraternite e congregazioni provenienti dal centro storico e dalle borgate di Palermo. E forse ne mancava qualcuna. Un vero e proprio “popolo” fatto di persone che in tante realtà, a volte emarginate e piene di difficoltà, fanno da tramite tra la gente comune e la Chiesa. Persone “accreditate” presso la “chiesa locale”, che svolgono un certo ruolo all’interno della comunità - si spera, a fin di bene -, ma che spesso sono “infiltrate” da interessi mafiosi. E se si cominciasse da là? Le strutture ecclesiastiche già ci sono (presso la chiesa di S. Matteo, fino a non molto tempo fa, c’era una sorta di ufficio di coordinamento con a capo un religioso responsabile). Quel che occorre è far seguire i fatti alle parole, buona volontà e tenere sempre vive le vere finalità che devono caratterizzare l’opera quotidiana della Chiesa.
Palermo, 16 luglio 2013
Sandro Riotta