domenica 19 ottobre 2014

MA I PROFESSORI SONO COMUNQUE DA PROMUOVERE A FINE D'OGNI ANNO ?


“Repubblica – Palermo”
16. 10. 2014

LE PAGELLE PER I PROFESSORI


Con la finezza dello scrittore e l’esperienza dell’uomo di scuola Marcello Benfante ha suggerito (nell’edizione del 14 ottobre) delle opportune considerazioni sulla scuola italiana incentrate sull’idea che la cultura sia, paradossalmente la grande assente della vita scolastica. Un solo passaggio della sua riflessione mi trova in disaccordo (uno solo, ma in disaccordo radicale): “Giudicare oggettivamente un insegnante è pressocché impossibile”. Ciò di cui sono fermamente convinto è che sia così poco “impossibile” che, anzi, è ciò che avviene – con precisione millimetrica – ogni giorno in tutte le scuole. A sostegno della mia tesi potrei formulare una sola domanda: perché quando un genitore vuole iscrivere il figlio e non sa che sezione indicare si rivolge, da tempo immemore, al bidello in portineria? Evidentemente il responso risulta veritiero e il metodo acquista – da una generazione all’altra – affidabilità.
Ma non voglio liquidare la questione con una battuta. Sintetizzando quanto mi è capitato di scrivere nei quarant’anni di insegnamento, ovviamente incontrando la sistematica opposizione di sindacati di categoria (in cui militano di solito docenti poco affezionati alla cattedra e più inclini ad altre non meno nobili attività professionali) e di colleghi in servizio (animati da buonismo cattolico o da egualitarismo maoista), oserei affermare che una pagella per i professori sarebbe non solo possibile, ma anche necessaria e urgente. Stilata da chi? Da una commissione di valutazione composta da un collega eletto dal consiglio di classe, da un esponente del personale amministrativo e ausiliario, da un rappresentante dei genitori e da tre alunni. Anzi, più precisamente: da tre ex-alunni che abbiano lasciato la scuola non meno di un anno prima e non più di tre anni dopo. A caldo, infatti, la loro valutazione potrebbe essere inficiata da entusiasmi, o al contrario da risentimenti, troppo vivi; a freddo, dopo più di tre anni, la memoria potrebbe sfocarsi e deformare i ricordi in meglio o in peggio.
    L’esperienza, anche recentissima, mi stupisce: a diciotto o a dicennove  anni, dopo averne trascorso tre o cinque in una classe, l’alunno sa dipingere pregi, difetti, qualità positive e negative degli insegnanti con un realismo impressionante. In alcune scuole si è pure provato, sperimentalmente, a misurare questi giudizi con semplici formulari: il tuo insegnante arrivava di solito in orario? Cercava di impiegare utilmente l’ora a disposizione? Padroneggiava i contenuti della sua disciplina? Spiegava con passione o stancamente? Era capace solo di monologhi, più o meno eruditi, o riusciva a suscitare la partecipazione degli studenti alla discussione?  Valutava con serenità il corso dei colloqui o mostrava preferenze dettate da ragioni extra-didattiche? Quando assegnava esercitazioni scritte le correggeva con cura e in tempi ragionevoli o distrattamente e con molto ritardo? Sapeva gestire le dinamiche psicologiche del gruppo-classe, evitando sia d’imporre un clima di terrore sia di abdicare alla funzione di guida e di coordinatore?
     Questo genere di valutazione atterrisce molti professori: non perché troppo generica, ma perché troppo calzante. Non vedo però alternative all’egualitarismo che appiattisce artisti e artigiani dell’istruzione (e che tiene lontano dalla non-carriera di insegnanti molti validissimi alunni che scelgono di fare altro perché non se la sentono di morire soldati semplici senza nessuna possibilità di diventare neppure caporali): a meno che  non si accettino quei parametri idioti che altri governi hanno già fallimentarmente sperimentato (concorsoni a quiz; premio di produttività a chi sta più ore a scuola a fare il baby-sitter invece di leggere, riflettere e scrivere a casa propria; valutazione di esclusiva pertinenza dei dirigenti scolastici col rischio di incentivare la piaggeria e di scoraggiare l’indipendenza di giudizio e così via). Ovviamente tutto questo – e il molto altro ancora che si potrebbe aggiungere – presupporrebbe una rivoluzione culturale: in cattedra si deve salire solo per meriti accertati (anche a ventidue anni), non per anzianità di servizio come supplenti (anche a cinquantasei anni). Nessuno bypassa il filtro selettivo per diventare magistrato o pilota d’aereo grazie a sanatorie: perché la scuola dovrebbe continuare ad essere l’amnmortizzatore sociale per quanti, incapaci di ottenere un ruolo gratificante nel pubblico o nel privato, accettano il patto umiliante con lo Stato di essere assunti senza concorso, pagati per un decimo della retribuzione di un usciere alla Regione, in cambio di restare immuni da ogni forma di valutazione professionale?  Chi sceglie l’insegnamento per autentica vocazione interiore deve rinunziare, a meno che non scelga apertamente e legalmente il part-time , a ogni altra forma stabile di attività remunerata (studi professionali, palestre, lezioni private…); ma in compenso deve essere messo nelle condizioni economiche adeguate alle esigenze di auto-aggiornamento permanente, senza dover lesinare la visione di un film o l’acquisto di un libro.
Augusto Cavadi

2 commenti:

renzo pintus ha detto...

come non essere d'accordo con argomenti così chiari e semplici ma purtroppo inadatti a un paese complicato come il nostro, indifferente alla verità e moralmente fiacco? I presidi e i docenti (quelli reali) sono i meno adatti a riconoscere il merito di altri colleghi, per costoro l'ombra non da refrigerio ma solo fastidio al proprio senso di sè, mentre i genitori ed ancor più gli alunni sono i più adatti e ben informati ad esprimere un giudizio più disinteressato e genuino. Mi sentirei di aggiungere l'obbligo di una valutazione annuale a mezzo questionario (anonimo) da parte degli utenti della scuola, con la cura di elidere i valori estremi in modo da ottenere una media calibrata e perchè no l'accertamento a campione e senza preavviso delle competenze disciplinari e professionali dei docenti da parte di commissioni ministeriali con facoltà di rimandare a studiare e ad aggiornarsi docenti con carenti competenze o inadeguati sotto il profilo psicorelazionale e umano. La riammissione in servizio solo dopo avere colmato le carenze, l'equivalente di un esame di rriparazione . Sento già i fischi e i buuu dal loggione affollato di coloro che hanno trasformato la scuola in un luogo di mortificazione della cultura. "Fuori gli ignoranti dalle università", così furoreggiava Giordano Bruno. Sappiamo che fine ha fatto. Per fortuna non sarà la nostra fine, però resteremo soldati a vita dell'esercito di francischiello. Da soldato a soldato,caro Augusto, sappiamo però che le guerre le vincono i soldati e non i loro generali.

Vittorio Riera ha detto...

Certo, in una scuola come è strutturata oggi, anchilosata da troppe bardature burocratiche, ospitata spesso in edifici nati per ben altri scopi (in via Emerico Amari, a Palermo, fino agli anni Settanta una scuola media era ospitata in un edificio dove era anche una casa per appuntamenti), provvista – quando provvista - di laboratori ma che spesso non vengono fatti funzionare per non si sa quali motivi, diretta da persone talvolta non all’altezza della situazione (si ha notizia di scuola dirette da docenti di educazione motoria), in una scuola che si va configurando pertanto sempre più come scuola-azienda, caratterizzata dal non dialogo con le famiglie (a parte gli incontri con i genitori previsti da circolari e leggine varie), dicevo, in una scuola così disastrata e destrutturata, non accattivante, che respinge, anzi, che spegne ogni entusiasmo in alunni e insegnanti, ha ragione Marcello Benfante quando scrive che “Giudicare oggettivamente un insegnante è pressoché impossibile”, solo che io sostituirei quel ‘pressoché’ con un ‘del tutto” impossibile. Ciò che è necessario è una rivoluzione culturale che investa non solamente la scuola e che tuttavia è dalla scuola che deve avere inizio, una rivoluzione insomma globale, che investa tutti gli strati sociali della società. E che sia, questa, una esigenza da cui non si può non prescindere, lo dimostrano le interviste dei cittadini che giornalmente la televisione ci propone il cui italiano è per lo più approssimativo. Certo, si dirà, d’accordo, e i fondi? Con i chiari di luna da cui siamo illuminati c’è da rimanere quanto meno scoraggiati. Certo, rispondo, ma non è che voglia tutto e subito, non è che si voglia, è proprio il caso di dire, la luna. Ma intanto cominciamo. Cominciamo con il far diventare, poco alla volta, gli insegnanti produttori di cultura, comunicatori di cultura e non soltanto trasmettitori – e qui ci sovviene un notissimo testo di Danilo Dolci – Dal tramettere al comunicare – nel quale tuttavia i poeta e sociologo sicul-triestino analizza il ruolo che la stampa nei suoi vari aspetti (giornali, riviste, radio, televisione ecc.) nel diffondere unilateralmente i suoi messaggi. Cominciamo con il far divenire la scuola luogo, palestra, si diceva una volta, di dialogo e non di scontro, come avveniva un ieri non molto lontano, e di non dialogo come avviene spesso oggi. Cominciamo con instituire la figura del ‘bibliotecario’, che potrebbe divenire centrale nel più complesso processo educativo, tanto più che non c’è scuola dove non esista una biblioteca. Andrebbe investita tuttavia di ben altri compiti che non quelli di distribuire libri a destra e a manca (ammesso, e non concesso, che vi sia ‘fame’ di libri tra gli alunni e gli insegnanti). Vedrei in questa figura piuttosto un vero e proprio operatore culturale, con compiti di organizzazione di convegni, di incontri culturali, di dibattiti a sfondo pedagogico, filosofico, psicologico, sociologico affidati a esperti locali o a insegnati della stessa scuola o di altre scuole e coinvolgendo anche quei genitori – e ve ne sono tanti – esperti quando non addirittura studiosi di settori con i quali è utile per tutti a venire a conoscenza. Il bibliotecario, dunque – e qui mi fermo, ma potremmo continuare – come organizzatore anche annualmente di un convegno sul personaggio cui è intestata la scuola. Ci si è mai chiesto chi era Stanislao Cannizzaro, Giuseppe Agostino De Cosmi, Publio Virgilio Marone, Benedetto Croce, Einstein, Domenico Savio, Lydia Tornatore e via di questo passo? Certo che ce lo siamo chiesto e ce lo chiediamo, ma in ambito specialistico, in ambito di studiosi del settore. Ma c’è una scuola che si sia ricordata anche una sola volta nell’arco della sua vita – nell’esistenza della scuola, intendiamo – del personaggio cui la scuola è intitolata? No, non c’è. Ne siamo certi. Allora, pensiamo a rifare la scuola, prima di pensare a dare le pagelle agli insegnanti. VITTORIO RIERA