lunedì 1 febbraio 2016

NIENTE


25.1.2016

    NIENTE SECONDO JANNE TELLER

Sono stato costretto ad andare molto lontano nel tempo con la memoria, sino agli anni giovanili in cui lessi La nausea di J. P. Sartre, per trovare un antecedente del romanzo filosofico Niente di Janne Teller (Feltrinelli, Milano 2014). Come il testo francese, anche questo danese è per stomaci forti. La vicenda di un gruppo di adolescenti che si sfidano alla ricerca di qualcosa che abbia un “significato”, precipitando in un vortice parossistico dall’esito tragico, è raccontata con distacco emotivo quasi chirurgico: se lo scopo è di immergere il lettore in un bagno di amarezza e di sconforto, l’autrice lo raggiunge perfettamente.
    Molto probabilmente, però, la Teller mira anche a far pensare: e questo secondo obiettivo dipende dalla disponibilità interiore di chi regge, sino all’ultima pagina, la spietata durezza del racconto. Di certo gli spunti non mancano. Innanzitutto per comprendere, un po’ oltre la superficie della quotidianità statistica, il malessere della nostra generazione e, all’interno di essa, delle fasce giovanili in particolare: “Primavera, estate, autunno, inverno, gioia, dolore, amore, odio, nascita, vita, morte. Tutto la stessa cosa. Lo stesso. Uno. Niente. Non ero la sola a rendermene conto. Dopo quella rivelazione fu come se il diavolo s’impadronisse di tutti noi” (p. 108). E’ il demone del nichilismo, dell’invadente convinzione che non esista qualcosa per cui “valga la pena” soffrire, lottare, morire o più radicalmente vivere.
  Mi pare che l’autrice non si fermi all’analisi della situazione ma, sia pur in controluce e per accenni, indichi (forse addirittura inconsapevolmente ?) delle vie d’uscita. In una sorta di semantica negativa ella, infatti, lascia intravedere il senso del senso illustrando cosa esso non sia. Prima di tutto, non è qualcosa di parziale, provvisorio, locale: “Pierre Anthon forse aveva afferrato qualcosa: che il significato era relativo e perciò privo di significato” (pp. 98 – 99). Formule ripetute dappertutto del genere “Dare un significato alla vita” sono poco più che pie illusioni: la vita, la storia, il cosmo o hanno in sé un significato assoluto o nessuna proiezione antropologica può conferirlo. Il senso non si crea: se c’è si scopre, se non si scopre e lo si inventa non è davvero un senso. Inoltre, e conseguentemente, il significato non coincide con il patrimonio culturale di una civiltà né dell’intera umanità. L’istruzione, la memoria storica, la formazione letteraria e artistica sono vie, non méte: la luce del senso non si identifica con nessuna opera umana; non può essere né insegnata né appresa; può solo essere colta da un’intuizione, soffertamente personale, che scocchi come una scintilla a contatto con testi, statue, quadri, architetture, sinfonie musicali… I sistemi scolastici e universitari spacciano troppo spesso i mezzi per il fine, l’erudizione per sapienza. Prima di impazzire, Sofie lo rinfaccia al preside della scuola: “Il significato. Voi non ce ne avete insegnato nessuno. Perciò ce lo siamo trovato da soli” (p. 86). Proprio perché non è producibile da nessun essere umano, né individualmente né collettivamente, il significato non è neppure commerciabile. Una società dove il valore intrinseco di ogni cosa, e di ogni persona, è misurato da quanto si è disposti a pagare per comprarlo è una società che si auto-condanna a navigare nel mare dell’irrilevanza: “Non è il loro significato, è il nostro! <….> Non si può vendere il significato” (p. 107). Il capitalismo, come ogni sistema economico, ha pregi e difetti; ma come modo di interpretare la vita ha solo difetti, è in grado di sradicare ogni riferimento significativo. (Resta da determinare se, e in quale misura, un sistema economico possa essere svincolato da una visione della vita che in parte l’ha  condizionato e in parte ne è stata condizionata).  
    Il racconto si chiude con un funerale. Il defunto, nonostante la versione della polizia, è un martire in almeno due sensi: testimone e profeta del nichilismo, ma anche vittima innocente della furia omicida di chi ha terrore del nulla. Egli non sarebbe morto se, per un senso di solidarietà, non avesse abbandonato la posizione del teorico del nichilismo e non avesse provato a sedare l’odio dei fanatici anti-nichilisti. Così qualcosa del senso (assoluto) “splende” come la bara “bianca, lucida e non screpolata” proprio nel momento più basso, e più buio, della storia: “la musica s’insinuava in noi e cresceva e cercava una via d’uscita e non la trovava. Ed era vero sia che credessimo in quel Dio per il quale cantavamo, o in un altro, o in nessuno”. (p. 117).
    Questa conclusione mi suggerisce, non so quanto legittimamente, tre considerazioni. La prima è che l’umanità è capace di uccidere pur di trovare  - o di illudersi di trovare – un senso alla propria esistenza (“io so che con il significato non si scherza”, p. 119): ma questa stessa sete di senso non è rivelativa? Non ha forse già un significato la disperata ricerca di significato? Se l’universo fosse intrinsecamente assurdo perché mai noi, frutto e fiore di tale universo, non dovremmo  convivere quietamente immersi in tale assurdità? Questa inquietudine, questa incapacità di arrendersi all’assenza di senso, questa “strana sensazione nella pancia” “deve avere un significato” (p. 119). Una seconda considerazione: il significato profondo dell’Intero trascende comunque le possibilità di ‘com-prensione’ intellettuale. La ragione è tanto necessaria quanto insufficiente: “Piangevamo perché avevamo perduto qualcosa e trovato qualcos’altro. E perché è doloroso, sia perdere che trovare. E perché sapevamo che cosa avevamo perduto, ma non eravamo ancora capaci di definire a parole quello che avevamo trovato” (p. 117). Una terza e ultima considerazione: dove non arriva la ragione, può arrivare l’amore. Sul piano dialettico ci possono essere argomenti a favore e contro il nichilismo, ma sul piano etico la ‘com-passione’ per gli schiavi prigionieri nella caverna dell’odio insensato è qualcosa di preferibile all’indifferenza solipsistica. E simile ‘com-passione’ ha un ‘significato’ e un ‘valore’ che la morte (incontrata nell’ esercizio della solidarietà), lungi dal negare, finisce con l’esaltare. Forse ciò che accade in natura è metafora del destino umano: “E’ il marciume che puzza, ma quando qualcosa marcisce vuol dire che comincia a diventare qualcosa di nuovo. E il nuovo che si crea, dà un buon odore” (p. 79).

                                                                                                Augusto Cavadi
                                                                                     www.augustocavadi.com



2 commenti:

Bruno Vergani ha detto...

Quanto mi prendono queste tematiche, grazie Augusto, leggerò il libro. Mi viene in mente Ferruccio Parazzoli nel suo libro “Eclisse del Dio Unico”
( http://www.brunovergani.it/item/3401-eclisse-del-dio-unico.html#.VrBpximak7A ) quando definiva la contemporaneità «pappa del niente», ma mi sembra che qui ci sia di più: “Tutto la stessa cosa. Lo stesso. Uno. Niente” è inaspettatamente speculare, dunque puntualmente connesso, al plotiniano “Tutto la stessa cosa. Lo stesso. Uno. Tutto”. C’è da lavorarci.

Pietro ha detto...

Premesso che la recensione di Aug è davvero bella e fa venire voglia di leggere il libro (e di adottarlo per le nostre cenette filosofiche) secondo me il dilemma esiste (anche se Augusto sembra aver già fatto la sua scelta): l'esistenza ha un senso in sè, a priori, che dobbiamo "solo" scoprire o il senso dobbiamo regalarglielo noi? Davvero se il senso è "relativo" è, per ciò stesso, privo di significato, come l'autore del libro fa dire ad un personaggio oppure, al contrario, solo un senso prima inesistente, che scaturisca da noi (e quindi, relativissimo a noi, se così si può dire) ha un significato? Non possiamo sospettare che la creazione è incompleta proprio perchè non è dotata di un senso "a priori" ma attende di essere fecondata di senso da noi? Quando Augusto scrive che " Il senso non si crea: se c’è si scopre, se non si scopre e lo si inventa non è davvero un senso" dice qualcosa di molto "plausibile" (direbbe Orlando Franceschelli) e capisco che possa sembrare delirante pensare, come ogni tanto faccio io, che solo noi possiamo regalare al mondo ed agli dei un significato che, da soli, non hanno e che implorano da noi. Direi che implorano di ricevere esistenza, ma non penso ad una mera proiezione tipo Feurbach...penso piuttosto a qualcosa come la Storia Infinita: il Regno sta morendo e solo il bimbo-lettore può ridargli la vita se capisce di non essere solo un lettore.. deve però avere fiducia nella propria fantasia e pronunziare la parola: una parola creativa, diversa per ognuno di noi, direi come una password che solo noi conosciamo e che dobbiamo rintracciare dentro di noi, per dischiudere quel regno e vivificarlo...