lunedì 21 marzo 2016

RELIGIOSITA' SENZA DIO? IN DIALOGO CON RONALD DWORKIN

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UNA RELIGIONE SENZA DIO O, PIUTTOSTO, UNA RELIGIOSITA' ? 


Una  religione senza Dio o, piuttosto,  una religiosità ?

 

    
    Ronald Dworkin, scomparso a 82 anni nel 2013, è considerato uno dei più importanti filosofi del diritto contemporanei. Ma l’ultima sua pubblicazione (Religione senza Dio, Il Mulino, Bologna 2014) affronta una tematica filosofica che precede, logicamente, la riflessione sui temi politici e giuridici: la “religione”. Egli ne propone una definizione sin dalle prime righe: “una visione del mondo profonda, speciale ed esaustiva, secondo la quale un valore intrinseco e oggettivo permea tutte le cose”. Dunque permea “l’universo” (che custodisce in sé  “un ordine”) e, in esso, “la vita umana” (che custodisce in sé “uno scopo”) (p. 17).

a) Buoni contenuti in contenitore fuorviante
In questa definizione concetti del tutto condivisibili sono incorniciati in una categoria semanticamente infelice.
    Che i contenuti siano condivisibili mi pare evidente: nel senso che tutti (credenti o meno) condividono la tesi che appartiene necessariamente  a ogni atteggiamento religioso il riconoscimento di “un valore intrinseco e oggettivo” presente in ogni manifestazione del cosmo (vita umana compresa). Controprova: ritengo che si debba alla genialità di Nietzsche la formula essenziale - “In principio era l’Assurdo” - di ogni serio atteggiamento irreligioso (o a-religioso o ateo). 
     Perché questi concetti sono, a mio avviso, formulati in maniera semanticamente inadeguata? Perché Dworkin chiama religione ciò che andrebbe denominato, se mai, religiosità. Può sembrare una questione di lana caprina, ma non ritengo che lo sia. La “religiosità” può avere tutte le caratteristiche elencate da Dworkin e può prescindere – come vuole l’autore - dall’adesione a una precisa confessione religiosa, a una determinata tradizione ecclesiale, a una concreta e delimitata organizzazione istituzionale: la “religione”  - invece – no. In particolare  - ed è qui il motivo decisivo della mia obiezione alla terminologia (non alla concettualizzazione) di Dworkin – la religiosità può essere agnostica (o ‘a-tea’ nel senso di non assumere neppure come tema di indagine l’ipotesi di una qualsiasi figura divina), ma non lo può essere una religione. Quando dunque il pensatore statunitense scrive che “il filo conduttore del libro” è nella tesi secondo la quale “la religione è più profonda di Dio”  - nel senso che “credere in un dio è solo una delle manifestazioni o conseguenze possibili” della religione (p. 17) – rischia di pagare col fraintendimento l’obiettivo di essere costruttivamente provocatorio. Perché non preferire la formulazione, meno dirompente ma più comprensibile, che “la religiosità è più profonda e più estesa della fede in un Dio”?  Personalmente la troverei molto più plausibile e illuminante. Ancora di più se asserisse che “la spiritualità è più profonda e più estesa della fede in un Dio”.
     Queste modifiche (più terminologiche che concettuali, mi pare) aiuterebbero a capire che tutti gli esseri umani possono avere una “spiritualità” (nell’accezione laica, basica, naturale, che ho provato a illustrare in Mosaici di saggezze. Filosofia come nuova antichissima spiritualità, Diogene Multimedia, Bologna 2015); che una porzione di quanti vivono una “spiritualità” possono declinarla in senso “religioso” (e sono quanti accettano  - in cuor proprio e tendenzialmente nelle scelte  concrete di ogni giorno -  le leggi dell’universo e della vita, sia riconoscendo in esse una valenza divina di stampo panteistico sia ritenendo di non avere ragioni sufficienti per affermarlo); che una porzione, ancor più ristretta, di persone animate da “religiosità”, decidono di appartenere inoltre a una determinata “religione” (e dunque si riconoscono in testi sacri, in una dottrina teologica, in una liturgia canonica, in una morale ben articolata e così via).

b) Oltre l’aut-aut fra “religione” e “ateismo”: tertium non datur ?
     Se si adottasse il vocabolario che propongo, molti passaggi del libro di Dworkin diventerebbero più trasparenti e meno opinabili.
      Per esempio, là dove scrive che “diversi milioni di persone che si considerano atee hanno convinzioni ed esperienze molto simili a – e altrettanto profonde di – quelle persone che i credenti giudicano religiose. Quei milioni di persone dicono che, pur non credendo in un dio ‘personale’, credono tuttavia in una ‘forza’ nell’universo ‘più grande di noi’     (pp. 17 – 18), l’autore qualifica “atei” dei concittadini che, se credono in una “forza…più grande di noi”, non vedo perché dovrebbero considerarsi tali: sono senza “religione”, ma non senza “religiosità”. Se fossero davvero “atei” non penserebbero che “la verità morale e le meraviglie della natura suscitino, e debbano suscitare, un timore reverenziale” (p. 18). Non è un caso che Albert Einstein, dichiaratamente estraneo alla religione ebraica e a ogni altra religione istituzionale della sua epoca, abbia utilizzato proprio il sostantivo “religiosità” (e  l’aggettivo “religioso”) per autodefinirsi. E ciò proprio nella prima citazione che Ronald Dworkin riporta nel suo testo !  Leggiamo infatti questo splendido autoritratto di Einstein: “Sapere che ciò che ci è inaccessibile esiste realmente, manifestandosi come la più grande saggezza e la più grande bellezza che le nostre deboli facoltà possono comprendere solo in forma assolutamente primitiva: questa conoscenza, questa sensazione, è al centro della vera religiosità. In questo senso, e solo in questo senso, appartengo alla schiera delle persone devotamente religiose” (p. 18).  Forse la progressiva secolarizzazione della società, soprattutto occidentale, ci potrà liberare  - se avremo un po’ di accuratezza nell’uso delle parole – dall’angusto aut-aut: o credente (in senso teologico, confessionale, all’interno di una religione istituzionale) o ateo. Ho il sospetto che, fra le due sparute minoranze (pochi credenti consapevolmente aderenti a un’ortodossia e pochi atei consapevolmente negatori di qualsiasi valenza divina del cosmo fisico e morale), si estenda una vasta maggioranza di uomini e donne, lontana da ogni “religione” come da ogni “ateismo”, che coltiva una propria “religiosità” à la Einstein.

Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com


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2 commenti:

armando caccamo ha detto...

quanto mi piace ciò che scrivi, caro Augusto, e ciò che scrive Einstein! quante persone, che oggi si definiscono non religiose, agnostiche o addirittura atee, si riconoscerebbero nelle ultime due righe del tuo commento a Dworkin ? io credo molte, moltissime, quasi tutte! solo prendendone coscienza si potrebbe costituire un popolo "spirituale" dalle tante potenzialità. Armando Caccamo

Bruno Vergani ha detto...

Pur sicuramente estraneo al caso di specie non di rado tali piccoli disastri sono procurati dai traduttori.