domenica 8 ottobre 2017

LA CINA (NON) E' VICINA. SECONDO REPORT (PIU' AMPIO)

In molti, graziosamente, mi avete chiesto delle notizie sulla Cina più dettagliate rispetto al report di due mesi fa. Sono lieto di accontentarvi riportando un pezzo chiestomi dalla rivista

“Le Siciliane”
Settembre- ottobre 2017

     SOTTO IL CIELO DI PECHINO


      Grazie all’associazione interculturale di Palermo  “Casa Officina” ho potuto realizzare – in compagnia di Adriana- un viaggio in Cina abbastanza diverso dalle mere visite turistiche. Abbiamo infatti toccato non solo le mete celebri, per così dire obbligatorie (dalla Città proibita a piazza Tian’ anmen, dalla Grande Muraglia all’esercito dei guerrieri in terracotta di XI’an), ma anche zone del Paese che vedevano per la prima volta degli Occidentali – infatti venivamo fotografati molto più di quanto non fotografassimo ! – e anche piccole esperienze comunitarie sia di carattere pedagogico-didattico sia di carattere socio-economico.
      Se dovessi riassumere in una parola l’impressione globale – pur non avendo modo di giustificarla esaurientemente – ricorrerei a: “smarrimento”. Come mai?
        Il dato immediato, macroscopico, è che mi si è parato innanzi un mondo dove tutto è sproporzionato rispetto alle mie misure abituali o, per lo meno, oggettivamente colossale. Sbarchiamo a Pechino e il bus che ci preleva impiega ore per raggiungere l’albergo: già le distanze sono ciclopiche (la circonvallazione più esterna della città è di circa 900 kilometri !), cui si aggiunge il caos del traffico automobilistico (gli abitanti ufficialmente registrati sono circa 20 milioni, senza considerare i secondi geniti che per decenni non potevano essere dichiarati all’anagrafe). Ma distanze e popolazione non colpiscono quanto il numero e la mole dei grattacieli: edifici di una bellezza spesso abbagliante, che si slanciano arditamente ad altezze vertiginose che non ho mai visto in presenza (forse perché non sono mai stato a New York). Comunque popolazione e architetture di Pechino sono solo un antipasto rispetto ai 30 milioni di cittadini di Shangai e ai suoi mirabolanti edifici, tra i più alti ed eleganti del mondo.
  Una prima razionalizzazione del mio senso di disorientamento  potrei definirla di ordine ecologico. Per decenni avevo sentito affermare, e avevo qualche volta ripetuto, che i cinesi avessero il diritto di godere delle nostre comodità e dei nostri consumi di Occidentali, ma che – quando ciò si fosse avverato – il pianeta sarebbe entrato in una fase terminale. Ebbene, dopo poche ore hai la certezza che quel momento di occidentalizzazione dell’Oriente è già arrivato: che le automobili di lusso, le moto, i condizionatori d’aria, le luci notturne per ornamento o per pubblicità…sono già una diffusa, imperante, tracimante realtà. Te lo conferma il cielo di Pechino o, per essere più esatti, quella coltre di nuvole e di smog che si frappone senza fessure fra te e il cielo. Una sorta di illuminazione ti fa intuire perché molti, soprattutto fra i giovani, camminano con il viso bendato e gli occhialoni: un estremo, forse vano, tentativo di difendersi da un’atmosfera innaturale. E allora è come se vedessi, in anticipo rispetto al prossimo futuro, il panorama – surreale e inquietante – delle città che sei solito abitare.
 Quando il tuo sguardo si volge verso la quotidianità noti dappertutto i simboli della più sfacciata ricchezza capitalistica: ristoranti di lusso, banche di ogni genere, negozi del made in Italy, cellulari diffusi capillarmente. Non solo nei buffet degli alberghi la mattina, ma anche  in tutti i locali – di media categoria – in cui siamo andati a mangiare, vengono servite al centro della tavola portate gustosissime e abbondantissime: con stupore, prima, con amarezza dopo, constato che tutto il cibo che rimane viene raccolto indistintamente in sacchi di rifiuti. In alcuni ristoranti mi dicono che servono sino a seimila pasti a ogni pranzo: quanti chili di roba vengono gettati (spero, almeno, per nutrire animali)? Né la situazione è differente quando i turisti sono, o mi sembrano, indiani: il mio immaginario è fermo a quando in Italia raccoglievamo soldi per contrastare la carestia in quella zona meridionale dell’Asia, adesso vedo ospiti provenienti da quelle aree che, alla colazione mattutina negli alberghi,  riempiono i vassoi  del doppio o del triplo di quello che poi effettivamente consumano. Di contro a tanto spreco ti aspetteresti, almeno, che ciò accompagnasse la scomparsa dei casi eclatanti di miseria. Ma non è così. Né in città grandi (dove ho visto con i miei occhi rovistare tra i cestini della spazzatura per racimolare qualcosa da rosicchiare o da succhiare) né in zone naturalistiche montuose ( per i sentieri impervi della Montagna Gialla, presso Huangshan, ho visto salire e scendere uomini di varia età che trasportavano in spalla turisti e merce varia: in un caso un poveruomo – icona plastica del Nazareno sulla via del Calvario – portava sulla spalla delle travi di ferro incrociate).
Un raro, rarissimo ritratto di Mao opera come un flash e intuisci che una seconda ragione di scoramento è di ordine, per così dire, politico. Nel tuo immaginario, implosa l’Unione Sovietica e  morto Fidel Castro, la Cina popolare era rimasta l’ultimo modello alternativo al capitalismo: un modello certo criticabile, imperfetto, per molti versi crudele, comunque alternativo alla dittatura del profitto ad ogni costo. Invece non c’è neppure uno Stato sociale efficiente: mi spiegano che denti e occhi vengono curati bene solo se si ha un’assicurazione sanitaria, quasi peggio che in Italia. Un ragazzo di Berna incontrato per caso in un bar con i suoi genitori, che studia musica in Cina, frequenta i coetanei e parla bene il cinese, lo conferma senza esitazioni: “Qui non c’è un mezzo capitalismo moderato da un mezzo socialismo, c’è il capitalismo puro. Di comunista c’è solo censura e repressione, ma i giovani le sopportano sempre peggio: la Cina è una pentola in ebollizione e, se il governo non darà maggiori concessioni anche sul versante delle libertà civili, si troverà a dover fronteggiare delle rivolte destabilizzanti”. Il padre, un docente di musica classica in quiescenza, aggiunge una nota interessante: “In Italia avete ancora memoria della solidarietà sociale: per questo vi fa ancora più impressione il divario fra ricchi sempre più ricchi e poveri che restano tali”. Che la tanto sputtanata socialdemocrazia europea non sia riuscita a raggiungere risultati più modesti, ma effettivi e duraturi, rispetto ai progetti radicalmente rivoluzionari di Lenin prima, di Mao dopo?
  Sul clima di censura trovo conferma in una corrispondenza (sul mensile “Una città”, luglio-agosto 2017, p. 41) di Ilaria Maria Sala da Hangzhou, una delle città visitate anche da noi: “Ho impiegato tanto tempo a capire che questi scambi privi di qualsiasi interesse, se non quello di confermare di sapere tutti le stesse cose (<<Hangzhou è la patria del tè longjin! E’ uno dei migliori tè cinesi! Del resto, noi cinesi beviamo molto tè>>) sono anche del tutto sicuri. Non si corre alcun rischio a snocciolarsi addosso le specialità culinarie di ogni città, o nel raccontarsi fieri che le ragazze di Hangzhou e Suzhou sarebbero le più belle della Cina (che sia una frase piuttosto irritante ancora non è entrato a far parte della percezione comune). Ci si parla senza dire nulla, senza scoprirsi, senza esporsi, e senza doversi pentire dopo. Si resta all’interno di parametri di gentilezza e affabilità da tutti raccomandabili. E’ l’equivalente del parlare del tempo incontrando qualcuno in autobus o in ascensore. Ma a pensarci bene qui è un’altra cosa. A cosa servirebbe scivolare in discussioni sull’attualità, o rischiare di accennare al fatto che anche qui, nella comoda e soddisfatta Hangzhou, vengono arrestati gli avvocati che difendono i diritti civili e quelli religiosi, con uno sconosciuto? Perché mai criticare apertamente l’amministrazione locale dicendo che sì, gli slogan per la strada dicono che Hangzhou è una città verde, ma l’inquinamento è tale che non si vede il cielo, e basta un’app del cellulare a confermarlo?”. Anch’io avevo colto, qua e là, tra le pieghe di un tessuto sociale apparentemente gratificato, dei dettagli eloquenti: per esempio, sul punto di fare  dono a una guida della traduzione in cinese di un mio libretto sui siciliani, un mio amico cinese ha ritenuto opportuno pre-avvertirlo per tranquillizzarlo: “Puoi accettare, non c’è nulla contro il Partito né contro il Governo”.
   Insomma, se il progetto di Marx era attraversare il capitalismo maturo per arrivare al socialismo (nell’accezione di dittatura statalista del Partito) prima, e al comunismo (inteso come abolizione dello Stato e piena autodeterminazione popolare) dopo, tutto si sta svolgendo come se la Cina stesse attraversando il socialismo per arrivare al capitalismo maturo. Con buona pace, definitiva, della meta finale comunista.
    Ovviamente in quindici giorni, per quanto intensi,  ci si può fare un’immagine monca se non addirittura errata. Dei segnali in controtendenza ci sono: per esempio a Shangqiu abbiamo potuto incontrare i promotori di un villaggio autogestito che, con l’incoraggiamento anche finanziario del Governo, stanno provando a costruire uno spazio di condivisione produttiva, di uguaglianza remunerativa, di pulizia ecologica e di recupero dell’antica cultura cinese. Ci è stato presentato, tra gli altri, un giovane laureato che aveva preferito vivere questa scommessa civica con 10 euro al giorno piuttosto che restare immerso nello smog e nella frenesia della città a 40 euro.
   Non so se si deve a questo strano mix di socialismo reale (in cui lo Stato ti assicura un lavoro, ma pretende che lo svolga con diligenza) e di capitalismo galoppante (cui conviene che tutti i cittadini abbiano un reddito mensile che gli consenta di trasformarsi da parassiti disoccupati in clienti-consumatori delle immense quantità di merci prodotte), ma un dato è evidente: gli spazi pubblici  - dagli angoli delle strade ai gabinetti, dai musei ai parchi - sono gestiti a meraviglia. Ogni centimetro è affidato a un soggetto che lo deve mantenere costantemente pulito ed efficiente: per chi vive in una Sicilia dove tutto è sporcato, inquinato, incendiato, ma nessuno responsabile, davvero un altro mondo! Ma forse non è il caso di scomodare le ideologie moderne: prima che comunisti o capitalisti, qui si è confuciani e si sa che il senso della vita individuale è adempiere con precisione i propri doveri e dedicarsi all’armonia del Tutto.


Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com

2 commenti:

Biuso ha detto...

Ribadisco, caro Augusto, il mio interesse e l'apprezzamento per una cronaca capace di restituire un mondo così lontano e soprattutto le sue stridenti contraddizioni.

Maria D'Asaro ha detto...

Grazie per il tuo sapiente reportage, che collima con quanto osservato da turisti cinesi di mia conoscenza ...