mercoledì 1 gennaio 2020

COME ABBIAMO FATTO A RIDURCI COSI' ALL'INIZIO DEL TERZO DECENNIO DEL XXI SECOLO?


“Dialoghi mediterranei”
1.1.2020

Tra gli errori pedagogico-didattici che si perpetrano, in perfetta buonafede, è l’evidenziare quelle idee “classiche” che risuonano familiari alla sensibilità contemporanea. Così, per legittimare lo studio della letteratura greca o della filosofia romana, riprendiamo volentieri i passaggi di un Omero o di un Cicerone che “sembrano scritti oggi”. Qualche volta, però, ci sono studiosi più riflessivi che agiscono esattamente al contrario: cercano, nei testi del passato, quelle tesi che sono tanto più preziose quanto meno condivise dal senso comune dominante. Certo, si possono ripescare teorie obsolete per gusto archeologico: un hobby meno nocivo di tanti altri, tranne per gli alberi quando si decide di pubblicarle senza ricorrere ai formati elettronici. Ma si può ricercarle e rimetterle in circolo per rispondere a domande pressantemente contemporanee, in alternativa a teorie molto più di moda ma non altrettanto illuminanti. 
  In questa seconda schiera di studiosi – e educatori – si pone consapevolmente Fabio Bentivoglio in un suo recente libro spudoratamente anacronistico: Giustizia, limite, identità. Per un fondamento filosofico (Accademia Vivarium Novum, Montella 2019, pp. 217). Egli, infatti, parte da una questione di estrema attualità e prova a chiedere lumi ad alcuni grandi nomi della filosofia occidentale.
   La questione di partenza è tragicamente sintetizzabile in una domanda: come mai noi terrestri ci siamo ridotti così?  

Diagnosi di un pianeta impazzito
   Per illustrare la situazione di un’umanità che corre verso l’autodistruzione, l’autore si basa su tre diagnosi. La prima è di uno storico, Piero Bevilacqua, che in Miseria dello sviluppo (Laterza, Bari-Roma 2008, pp. 9 – 10) scrive:

       E poiché fa parte dell’intelligenza di un’epoca comprendere per tempo
       quando la storia muta il suo corso, gran parte dei problemi presenti
       derivano dal fatto che la nostra non l’ha ancora compreso. […] L’economia
       […] non solo ha considerato il sistema sociale e i suoi processi come
       indipendenti da ogni fondamento naturale. E’ andata oltre: non ha avuto
      alcuna percezione delle connessioni profonde che legano il mondo vivente
     in equilibri, fragili e delicati. Essa ha proceduto separandosi dalle altre
     discipline che si occupano della natura… (cit. a p. 33).

     La seconda diagnosi è di una coppia di epidemiologi britannici, autori di La misura dell'anima. Perché le diseguaglianze rendono le società più infelici (tradotto in italiano dalla Feltrinelli) in cui – come sintetizza Bentivoglio – i due studiosi dimostrano, con una gran mole di dati, che “le società che non pongono limiti alle disuguaglianze si trovano ad affrontare tassi più elevati di malattie mentali, abuso di droghe e ogni sorta di altri problemi. E hanno bisogno di più forze di polizia e strutture carcerarie. La disuguaglianza incrina la vita comunitaria e mette a rischio l’equilibrio psichico e la salute della persona” (p. 32).

     La terza diagnosi è di un economista, Serge Latouche,  che – come ricorda egli stesso nella Prefazione a questo stesso volume – ha sin dai primi scritti avanzato critiche radicali “all’economia come disciplina e come pratica”, al punto da dichiarare “necessario abbandonare l’economia, attraverso una mutazione antropologica, la decolonizzazione dell’immaginario, per riscoprire il senso della misura” (p. 15). 

 

Platone o la giustizia come Bene assoluto

  Per tentare di invertire – ammesso che si sia in tempo – questa folle corsa dell’umanità verso il baratro, Bentivoglio richiama tre geni del pensiero occidentale. Il primo è Platone che presta al suo personaggio letterario Socrate la “metafora dell’anima come orcio integro e come orcio forato”: “gli orci dell’uomo saggio e ordinato sono integri, mentre quelli dell’intemperante e dissoluto sono forati, e perciò quest’ultimo è costretto a riempirli di frequente” (p. 46). Quale dei due uomini avrà vita più felice o, per lo meno, più serena? 

 

     L’anima come orcio bucato è l’anima che non sa trattenere la gratificazione

   che deriva dai piaceri che sperimenta, ed è quindi sempre spinta alla ricerca di

     nuovi piaceri nel tentativo di ottenere una pienezza che però non riesce mai

ad afferrare, perché ogni volta la dinamica del desiderio la rende irraggiungibile.

     L’anima come orcio integro è l’anima che sa ‘trattenere’ i piaceri, cioè sedimentare nella propria interiorità il valore di ciò che sperimenta; è proprio attraverso questo  processo di sedimentazione interiore conservato attraverso la memoria che costituisce il valore e il significato della nostra esistenza. La ‘felicità’ consiste allora in questa capacità dell’anima di vivere consapevolmente il piacere conservandone attivamente la memoria: la condizione perché ciò sia possibile è che l’anima sia ‘integra’ (l’orcio integro, appunto) e l’integrità dell’anima si chiama armonia (pp. 46 – 47). 

 Ma, dal momento che essa si dà quando ogni istanza rispetta i limiti delle altre, cos’è l’armonia se non un altro nome della giustizia? Vale a dire di quella forma (eidos) che mantiene nella misura opportuna la dialettica fra l’uno e i molti, sia nel microcosmo costituito dalla nostra psiche che nel cosmo costituito dalla nostra città? Allora la giustizia non è più intesa come produzione convenzionale di regole prodotte dai cittadini di volta in volta al potere, ma come un altro nome del Bene; vale a dire dell’invisibile Fondamento assoluto di ogni verità e di ogni valore che solo uno sguardo speculativo riesce a intuire attraverso, e al di là,  della caotica esperienza storica (e, potremmo aggiungere oggi, delle imprevedibili catastrofi naturali). Un società che elegge, o subisce, governi incapaci anche solo di pensare la correlazione dialettica fra il Tutto e le parti, fra l’Uno e il molteplice, si condanna da sola o alla dittatura totalitaria (che nega i diritti individuali)  o alla disgregazione atomistica (ignara della costitutiva tensione verso un centro unificante). 

 Aristotele o la razionalità del limite

  Il secondo genio filosofico a cui Bentivoglio si rivolge per decifrare il caos dell’umanità attuale è Aristotele. Del pensatore greco l’autore non tace molti difetti, a partire dal modo in cui concepiva il “senso comune”: all’opinione tradizionale della maggioranza dei “saggi” egli ha più volte assoggettato il libero esercizio della ragione, per esempio quando ha teorizzato la condizione “naturale” degli schiavi e ha fatto ricorso ad argomenti davvero bizzarri per difendersi dalle obiezioni in proposito. Tuttavia documenti come la recente enciclica di papa Francesco, Laudato si, attesterebbero la validità di alcune intuizioni aristoteliche considerate per secoli inattuali. Nella Metafisica (XII, 10, 1075 a) si legge:

 

        E tutte le cose – pesci, uccelli e piante – sono ordinate insieme in un certo modo, ma non nel medesimo modo; né si trovano in uno statotale che non ci sia alcun rapporto tra una cosa e l’altra, ma esiste tra tutte le cose una certa connessione.

     Siamo “agli antipodi della moderna concezione della Natura intesa come risorsa illimitatamente manipolabile […] perché la sua filosofia si caratterizza per la tensione ideale a cercare un’architettura di senso permanente del cosmo. La scienza, per Aristotele, è riproduzione di un ordine concreto delle cose, non nei suoi aspetti accidentali, ma sostanziali” (pp. 85 – 86). 

     Queste teorie ontologiche e cosmologiche hanno già in Aristotele stesso delle corrispondenze molto concrete sul piano operativo: se nella natura troviamo una “armonia”, progetti e azioni da parte dell’essere umano ne devono tener conto come un “fine” e come un “limite” (dal momento che, in Metafisica II, 2, 994, b, 15, si dice: “Chi è fornito di intelligenza agisce sempre in vista di qualcosa, e questo qualcosa è un limite: infatti fine e limite si identificano”). Anche dalla prospettiva dell’economia: come ricorda Latouche,  nella Prefazione, lo Stagirita “percepisce la perversione dell’oiconomia in chrematistiché, cioè il passaggio dalla gestione della ricchezza da buon padre di famiglia, all’arte dell’accumulazione illimitata. La logica della crematistica è la stessa dell’anatocismo. Esteso alla polis, in una crematistica politica, quale si delinea in Senofonte, abbiamo la Crescita in senso moderno” (p 14). 

 

Hegel o il paradosso dell’identità tramite merci

    Il terzo pensatore, per molti versi meritatamente rimosso dai circuiti intellettuali, in cui Bentivoglio trova però, anche, chiavi di lettura illuminanti delle aporie della società contemporanea, è l’autore de La fenomenologia dello Spirito, nella quale

       con incredibile anticipo sui tempi Hegel ha colto come nella moderna

       società borghese – che con un processo rivoluzionario ha rotto i ponti 

       con il passato e la tradizione feudale – il consumo dei beni diventi luogo

       di convergenza e di sintesi di due diverse istanze che si alimentano a vicenda.

       Per dirla con il linguaggio contemporaneo, da un lato l’istanza del capitalismo

       di aumentare incessantemente la scala della produzione e della crescita dei

       consumi necessaria alla realizzazione e quindi all’accumulazione del profitto,

       dall’altra l’istanza esistenziale della persona che, in un contesto in cui è venuto meno

       ogni orizzonte di senso che dia significato all’esistenza umana (compito 

       tradizionalmente assegnato alle religioni) e in cui è venuto meno ogni ruolo

       derivante dall’appartenenza comunitaria (di villaggio, di nascita…), cerca un

       riconoscimento identitario sul terreno del consumo delle merci: ma una ricerca

       identitaria attraverso il consumo di merci alimenta a sua volta la produzione di

       merci in un rimando senza fine (p. 132).

Ma comprare una merce può darci un ‘tono’, una reputazione sociale, solo sino a quando tale merce perdura. Dal momento che le aziende si sono ormai attrezzate per sfornare oggetti a “obsolescenza programmata” (p. 138), è necessario convincere i consumatori a comprare sempre di nuovo gli stessi prodotti (appena ritoccati in qualche dettaglio che si presume, ma non sempre lo è davvero, migliorativo dal punto di vista funzionale o estetico). Tale opera di convincimento “all’acquisto compulsivo” (p. 136) è affidata al sistema pubblicitario, il secondo settore nel mondo per fatturato dopo le industrie militari. Come spiega lo storico Bevilacqua (citato a p. 139), tale macchina è stata avviata agli inizi del XX secolo, quando gli imprenditori statunitensi si accorsero che “le capacità produttive delle loro fabbriche erano di gran lunga superiori alla domanda dei potenziali consumatori”:

 

           Occorreva dunque fare qualcosa. Bisognava, nientedimeno, trasformare

           la spiritualità, il modo di pensare, lo stile di vita di milioni di individui:

           entrare nella loro anima e orientarla in maniera diversa, tormentarla con

           nuovi bisogni. […] Un dirigente della General Motors, la potente

           industria automobilitsica…comprese e agitò allora un principio

           fondamentale. Egli sostenne apertamente che “la chiave della

           prosperità economica è la creazione organizzata dell’insoddisfazione”.

           Il nuovo compito dell’imprenditore non era solo quello di produrre

           merci, ma anche di creare il “consumatore insoddisfatto”.

 

Insomma, per dirla con Latouche, è diventato sempre più urgente abbinare all’obsolescenza reale, creata dalla tecnologia, “un’obsolescenza psicologica” (p. 140).

Bentivoglio ritiene che, alla radice di questo ciclo perverso di produzione-pubblicità-consumo – nel quale domina incontrastato il dominio della tecnica e noi uomini, secondo la formula di Shoshana Zuboff, da “soggetto della nostra vita, oggi siamo diventati un oggetto” (p. 141) -, vi sia la “contraddizione nell’individualismo che si afferma con la moderna società borghese” (p. 147) colta lucidamente da Hegel: un individualismo che, dopo “aver finalmente liberato la soggettività da ruoli precostituiti e da tradizioni opprimenti” (come avveniva nel Medioevo e per tutto l’Ancient Régime), ha però “declinato la <<realizzazione di sé>> con modalità tali da distruggere l’identità individuale anziché realizzarla” (p. 148). Infatti – con le parole di Hegel – l’essenza dell’individuo borghese è “un Sé che è immediatamente se stesso nel suo essere qualcosa di assolutamente altro”; che, tradotto dal filosofese, significa che ciascuno affida la propria identità a quei prodotti che possano renderlo gradito agli altri. Con una impressionante sequenza di citazioni da un manuale universitario di marketing, Bentivoglio mostra come ciò che Hegel (e poi Marx) denunciavano come patologia viene oggi presentato come fisiologia: “La tendenza a collegare la propria identità con acquisti e consumi ha dato vita a fenomeni sociali di grande interesse per il marketing, come quello delle brand community: gruppi di consumatori che si riconoscono intorno a un brand e sono accomunati dalla stessa passione per i prodotti ad esso relativi” (il passo, da D. Dalli – S. Romani, Il comportamento del consumatore. Acquisti e consumi in una prospettiva di marketing, Franco Angeli, Milano 2003, è citato a p. 153). 

   L’autore non esita a definire “nichilismo” questo esito

 

              logicamente inscritto in una società che si è consegnata ad una

              economia asociale completamente autoreferenziale, nel senso di 

              distaccata da tutte le altre istanze sociali, simboliche e relazionali, 

              perché risponde solo all’inderogabile postulato dell’aziendalismo 

              secondo cui la sola produzione economica è quella che combina 

              valori di scambio a scopo di profitto. L’apparato economico si è reso

              totalmente autonomo da bisogni, scopi e valori delle altre forme di

              organizzazione collettiva e non deve rispondere degli effetti che produce 

              su di essa e sulla Natura (pp. 154 – 155).

 

Se non si penetra con l’analisi sino a queste profondità, molte manifestazioni di protesta giovanile contro l’inquinamento planetario rischiano di restare più sintomatiche di un disagio che portatrici di un cambiamento:

 

                 se si accetta la religione della crescita con il suo corredo

                 di dogmi circa l’inevitabilità dello “sviluppo” e del

                 potenziamento illimitato della tecnica, ogni critica e

                 denuncia degli effetti perversi, sociali e ambientali,

                 rimane parola vana (p. 155).

                

Possibili perplessità a margine

    Da queste poche note di evince che l’operazione di Fabio Bentivoglio mi convince: “far emergere dalle profondità del pensiero  di questi tre giganti della filosofia occidentale strumenti concettuali la cui potenza esplicativa, anche rispetto alla realtà contemporanea, è stupefacente”; non perché se ne condividano tutte e singole le tesi, ma perché rileggere le loro opere può “riattivare la sensibilità verso altri modi di pensare e giudicare l’esistente, consentendo di non rimanere prigionieri del proprio orizzonte storico” (p. 19).
    Sappiamo bene che, quando si tentano queste operazioni culturali di inspirazione etico-pedagogico-politica  si alza sempre lo specialista di questo o di quell’autore (anzi,  spesso, neppure di un autore nel suo complesso, ma di un’opera specifica) per sollevare questioni ermeneutiche e/o esegetiche. Ma, per evitare di spargere molliche, l’alternativa sarebbe evitare di mangiare e restare digiuni (come avverrebbe davvero se a scrivere di filosofia fossero i megaspecialisti del microtesto).  Convinto di queste difficoltà oggettive, dunque, è con estremo rispetto che esprimerei qualche perplessità di dettaglio suggeritami dalla lettura del coraggioso volume.
     A proposito di Platone si legge che “la dimensione Uno-Bene-Giustizia non va pensata come trascendente la realtà storico-sociale dell’uomo, ma come suo immanente principio regolativo” (p. 69): ma è fedele all’intentio platonica questa concezione solo immanentistica delle ‘idee’ o sarebbe più opportuno scrivere che esse sono anche nel contesto del mondo umano? Probabilmente la risposta dipende dall’accettazione o meno di una interpretazione per così dire neo-kantiana delle ‘idee’ secondo Platone. Infatti, alcune pagine prima, l’autore aveva asserito che “la teoria delle idee” “assegna al pensiero una enorme dignità, perché è il pensiero che definisce i criteri di giudizio dell’esistente, e pertanto è l’esistente che si misura su certi parametri del pensiero e non viceversa”. In questo senso, “il linguaggio-pensiero (il logos) ha una funzione organizzativa e costitutiva della realtà” (p. 37). A me pare che questa lettura sia troppo antropocentrica e, dunque, troppo poco greca: ciò che misura l’esistente (o la realtà) non sono le idee intese come categorie della mente umana, ma come essenze eterne di cui la mente umana ha soltanto una memoria sbiadita dallo choc della nascita biologica su questa Terra. Detto altrimenti: diciamo pure che le nostre ‘idee’ mettono ordine nell’esistente, ma non dobbiamo subito aggiungere che ciò possono  solo in quanto rispettano l’ordine ‘metafisico’ delle ‘idee’  extra-mentali?
   Anche su Aristotele mi è sorta qualche domanda. Per Bentivoglio, chiedere ragione del movimento eterno constatato nel mondo empirico significherebbe che lo Stagirita  entri in “contraddizione rispetto ai presupposti teorici” della sua stessa filosofia- cioè rispetto al proposito di cercare “le cause della realtà empirica” (p.129). A me non sembrerebbe, ma capisco che – seguendo la prospettiva kantiana – questa critica risulta inevitabile. Personalmente vedrei piuttosto la debolezza dell’impianto aristotelico nell’idea che l’universo si muova ciclicamente, dunque senza progressi e senza regressi,  mentre oggi la cosmologia ci attesta che esso o si evolve (in alcune zone e per alcuni periodi) o si degrada (in altre zone e per altri periodi). Se il divenire fosse solo o ciclico o evolutivo, cercarne una Causa prima non mi sembrerebbe tanto insensato.
       La trattazione su Hegel, infine, mi ha sollevato una obiezione. Dalle pagine di Bentivoglio sembrerebbe che dai suoi tempi a oggi sia intervenuta una vera e propria mutazione antropologica: “la progettualità trasformativa, espressione della vera libertà dell’uomo, si è capovolta nel suo opposto diventando progettualità adattiva, tratto distintivo degli animali” (p. 154). Se questa fosse la tesi dell’autore, ne dissentirei. Infatti mentre la situazione di oggi è effettiva, sociologicamente rilevabile (la maggior parte di noi, per la maggior parte del tempo, pensa a come adeguarsi alle aspettative sociali su di lui/lei), la condizione illustrata da Hegel (“una soggettività che realizzava sì se stessa, ma nella misura in cui realizzava e creava nuova realtà e vero progresso umano”, ivi) non costituiva la fotografia di una situazione storica bensì un ‘ideale’, un modello verso cui tendere. La verità della osservazione di Bentivoglio, a mio sommesso avviso, sta comunque nel fatto che qualcosa di statisticamente, empiricamente, concretamente effettivo ha luogo quando l’universo simbolico e concettuale di un’epoca cede il passo all’universo simbolico e concettuale di un’altra epoca: come nel caso in cui gli intellettuali smettono di indicare come esemplare antropologico un essere umano figlio della storia precedente (e nello stesso tempo protagonista della storia in atto) e iniziano a teorizzare come modello inevitabile un essere umano prodotto,  e a sua volta rotella, del meccanismo tecnologico.

Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com

3 commenti:

ontologie ha detto...

Caro Augusto continuo a non capire com’è che pochi o nessuno osi rispondere ai tuoi stimoli che, come in questo caso, sono preziosi, mirati e accattivanti. Io avrei da “scavare” di tutto e di più, ma mi sento in soggezione al tuo cospetto, oltre che una mosca bianca, per cui non azzardo o almeno non posso farlo sempre. Quel che mi dispiace è che cotante tue critiche e approfondimenti vadano persi. Che spreco. Buon anno maestro.

Ph ha detto...

Caro Augusto,
ritrovo in questo articolo tutto il piacere delle tue lezioni di storia della filosofia al liceo.

Augusto Cavadi ha detto...

Lusingato del tuo commento, caro PH. Mi sveleresti pure la tua identità affinché il mio giubilo sia pieno ?