martedì 2 aprile 2024

C’E’ AUDACIA E AUDACIA: IL DIFFICILE EQUILIBRIO TRA RASSEGNAZIONE E FANATISMO


“Frontiere della scuola”

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In molte imprese ci vuole coraggio: forza interiore nel vincere la paura – specie quando è giustificata oggettivamente – e nell’attuare sino in fondo i propri propositi. Quando il coraggio si esercita non più nell’ambito del noto, dello sperimentato, ma dell’ignoto, dell’inedito, si colora di venature particolari: diventa audacia. Si tratta di una qualità positiva, di una virtù? Di per sé è preferibile alla vigliaccheria, all’accontentarsi timoroso di chi rimane rintanato nella propria cuccia e si abbarbica alla banalità del conformismo e del tradizionalismo. Ma, come ogni virtù, l’audacia non è un valore assoluto. Dipende infatti dal lasciapassare della prudenza, della saggezza, del saper vivere.

Audacie sconsigliabili

Senza, o contro, l’approvazione del buon senso (che non coincide con il senso comune!), l’audacia rischia di degenerare in temerarietà, in velleitarismo. Lo sprezzo del pericolo diventa sprezzo del ridicolo: l’ammirazione lascia il posto alla commiserazione. Se uno perde la libertà o la salute o la vita stessa in tentativi puramente esibizionistici, o comunque non funzionali al miglioramento della vita propria e/o comune, non merita alcuna gratitudine. Al massimo, un accenno di compatimento. I meriti dell’audace sono una variabile dipendente dalla consistenza etica e dalla condivisibilità sociale dei fini in vista dei quali egli agisce. La storia di ieri e la cronaca dei nostri stessi giorni pullula di audaci di cui avremmo fatto volentieri a meno: specie quando mettono a repentaglio la propria vita nel tentativo, cieco e spietato, di eliminare la vita altrui.

L’elenco delle audacie fuori luogo, controproducenti, sconsigliabili sarebbe interminabile. Quanti miliardi di persone hanno sacrificato benessere e affetti, persino la sopravvivenza biologica, per obbedire a capi politici ambiziosi? Per ottemperare agli ordini insani di strateghi militari? Per diffondere ideologie sono molto parzialmente lucide? Per verificare prematuramente, in concorrenza con la comunità scientifica, ipotesi teoriche e apparecchiature tecnologiche? Per raggiungere nell’aldilà paradisi improbabili promessi da sedicenti profeti dissennati? I cimiteri sono zeppi di audaci tra i quali non è facile distinguere i benefattori dell’umanità dagli assassini presuntuosi, spesso prime vittime della loro insipienza. Infatti i più pericolosi fra gli spericolati sono i soggetti, i gruppi, le associazioni in buona fede: a differenza dei delinquenti che sanno di delinquere, solo in casi rarissimi i fanatici sono in grado di ricredersi. Il monito di Gaetano Salvemini non ha perduto d’attualità: “Chi è convinto di possedere il segreto infallibile per rendere felici gli uomini, è sempre pronto ad ammazzarli” (ho contestualizzato questa frase nel mio La bellezza della politica. Attraverso e oltre le ideologie del Novecento, Di Girolamo, Trapani 2011, p. 31).

Audacie auspicabili

Ci è toccato di vivere un’epoca di amare delusioni collettive. Ci sentiamo traditi da troppe strategie imperialistiche, da troppe offerte di felici immortalità biologiche, da troppe chiese infallibili solo nel pronunziare dogmi e precetti che, puntualmente, si rivelano insostenibili. Abbiamo verificato la tragica verità dell’espressione di Paul Claudel: “Chi cerca di realizzare il paradiso in terra, sta in effetti preparando per gli altri un molto rispettabile inferno”. Il variegato mondo dell’informazione ci squaderna sotto gli occhi una quantità di dolori, di ingiustizie e di sofferenze, sproporzionatamente al di sopra della nostra capacità di sopportazione emotiva. Il cuore non regge e sprofondiamo nel sentimento paralizzante dell’impotenza. Ogni abbozzo di coraggio, di ribellione, di progettazione alternativa viene soffocato sul nascere. L’audacia non ha il tempo di essere soppesata dalla prudenza: muore già in culla.

In gioventù la mia generazione ha conosciuto la speranza (in parte illusoria, in parte fondata) che dove non arrivava l’individuo potesse arrivare il collettivo: il sindacato o il partito politico e – attraverso questi organismi – il governo nazionale e le organizzazioni internazionali. Ma, dagli anni Ottanta del XX secolo, la fiducia in questi canali di partecipazione è crollata: la politica, liberatasi allegramente dalle remore dell’etica, si è trovata indifesa davanti ai tentacoli dell’economia (liberistica). Ci si guarda intorno smarriti né la voce isolata di un papa (in alcuni casi persino ‘audace’) può costituire più di un faro nella notte: anche se l’ecologia valesse bene una messa, neppure un cattolico può far finta di poter contare sull’accordo unanime dei suoi confratelli né escludere che con il decesso di questo pontefice la sua Chiesa ritorni al moderatismo equilibrista precedente.

In queste contingenze storiche non resta – secondo il detto orientale – che accendere una candela piuttosto che maledire l’oscurità. Come i giovani tedeschi della “Rosa Bianca” per i quali fare politica sotto la dittatura nazista era ancora più necessario proprio perché ogni speranza ragionevole era stata brutalmente cancellata dall’orizzonte.

Ma si tratta di fare appello soltanto, o principalmente, allo sdegno emotivo? Alla protesta viscerale? All’insopportabilità dell’assurdo?  Per alcuni sarà sufficiente (anche a costo di saltare dalla passività rinunciataria al fanatismo iperattivo).  Altri, invece, abbiamo bisogno di ragioni convincenti. Come le considerazioni del poeta Edgar Lee Masters che fa confessare a George Gray, un protagonista della sua Spoon River Anthology, le conseguenze amare della propria viltà. George, in vita, ha preferito l’inazione al rischio di fallire: ma adesso, da morto, capisce che proprio la tiepidezza inerte è il più sicuro e disastroso dei fallimenti. Infatti: “l’amore mi si offrì e io mi ritrassi dal suo inganno;/ il dolore bussò alla mia porta, e io ebbi paura;/l’ambizione mi chiamò, ma io temetti gli imprevisti./ Malgrado tutto avevo fame di un significato nella vita./ E adesso so che bisogna alzare le vele/ e prendere i venti del destino,/dovunque spingano la barca./ Dare un senso alla vita può condurre a follia/ ma una vita senza senso è la tortura/dell’inquietudine e del vano desiderio -/ è una barca che anela al mare eppure lo teme” (la traduzione einaudiana è di Fernanda Pivano).

In questo scenario, l’audacia auspicabile acquista il volto della resilienza. Più che gesti clamorosi di leader carismatici – ben vengano nuovi santi, nuovi eroi ad accendere l’immaginario collettivo in letargo, purché senza pose da prime donne ! – servono piccole comunità che preservino alcuni tesori dalla vandalizzazione dilagante. Servono team affiatati che, senza invidie né gelosie, osino scommettere su una società ragionevole pur nell’epoca dell’irragionevolezza: osino sapendo che l’improbabile, qualche volta, accade. Maurizio Pallante ed altri in Italia lavorano da tempo per costruire “monasteri laici” dove sperimentare forme di spiritualità post-religionaria (cfr. Monasteri del terzo millennio, Lindau, Torino 2015) . Annibale Raineri, con altri discepoli di Lanza del Vasto, è impegnato nella costruzione di “arche” – modeste barchette – per ospitare chi desideri salvarsi dal diluvio e trasmettere alle generazioni future la memoria di un’umanità sobria, solidale, pacifica, equa, rispettosa dei viventi e dell’intero cosmo (cfr. Ancora. Cambiare il mondo nel tramonto della politica, Navarra, Palermo 2022). Servono – se non si tratta di ossimori irrealizzabili – il coraggio della pazienza e l’audacia della lungimiranza.

Magari tra pochi secoli risulterà l’inutilità di tutto questo perché l’umanità, dopo aver compromesso irreversibilmente l’equilibrio dell’ecosistema, si suiciderà sotto una pioggia di bombe atomiche. E’ un’ipotesi che solo gli osservatori superficiali possono escludere. Se, malauguratamente si dovesse realizzare, avremmo la prova che – a causa di maggioranze idiote - non è sempre vero che la fortuna soccorra gli audaci.

Augusto Cavadi

www.augustocavadi.com

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