venerdì 29 marzo 2024

Franz Jägerstätter, obiettore di coscienza alla guerra nazi-fascista

 

E. Putz, Franz Jägerstätter. Un fulgido esempio in tempi bui, Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2023, pp. 209, euro 16,90

 

In tutti i periodi bellici – e purtroppo a ottant’anni dalla fine della II Guerra mondiale sul pianeta non ci sono stati ancora periodi non bellici – la maggioranza della popolazione ritiene ovvio (non solo più comodo, ma perfino più giusto moralmente) adeguarsi alle decisioni dei rispettivi governi in carica e imbracciare le armi. Solo sparute minoranze, prima di obbedire agli ordini, ritengono lecito – anzi, doveroso – pensare. E giudicare se la guerra a cui dovrebbero partecipare sia una guerra di difesa da invasori ingiusti (e, in questa ipotesi, se la difesa armata sia la più efficace)  oppure una guerra aggressiva, scatenata per motivi imperialistici.

Anche durante il nazifascismo tedesco (1933 – 1945) la maggioranza della popolazione accettò come sacrosanta la politica di Hitler e dei suoi sadici collaboratori e solo una piccola, ma significativa, minoranza espresse un rifiuto netto e argomentato. Fra questi obiettori di coscienza rientra il contadino austriaco Franz Jägerstätter (1907 – 1943) che, benché marito innamorato e padre affettuosissimo di tre bambine, a soli 36 anni accettò la ghigliottina pur di non tradire la sua coscienza civile (di austriaco) e religiosa (di cattolico). Lo scrivono gli stessi giudici della sentenza di condanna a morte: “Era giunto alla convinzione che, come cattolico credente, non potesse prestare servizio militare: non poteva essere contemporaneamente nazionalsocialista e cattolico: ciò era impossibile” (p. 177).

Questa motivazione teologica, che alle orecchie di molti di noi contemporanei potrebbe suonare laudativa, nell’intenzione dei magistrati meritava di essere sottolineata in quanto aggravante che legittimava l’indifferibilità della pena capitale: infatti, dal momento che la maggioranza degli austriaci si dichiarava cattolica, la decisione di Jägerstätter si sarebbe potuta rivelare pericolosamente contagiosa. Il renitente alla leva  (per quanto disposto a prestare servizio nei settori sanitari), già isolato dalla maggioranza dell’episcopato, del clero e dei correligionari della sua nazione, andava stroncato al più presto. La strategia sembrò ottenere risultati talmente efficaci che, ancora per decenni dopo la fine del conflitto mondiale, la Chiesa cattolica (austriaca, ma non solo) si adopererò per evitare che la vicenda del suo eroico figliolo venisse conosciuta. Prevalse il timore (fondato!) che “i reduci di guerra avrebbero domandato perché mai la Chiesa non avesse detto loro in tempo che i veri eroi sono coloro che non combattono” (p. 167). Si sarebbe dovuto fare apertamente autocritica, chiedere perdono per un atteggiamento talmente cauto da rivelarsi pavido; ma, “chiaramente, non si voleva perdere la faccia in questo modo” (ivi). Fu necessario, dopo un travagliato iter, attendere la messa per il 40° anniversario dell’assassinio di Jägerstätter (1983) perché il nuovo vescovo della sua diocesi di appartenenza (Linz) lo presentasse  come “un autentico esempio di vita cristiana e questa volta senza più tentennamenti né riserve” (p. 171). Solo nel 2007 la Congregazione vaticana delle cause dei santi riconoscerà il martirio di Franz, “aprendo così la strada alla beatificazione” (p. 172), celebrata nello stesso anno. La sua testimonianza, nella misura in cui non viene relegata a vicenda eccezionale di un credente illuminato da ammirare più che da imitare (come sostenne il vescovo Fließer, p. 162), “ pone in crisi” – come scrive, nella sua incisiva Postfazione,  Sergio Tanzarella – “qualsiasi giustificazione dell’area grigia della società che, allora come ora, non partecipa al male ma lo permette restando semplicemente anonima spettatrice” (p. 193).

Tra le numerose sollecitazioni che questa storia affascinante suscita in noi credenti del XXI secolo vorrei sottolinearne una. Franz Jägerstätter è stato sostenuto da una fede forte, essenziale, ma tutta interna a un orizzonte cattolico tradizionale (oggi diremmo ‘religionale’ e ‘teistico’): nei momenti di sconforto, egli si aggrappa alla certezza di un giudizio immediato di Dio subito dopo la morte; all’idea di incontrare Gesù risuscitato e la sua Madre; alla interpretazione letterale dei moniti evangelici di preferire la volontà di Dio ai legami familiari più cari in questo mondo…Che faremmo oggi, al suo posto, noi credenti che, per amore della verità (per quanto sinora accessibile), abbiamo dovuto rinunziare al conforto di una “religione” che prescrive, sin nei minimi dettagli, ciò che è giusto e ciò che è sbagliato in questa vita e che anticipa, “infallibilmente”, cosa ci attende dopo il nostro decesso biologico? Troveremo, anche in uno scenario ‘de-mitizzato’, le ragioni e la forza esistenziale per opporci all’Ingiustizia? Sarà una sfida impegnativa. Potremo rimpiangere le fasi della nostra vita in cui – come per il contadino austriaco – nessuna sofferenza veniva considerata vana dal momento che Dio stesso la conservava nella sua infinita memoria a nostro credito; ma ci potrà consolare della perdita dell’antropomorfizzazione del Divino l’idea che, forse, proprio questa perdita ci avvicina al Gesù della storia: lo stesso che ha sudato sangue nell’orto e ha urlato sulla croce l’angoscia dell’abbandono. Il rinnovato senso del Mistero ci priva di preziosi supporti psicologici e di ambigue illusioni trionfalistiche, costringendoci a seguire i dettami della coscienza ‘laicamente’, senza né promesse di paradisi né minacce di inferni. Una coerenza di questo genere sarà meno protetta dalle garanzie della “religione”, ma animata da una “fede” più autentica perché più ardua.

Augusto Cavadi

www.augustocavadi.com

“Viottoli”, 2023 /2