martedì 12 febbraio 2008

IL VESCOVO SCOMPARSO DI MONREALE


Repubblica – Palermo 12.2.2008

IL DIALOGO DI DON NARO

Non capita spesso che la morte di un prelato susciti cordoglio sincero in ambienti laici e, addirittura, ecclesiastici. Così è avvenuto lo scorso anno per Cataldo Naro, giovane arcivescovo di Monreale, stroncato da un infarto a meno di quattro anni dall’insediamento in una delle cattedre episcopali più prestigiose, ma anche più faticose, della Sicilia. Al di là dell’emozione per una vicenda umanamente toccante, resta la domanda più radicale: chi era, e che cosa ha lasciato di rilevante in eredità, questa figura di prete e di studioso?

Al tema sarà dedicato un incontro nella Parrocchia di S. Pietro a Caltanissetta (venerdì 21, ore 18) e sarà l’occasione per discutere anche il più recente volume postumo (Torniamo a pensare), pubblicato dall’editore Sciascia, in cui sono raccolti interventi, relazioni e interviste dal 1998 al 2006.
Molti di questi materiali hanno un interesse, per così dire, interno al dibattito teologico-pastorale e, come tali, meriteranno d’essere analizzati in altra sede. Non mancano però idee che, direttamente o indirettamente, toccano problematiche civili e sociali di più ampio raggio. Qui possiamo evocarne solo tre o quattro principali.
La prima consiste in un criterio metodologico che attraversa, quasi filo rosso, le riflessioni del presbitero nisseno: il cattolicesimo deve imparare a dialogare con il mondo laico. Sino ad oggi questo dialogo è stato ostacolato da varie difficoltà, non ultime - per limitarsi solo alla sponda cattolica - “il livello generalmente non alto della produzione teologica in Italia” ed una “certa insufficienza della recezione dell’insegnamento del Vaticano II”. Se ancora fra noi, continuando un dialogo a tratti vivace ma sempre rispettoso da ambo le parti, avrei chiesto a don Aldo quanto, a suo parere, non abbiano inciso su questi ritardi dei cattolici italiani gli insegnamenti e le decisioni di un papa come Giovanni Paolo II e di un presidente della Cei come Ruini, interessati a salvaguardare l’ortodossia e la disciplina ecclesiastica molto più che a stimolare la ricerca intellettuale e la sperimentazione organizzativa.
Don Naro non si è limitato a proclamare, in astratto, la necessità del dialogo con la cultura laica: l’ha praticato costantemente. Sono stato sempre impressionato dalla sua diligenza, in ogni questione, di fare il punto a partire dai contributi scientifici degli specialisti. In questo volume, ad esempio, non esprime il suo personale parere sulla “identità italiana” senza prima riferire le tesi sul tema esposte nei più recenti contributi di storici come Ernesto Galli della Loggia, sociologi come Franco Ferrarotti, letterati come Alberto Asor Rosa, filosofi come Remo Bodei e teologi (anche non allineati sulle posizioni ufficiali del magistero) come Giannino Piana. E, in conclusione, Naro fa proprio il parere - non certo di senso comune - del collega Andrea Riccardi: “Io sono più italiano, più nazionalista di altri in Italia, quando dico che bisogna misurarsi con le sfide che vengono dall’immigrazione e sono più fiducioso nell’identità italiana quando dico che bisogna accogliere. Mentre è meno convinto dell’identità italiana chi vuole porre limiti”. E’, insomma, il metodo adottato in suoi saggi precedenti a proposito della mafia: esercitare un’insolita capacità di documentarsi senza filtri selettivi prima di elaborare una proposta specifica.
Non c’è dialogo autentico senza capacità di autocritica. Tra i preti della sua generazione, don Naro non era certamente fra i più innovatori: meditativo e prudente per carattere, era diventato - se possibile - ancora più cauto per la formazione di storico abituato a comprendere più che a giudicare. Proprio questo suo registro abituale rende maggiormente significativi gli squarci di autocritica ecclesiale che si aprono, non di rado, nel bel mezzo di analisi apparentemente distaccate ed oggettive. Come là dove, a conclusione di una lunga relazione agli insegnanti di religione della sua diocesi, rivolge un appello che equivale ad una diagnosi spietata: “Bisogna tornare o, se è il caso, cominciare a pensare. Non più una conduzione pastorale per slogan, non più uno stanco e disincantato gestire il presente, una sorta di navigazione a vista, ma un guardare la realtà, un comprenderla con amore e passione, uno studiarla con intelligenza e fatica, un ardimentoso proiettarsi in avanti”. Tornano spontaneamente alla memoria le volte in cui il cardinale Carlo Martini sostiene che la differenza fra credenti e non-credenti è meno decisiva della differenza, davvero radicale, fra chi pensa e chi non pensa.

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