venerdì 14 settembre 2012

La sovranità dello Stato


“Madrugada”
Settembre 2012, 87, pp. 14 – 15

La politica è antica quanto le prime aggregazioni umane: già la vita di coppia esige un metodo (più o meno esplicito, più o meno condiviso) per decidere sulle questioni in comune. Il quadro si amplia, e si complica, nell’ambito della famiglia, della tribù, della polis…Solo in tempi relativamente recenti è nato lo Stato (almeno nell’accezione in cui lo intendiamo nelle lingue moderne) e, poiché esso ha concentrato le più rilevanti decisioni politiche, si tende a supporre che esso ne abbia il monopolio. In realtà non è così. E non lo è per ragioni di cui rallegrarsi e per ragioni di cui preoccuparsi.
Che ogni singolo Stato sia, per così dire, costretto a limitare la propria sovranità – sia ad intra perché il potere politico deve fare i conti con il potere culturale di giornali televisioni movimenti d’opinione, con il potere sociale di sindacati e altre organizzazioni civiche, con il potere economico degli imprenditori e delle banche; sia ad extra perché ogni governo deve coordinarsi con altri governi nazionali se vuole affrontare delle problematiche planetarie – è un dato che ci preserva da forme esplicite o implicite di dittatura. Lo statalismo è una brutta bestia che rivela, macroscopicamente, le ambiguità dell’istituzione statuale (ambiguità a proposito delle quali più volte tornano ad avvertirci le voci della tradizione cattolica, del pensiero liberale e soprattutto dei movimenti anarchici).
Tuttavia non c’è solo di che rallegrarsi, ma anche - e forse ancor di più – di che allarmarsi. Se parlamento e governo sono luoghi decisionali che, invece di rispondere soltanto ai cittadini elettori, agiscono condizionati in misura crescente dalle lobby più influenti operanti nel tessuto sociale, è la democrazia stessa ad essere minacciata. Formalmente ogni parlamentare - e ogni ministro che resta in carica solo sino a quando gode della fiducia della maggioranza parlamentare – deve elaborare, proporre e approvare le leggi (nel caso di deputati e senatori) o metterle effettivamente in opera (nel caso dei membri del governo) ascoltando la propria coscienza (nutrita di competenze professionali, radici etiche, sensibilità civica: in una parola di saggezza): ma cosa avviene davvero? Sostanzialmente è difficile che un politico segua davvero il criterio della verità (per quanto circoscritta all’ambito dell’opinabile) e della giustizia. Sempre più egli è condizionato dalle direttive del partito politico, dai risultati ballerini dei sondaggi d’opinione, dai diktat della sua chiesa di riferimento (in Italia sinora la chiesa cattolica, ma non è lontano il momento in cui islamici di fede sincera si riterranno altrettanto vincolati dalle prescrizioni della sharìa) e, soprattutto, dai grandi centri di potere economico e finanziario. Il ventennio berlusconiano è stato - e per molti versi continua ad essere – un’istruttiva esemplificazione di come chi possiede denaro può trasformare un parlamento, apparentemente legale, in una protesi funzionale alla difesa dei propri interessi privati e all’ampliamento dei propri profitti. Di come la politica statuale possa essere mortificata e asservita all’economia privatistica.
Questo quadro, sintetico e a tinte contrapposte, conferma – a vent’anni di distanza – una tesi di Norberto Bobbio: “Oggi chi voglia avere un indice dello sviluppo democratico di un paese, deve considerare non più il numero delle persone che hanno diritto di votare, ma il numero delle sedi diverse da quelle tradizionalmente politiche in cui si esercita il diritto di voto. Detto altrimenti: chi voglia oggi dare un giudizio sullo sviluppo della democrazia in un dato paese deve porsi non già la domanda: Chi vota?, ma Dove si vota?”.
Se la diagnosi è facile, non altrettanto si configura la terapia. In termini generali, si potrebbe sostenere che le diffidenze di stampo liberale (e anarchico) nei confronti dello Stato in quanto tale vanno bilanciate dalle istanze della migliore tradizione socialista, soprattutto da una: l’economia deve crescere sotto il controllo della politica. E poiché un’economia globalizzata non può essere governata da uno Stato nazionale, la trasformazione dell’Unione europea prima - e dell’Onu dopo – in organismi politici davvero democratici e davvero efficienti non può più essere differita. Nessuno Stato, per quanto potente, potrà difendersi dai condizionamenti dei ‘cartelli’ imprenditoriali e finanziari multinazionali (che, in realtà, sono sovranazionali). Per raggiungere questa meta di una Federazione mondiale (che già nel Settecento veniva indicata, profeticamente, dal grande Kant come antidoto a ogni forma di assolutismo e di nazionalismo) occorre che non solo i politici di professione, ma i cittadini tutti, abbiano la lucidità per coglierne la necessità e il coraggio di impegnarsi attivamente in tale direzione. Lucidità e coraggio che, a essere sinceri, non sembra che oggi si sprechino. Una riforma intellettuale e morale (per citare Gramsci) è ancora davanti a noi. Per dirlo con una formula (approssimativa come tutti gli slogan), la politica potrà imbrigliare l’economia solo se, a sua volta, sarà improntata dall’etica. E la storia ci insegna che i grandi mutamenti etici possono essere avviati da singole personalità eccezionali, ma non si realizzano se non arrivano a contagiare un po’ tutte le fasce sociali. Se non diventano energia vivificante di interi popoli.

Augusto Cavadi

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