martedì 13 febbraio 2018

PER UNA (AUTO)CRITICA DELL'ANTIMAFIA. APPUNTAMENTO A PALERMO

Giacomo Di Girolamo è un giornalista di Marsala che ha scritto recentemente                Contro l’antimafia (Il Saggiatore, Milano 2016, pp. 245, euro 17,00). 
La SCUOLA DI FORMAZIONE ETICO-POLITICA "GIOVANNI FALCONE" di Palermo (Via Nicolò Garzilli 43/a) lo ha invitato a discutere le sue tesi in un  seminario che si terrà venerdì 16 febbraio 2018 (dalle ore 18 alle ore 20). Il seminario sarà introdotto da Francesco Palazzo e da Augusto Cavadi .
La partecipazione è libera e gratuita, ma a numero chiuso (40 persone al max.): avranno la precedenza quanti si prenoteranno presso l'indirizzo e-mail: salvomenna@yahoo.it 

Qui di seguito una recensione del libro di Giacomo Di Girolamo pubblicata da Augusto Cavadi:
24.1.2018

PER     UN’AUTOCRITICA   DELL’ANTIMAFIA

       Il movimento antimafia è vecchio di un secolo e mezzo: esattamente coetaneo della mafia. In questo lungo periodo ha conosciuto picchi in salita, cali paurosi, fasi di mediocrità. E le cronache quasi quotidiane  degli ultimi anni attestano che non gode di buona salute. Era dunque necessario che qualcuno facesse il punto sulla situazione attuale, senza distruttività ma anche senza reverenze bigotte. Giacomo Di Girolamo, con il  suo Contro l’antimafia (Il Saggiatore, Milano 2016, pp. 245, euro 17,00), ci prova. Con quali tesi? Il registro linguistico, letterariamente raffinato, del suo racconto  – che, inoltre, è  fitto di parentesi che rimandano a vicende e personaggi da lui osservati come giornalista    - non rende facile sintetizzarle.
         L’ipertesi, o tesi – quadro, è formulata in maniera apertamente paradossale: “Io non ho mai avuto paura” (della mafia); “adesso sì” (dell’antimafia) (p. 13). Quest’ultima infatti si sarebbe trasformata in “un luogo di compromessi al ribasso, di piccole e grandi miserie, di accordi nell’ombra per spartirsi soldi e potere” (pp. 14 – 15). Che si tratti di una formulazione paradossale, a effetto, me lo suggeriscono varie considerazioni, tra cui due: la prima è che, anche nella peggiore delle ipotesi, la lotta odierna contro la mafia apparirebbe come “una piccola mafia” (ivi) e, perciò, né più temibile né altrettanto temibile del prototipo originale; la seconda considerazione è che la contrapposizione fra l’antimafia di ieri (“riscatto, orgoglio, proposte, denuncia”) e l’antimafia di oggi (“vuota ritualità, protagonismo, sensazionalismo, corsa ai finanziamenti, bugie”) (p. 23) è solo nella percezione di Di Girolamo, che da adulto è andato scoprendo le magagne di uno schieramento comprensibilmente mitizzato da ragazzo. Infatti, come non è tutto nero oggi (e nel corso del saggio lo stesso autore ammette “il rischio di travolgere tutto, appiattendo nello stesso panorama storie diverse, la generosità e la buona fede di tanti, di un’antimafia operosa e sincera, p. 141), così ieri non era tutto rose e fiori. I miei ricordi risalenti agli inizi degli anni Ottanta sono nitidi, anche perché suffragati da cosette che andavo pubblicando sin da allora sull’ambiguità di figure come padre Ennio Pintacuda o Carmine Mancuso (autoproclamatisi leader del “Coordinamento antimafia”). Con più autorevolezza di me, Leonardo Sciascia sparava contro “i professionisti dell’antimafia”: i bersagli erano sbagliati (Leoluca Orlando e Paolo Borsellino), ma la questione sollevata dallo scrittore siciliano era realissima.
          Anche la questione che oggi ri-solleva Di Girolamo, se tradotta in termini più contenuti (e dunque più veritieri), è fondata: come, e soprattutto perché, i germi viziosi (presenti già nell’antimafia in nuce) sono esplosi negli ultimi anni rischiando di prevalere sui  tratti autentici?
    Egli risponde con una raffica di elementi: alcuni più convincenti (quando si è costituito “un pensiero unico dell’antimafia, una cosa che ti schiaccia, e che ti impone di non sollevare mai dubbi sull’operato dei giudici, sulla bontà delle confische, sulla santità delle vittime, sull’attendibilità del resoconto di certi giornalisti. Un solo pensiero, un solo colore, un solo suono, un solo battito”) (p. 25); altre meno (“quando i parenti delle vittime hanno cominciato a candidarsi alle elezioni. E quando, perdendole, hanno dato la colpa alla mafia”; “quando sono nate le cooperative antimafia”) (pp. 24 -25). E dico “meno convincenti” perché ci sono congiunti di vittime della mafia che non avevano i numeri per fare politica in senso istituzionale, ma altri che li avevano e avevano dimostrato di averli molto più di tanti politici di carriera negli apparati di partito; così come ci sono cooperative di giovani che lavorano su terreni confiscati alla mafia molto più trasparenti ed efficienti di cooperative di altra matrice.

     Tra gli altri elementi più convincenti di critica al mondo dell’antimafia:

a)    autoreferenzialità: “L’antimafia ha fallito, penso, anche per questo: non è mai riuscita a coinvolgere altre persone al di fuori di questa élite che noi rappresentiamo, questo ceto medio impegnato, informato e itinerante, che si sposta, ascolta, applaude, inorridisce e ride. E si vede e si rivede, registrato, e ripetuto. Poi, quasi sempre, torna a pensare agli affari suoi” (p. 46);
b)   ripetitività delle idee: “I titoli delle conferenze non servono a nulla. Possono chiamarsi <<Chi copre Messina Denaro?>>, come <<Insieme per la legalità>>, <<Lotta alla mafia oggi>>; il contenuto è sempre lo stesso. Siamo fermi sempre agli stessi concetti. Tutti parlano di tutto, ognuno mette quintali del proprio ego a disposizione della folla plaudente, si calca sul pedale dell’emotività e alla fine ce ne andiamo privi di informazioni nuove ma con i lucciconi negli occhi” (p. 46);
c)    ipocrisia: “l’imprenditore che ha lanciato la  <<svolta della legalità>> nell’associazione degli industriali è finito indagato per mafia” (p. 24); “Vescovi che citano padre Pino Puglisi e poi rubano i soldi dell’8 per mille per abbellirsi la villetta” (p. 43);
d)   litigiosità interna: “Ognuno pensa a se stesso; dietro l’ideologia di facciata e i proclami e le marce, ognuno pensa sé. E a volte odia il compagno di battaglia più di quanto odi” i mafiosi (p. 147);
e)     inquinamento della stampa: si moltiplicano “giornalisti che fanno copia carbone delle ordinanze delle procure” – dunque, più che giornalisti,  “sensali della notizia”  (p. 72) – e si estingue la stirpe dei giornalisti come Giancarlo Siani che raccolgono informazioni “per strada” (p. 74). [Personalmente mi sarei fermato, ma Di Girolamo ritiene opportuno esemplificare: “Abbiamo allevato un giornalismo che fiancheggia i magistrati come se fossero un impero del bene, con cori da stadio ogni volta che si pronunciano certi nomi: Ingroia, olé! Di Matteo, olé! Caselli, olé ! De Magistris, olé! Come se fossero persone infallibili, con una cerchia di giornalisti scelti a fare da evangelisti” (p. 76). Ritengo però che il teorema venga esemplificato con nomi sbagliati, un po’ come è capitato a Sciascia quando ha chiamato in ballo Borsellino e Orlando come “professionisti dell’antimafia”: senza Ingroia, Di Matteo, Caselli, De Magistris e molti altri, chiacchierati come loro, la democrazia italiana starebbe molto, molto peggio di adesso. E con i magistrati delle generazioni precedenti, infatti, avevamo toccato il fondo più nero];
f)     banalizzazione dell’educazione alla legalità: anche se non è stato mai vero che le    scuole
 hanno ricevuto “soldi a palate per progetti sulla legalità a scatola chiusa” (p. 24), e per la verità neppure a scatola aperta, il succo delle accuse di Di Girolamo su questo versante è quasi interamente condivisibile. Davvero ci si è abbandonati a un patetico “impressionismo didattico” (p. 83), raccontando “gli eroi della lotta alla mafia presentati come una collezione di figurine di calciatori” (p. 84) senza mai spiegare davvero l’essenza del sistema di dominio mafioso e invitando a noiose passarelle “sedicenti esperti di legalità” (p. 90) non del tutto esenti da “una certa tendenza alla millanteria, alla superficialità, al vittimismo eroico, all’affarismo” (p. 86). Per non parlare dei (pochi) finanziamenti pubblici per l’educazione alla legalità che finiscono in laboratori di ceramica, corsi di scacchi, corsi per il patentino o per costruire siti internet, viaggi d’istruzione alla Camera dei deputati (sulle cui prerogative non c’è stato il tempo di soffermarsi in classe neppure per un’ora…). Da qui la pertinenza della domanda cruciale: “chi ha insegnato l’antimafia agli insegnanti di antimafia?” (p. 85);
g)    bigottizzazione della militanza: gli ambienti dell’antimafia producono, o almeno
accolgono volentieri, soggetti che fanno “l’antimafia quasi militaresca, tipo venti ore al     giorno”. Gente buona, ma “naïf”, il cui esemplare è “il cretino dell’antimafia” (p. 102);
h)   gestione disinvolta dei beni sequestrati ai mafiosi: soprattutto dei terreni agricoli dove più di una cooperativa, ufficialmente antimafiosa, “funziona secondo un modello economicista, devoto al marketing e al profitto, che vende un brand: la legalità” (p. 120);


Ma, al di là dei fenomeni puntuali, ci sarebbe secondo Di Girolamo una mega-causa che radicalmente inficia il senso dell’antimafia oggi? Mi pare che sarebbe in un difetto di analisi: si continua a supporre che la mafia sia un’infiltrazione in un tessuto istituzionale e sociale sano, mentre ormai è proprio questo tessuto ad essere un “sistema malato” nel quale è “la legalità quella che si infiltra” (p. 27).

Che pensare di questa teoria?
Accetto volentieri l’aspetto che ritengo calzante: la mafia non sarebbe forte se il contesto sociale non fosse, più o meno, permeabile alla sua seduzione e – quando non basta – alle sue intimidazioni. Ciò concesso, però, arrivare a dire che il sistema statale e sociale in Sicilia, in Italia, in Europa, nel mondo liberal-capitalistico occidentale sia da considerare  , tranne rare eccezioni, “criminale”  - o per lo meno in preda in preda al nuovo modo di essere “criminale” della mafia (p.26) - mi sembra, ancora una volta, un’ espressione efficace pareneticamente ma  sociologicamente falsa. Quando un virus conquista interamente un corpo si condanna all’estinzione: i parassiti hanno bisogno di attaccarsi a organismi sani, o per lo meno più sani che malati.
Senza contare che, esasperando le tinte, si arriva a conclusioni operative paralizzanti. D’accordo, Giacomo: la forza della mafia non sono i cinquemila uomini d’onore siciliani soltanto, bisogna moltiplicarli almeno per quattro aggiungendo camorristi, ‘ndranghetisti, adepti della Sacra corona unita e di cosche varie. E poi bisogna aggiungere tre, quattro  milioni di collusi che, per paura o per calcolo, collaborano alle attività mafiose. Ma, a questo punto, ci dobbiamo fermare: un novanta per cento abbondante di italiani non è né mafia né para- mafia. Ci saranno anche tra questi disonesti, corrotti, imbroglioni, arrampicatori sociali, evasori…ma non entrano, necessariamente,  nel “blocco sociale” (così, da decenni, Umberto Santino) mafioso. Perciò se scrivi che “la vera forza della mafia sta fuori la mafia” (p. 70) rischi, contro la tua volontà,  di distogliere la mira sulla mafia per puntare sul risanamento dell’intera società. Dedicarsi a convertire gli italiani o, secondo i gusti, a costringerli con la rivoluzione armata a comportarsi civilmente è un ammirevole obiettivo, ma non è l’obiettivo della lotta alla mafia. Tu stesso hai scritto un efficace capitolo per mostrare che “se tutto è mafia, niente è mafia” (p. 114), che non “tutto è mafia”, ma che “anche a causa di questo ‘tutto’ c’è la mafia” (p. 123): benissimo. Con il discorso di Cosa nostra che s’inabissa e riemerge, irriconoscibile, come “Cosa grigia” vasta quanto il sistema relazionale della grande e media corruzione italiana non si rischia, invece,  di ricadere nella generalizzazione depistante? C’è chi sostiene che abbiamo sconfitto la mafia e ha torto; ma se la mafia è diventata “Cosa grigia” è più forte che prima e anche questo è, secondo me, sbagliato. Siamo davanti al solito bicchiere per metà vuoto e per metà pieno: conosco la tentazione di uscire dall’incertezza, ma è da contrastare.
        Verso la fine, il libro tocca due questioni cruciali: il processo sulla Trattativa fra Stato e mafia e il processo Borsellino quater sui responsabili della strage di via D’Amelio. Talmente cruciali che meritano due libri a parte.

Augusto Cavadi


http://www.nientedipersonale.com/2018/01/24/libro-unautocritica-dellantimafia/

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