domenica 14 luglio 2019

LA BELLEZZA PUO' CURARE IL DOLORE ?

Invitato la scorsa estate da un gruppo di studiosi e operatori sanitari (medici e psicologi), ho svolto - in occasione della mostra Where beauty softens your grief del fotografo Gianni Cipriano ospitata nella cripta della chiesa di san Matteo al Cassaro (Palermo) - una conversazione sul tema della morte.
Gli interventi dei vari ospiti del gruppo "L'Acrobatica del morire" (tra cui, insieme a oncologi, medici palliativisti, geriatri, psicoterapeuti, anche storici dell'arte, teologi, esperti in cultura visuale) sono stati  raccolti in un volume gradevole di 194 pagine. 
Qui di sotto il mio contributo (non senza un cenno di gratitudine per i cari Nuccio Pepe e Roberto Garofalo, medici quotidianamente disponibili ad accompagnare i pazienti nell'ultimo miglio).

Gruppo l’Acrobatica del morire (ed.)
Quando la bellezza cura il dolore.
Vivere il morire nella società contemporanea,
Mimesis, Milano – Udine 2019, pp. 49 - 53 

                       INTERPRETAZIONI DELLA   MORTE
                                        

Consapevole o irriflessa

           Comunemente si suppone che gli esseri umani possano dividersi in due grandi categorie: chi è troppo impegnato a vivere per farsi un’idea della morte (e di ciò che ne è di noi, dopo) e chi, privilegiato, può concedersi il lusso di fare filosofia (o letteratura o cinema o pittura…) sulla morte. Ma è davvero così? La mia esperienza di “filosofo di strada” che ha frequentato, e in molti casi frequenta, luoghi poco raccomandabili come i pub, le osterie, le carceri e addirittura i licei, attesta il contrario: la differenza non è tra chi ha e chi non ha una propria interpretazione del morire e della morte, bensì fra chi (istruito o meno) ha elaborato consapevolmente un’idea in proposito e chi (istruito o meno) si accontenta di averne una irriflessa, ereditata passivamente dall’ambiente familiare e sociale. 
          Incontri come questo dovrebbero servire agi uni e agli altri: ai primi per confrontare con altri la propria concezione consapevole, agli altri per iniziare un cammino di informazione, di meditazione, di ricerca dialogica verso un’idea di morte più personale, più critica. Il compito che mi assegno, come filosofo-consulente, è di offrire una prima panoramica di prospettive sulla morteproposte sinora, lungo i millenni, sul nostro pianeta. Il ‘gioco’ di queste due ore starebbe nel verificare se, per caso, qualcuno di noi si identifica  - più o meno – in una di queste prospettive e, nel caso in cui non si riconoscesse in nessuna, nel provare a schizzare almeno per sommi capi la propria interpretazione.
         Se la sessione riuscirà il merito sarà, ovviamente, di quanti accetteranno di mettersi in gioco, senza timore di esprimersi poco correttamente o un po’ confusamente; ma anche di quanti avranno partecipato con un ascolto attento, recettivo, soprattutto rispettoso del dono altrui.

La morte censurata
      Un primo atteggiamento, attestato da singole personalità o da più ampie civiltà, potremmo definirlo di elegante censura di questa  tematica. Di Buddha, nell’Antico Oriente, si racconta che glissasse con un sorriso le domande sul destino ultraterreno dell’uomo: perché pronunziarsi su ciò che ignoriamo inesorabilmente? Anche Pascal, all’inizio dell’epoca moderna in Europa, osserva che, nell’apparente stoltezza della  frenesia delle nostre giornate zeppe di impegni indispensabili e di impegni superflui, si nasconde una saggezza quasi istintiva: non sapendo rispondere alle questioni esistenziali, preferiamo evitare l’angoscia inventandoci tutte le occasioni per non pensarci.
 Nel nostro tempo altri pensatori, come Wittgenstein, hanno ribadito l’opportunità di non dedicarsi a sciogliere enigmi che vanno oltre i nostri strumenti scientifici: possiamo parlare di ciò che vediamo e misuriamo; su ciò, di cui non possiamo parlare sensatamente, è meglio tacere. Non sarà un tacere soddisfatto né tanto meno arrogante; sarà una sorta di silenzio mistico; comunque, in ogni caso, un tacere. 

La morte denudata
      Non tutti i mortali riescono a evitare di porsi domande meta-fisiche. Alcuni di questi, poi, ricavano dalle ipotesi sulla morte motivi di terrore. Da qui l’invito di Epicuro a denudare la morte, a toglierle qualsiasi parvenza di minaccia: infatti, a ben pensarci, non la incontreremo mai. Sino a quando ci siamo noi, essa non c’è; quando arriverà, saremo noi a non esserci più. Essere vivi significa sentire e avere coscienza: se sentiamo e pensiamo, la morte non c’è; se c’è, noi non potremo averne coscienza né dunque soffrirne. La filosofia può dunque liberarci radicalmente dal timore della morte: “nulla c’è di temibile nel vivere per chi sia veramente convinto che nulla di temibile c’è nel non vivere più”.

La morte come ritorno al Nulla (vuoto)
       Forse non vedremo faccia a faccia la morte, ma essa non è un momento isolato: è piuttosto l’esito di un percorso. Sperimentiamo il morire come perdita di forze, di salute, di affetti, di relazioni…ogni giorno. Non possiamo fare finta che la morte non sia il risvolto quotidiano della vita, che ogni passo in avanti sulla terra non sia un passo verso la tomba. Se siamo nichilisti, dobbiamo avere il coraggio di accettare che il nostro traguardo sia – appunto – il niente (nihil). Come ci ricorda Edgar Morin, pensatore vivente, questa prospettiva può renderci disperati e, dunque, egoisti e malvagi; ma può anche renderci solidali con il resto dei mortali, sensibili e generosi. E’ anche la lezione de La ginestra di Giacomo Leopardi: la consapevolezza dell’intrinseca mortalità del cosmo e, in esso, dell’uomo provoca “orrore”, ma proprio questo orrore “per primo/ contro l’empia natura/ strinse i mortali in social catena”.

La morte come annichilimento e ri-creazione
       Può darsi che con la morte il nostro essere si disintegri completamente: ma perché escludere che, dopo poco o molto dal nostro decesso, lo stesso Principio che ci ha chiamato alla vita ci possa ri-creare una seconda volta? Alcuni filoni della tradizione ebraica, condivisi da alcune comunità cristiane delle origini, l’hanno supposto: il Dio dei viventi può abbandonare nelle tenebre del nulla i figli degeneri che hanno sprecato la prima occasione, ma perché non dovrebbe ri-chiamare, ri-svegliare, i figli fedeli che si sono impegnati seriamente per l’avvento del “regno di Dio” in terra?  Gesù sarebbe il “primogenito”, il prototipo, di questi mortali riscattati dalle tenebre definitive e restituiti a una seconda, nuova, vita (ben più intensa della vita biologica e psichica sperimentata in terra).

La morte come guarigione 
      Ma siamo così sicuri che con la morte si disintegri tutta la nostra persona? O non si spezza il bozzolo che ci tiene prigionieri (il nostro corpo) sì da consentire al nostro “io” autentico (la nostra anima) di prendere il volo come una farfalla ? Molte tradizioni religiose lo sostengono e Platone, nell’Antica Grecia, ha ripreso questa teoria. La morte, dunque, non avrebbe nulla di temibile: sarebbe, anzi, da attendere come guarigione da quella malattia che è la vita terrena. Socrate, il suo maestro, testimoniò questa convinzione chiedendo, nelle ultime ore, di “sacrificare ad Asclepio un gallo” per ringraziare il dio della medicina per la sua guarigione ormai imminente. Se abbiamo vissuto bene, resteremo per sempre nel mondo celeste, forse anche in piacevoli conversazioni con i saggi e i giusti di tutte le generazioni; altrimenti ci re-incarneremo per avere un’ulteriore possibilità di purificazione nel corso di un’altra esistenza terrena.


La morte come ritorno all’Origine (piena) 
      La nascita, la morte, la ri-nascita (metempsicosi) sono avvenimenti che ci sembrano reali (tanto è vero che gioiamo alla nascita di un neonato e piangiamo alla morte di una persona cara): ma lo sono davvero? Qualcuno, da Parmenide sino ai nostri giorni, risponde: no. Certo i sensi ci attestano che qualcosa non era e poi è; e che è e, poi, non è più. Ma la razionalità ci insegna che dal niente non può venire qualcosa che è,  né qualcosa che è può tornare al niente. Dunque nascita, vita, morte sono solo movimenti superficiali, apparenti, dell’unico immenso oceano che è l’Essere: in realtà siamo sfaccettature dell’unico poliedro. Nascere significa tentare l’avventura illusoria della separazione dal Tutto: morire significa ritornare pienamente all’Origine. Come si esprime un pensatore contemporaneo, Emanuele Severino, “le cose del mondo non sorgono dal nulla e non vi tornano, ma procedono dall’unità divina e a essa ritornano”: “è appunto in questo Circolo che va dal Dio e a lui ritorna che il mondo e l’uomo hanno in sé stessi uno scopo e un senso”. 

Nell’attesa della morte
       Ho accennato solo ad alcuni scenari prospettati dall’umanità sino ad oggi. Ognuno di voi avrà già intuito che ognuna di queste ottiche si articola, poi, al proprio interno in svariate versioni: forse tante quanti siamo gli esseri mortali sinora apparsi sulla faccia del pianeta. Quale di queste si avvicina maggiormente a ciò che ci attende davvero? 
        Tra non molto tempo (speriamo moltissimo, almeno per i più giovani di noi) l’enigma si risolverà: o perché nessuno di noi sarà più in grado di porselo o perché sperimenteremo direttamente come stanno le cose. (A meno che non abbiano ragione quei re-incarnazionisti secondo i quali ritorneremo nel mondo in altri corpi, ma totalmente dimentichi della vita precedente: in questa ipotesi, infatti, saremo - punto e capo – nuovamente in preda al dubbio).
        Nell’attesa della morte poche cose sono certe. 
        La prima: che la riflessione sulla morte è sintomo della nostra dignità. Forse le greggi dei pastori erranti per l’Asia hanno meno occasioni di angoscia di noi: ma anche nell’angoscia, accettata consapevolmente, c’è una grandezza morale che può gratificarci. 
        La seconda: che la riflessione sulla morte, almeno nella stragrande maggioranza dei casi, porta a valorizzare maggiormente la vita. A capire, per riprendere un anonimo saggio orientale, che è importante sapere se c’è vita dopo la morte, ma ancora più importante sapere se ce n’è prima della morte. 

Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com


Per approfondire la tematica consiglierei volentieri tre testi miei in circolazione: 

          Per fidanzarsi (se non la si è mai studiata) , o ri-fidanzarsi (se si sono rotti i ponti dal tempo del liceo), con la filosofia: E, per passione, la filosofia. Breve introduzione alla più inutile di tutte le scienze, Di Girolamo, Trapani, pp. 188.
          Per tematizzare un po’ meglio le prospettive sulla morte cui ho accennato in queste pagine: Andarsene. Brevi riflessioni sulla morte propria e altrui, Diogene Multimedia, Bologna, pp. 96.
          Per inquadrare la tematica della morte nel più ampio orizzonte di ciò che può suggerirci la filosofia come spiritualità “laica”: Mosaici di saggezze. Filosofia come nuova antichissima spiritualità, Diogene Multimedia, Bologna, pp. 357. 


1 commento:

germano federici ha detto...

ricordo il catafalco su cui si posavano le bare nei giorni delle esequie al paesello nativo in terra orobica: un drappo nero con ricamato un bruco e, a fianco, una farfalla. Non mi ero mai chiesto che significasse, finchè non ho affrontato l'esame di zoologia all'università. Che strano! da bimbo di scuola elementare "facevo i compiti" sotto un vetusto noce da cui scendevano bruchi variopinti a gironzolare sui miei quaderni e sulla pelle e non sapevo che sarebbero morti di morte apparente per poi risorgere con colori diversi, ma sempre vivaci. Mai il parroco aveva spiegato ai fedeli radunati il senso di quella simbologia, sicché sono rimasto nell'ignoranza per decenni... D'altronde, era impossibile concentrasi su quella bellissima simbologia, quando tutto intorno al catafalco ruotava il prete con aspersorio, prima, e turibolo, poi, per scacciare, con un rito apotropaico in un latino incomprensibile, i demoni intenti a ghermire la salma ... Eppure, si recitava: "la vita non è tolta, ma trasformata". C'era da essere felici! Le facce funebri del celebrante e dei fedeli erano (sono) invece la più palese prova dell'invincibile contraddizione tra la speranza di una povera fede e l'opacità del crudo vivere. Forse il discredito di cui nel nostro paese gode lo studio della natura - non così fino a metà Ottocento! - è legato anche all'incapacità generale di accettare la morte come un passaggio obbligato se non per una nostra nuova e differente vita, per quella realissima di altri, destinati a occupare lo spazio da noi liberato. La dura e onesta lezione di Darwin ...