sabato 14 settembre 2019

LA FILOSOFIA SOCIALE DI GESU' SECONDO RAUSCHENBUSCH


L’utopia evangelica nel tempo dell’indifferenza

In una fase di schizofrenia collettiva negli ambienti cristiani occidentali (europei e nordamericani), nonostante gli appelli di papa Francesco ad accorciare le distanze fra ciò che si proclama la domenica in chiesa e le scelte etico-politiche dei giorni feriali, arriva opportuna la traduzione italiana di uno dei testi che hanno contribuito in maniera decisiva alla formazione di personaggi come il pastore protestante Martin Luther King: L’ideale sociale di Gesù. La vera filosofia del Vangelo (Castelvecchi, Roma 2017) di Walter Rauscenbusch.
Diciamolo subito: il linguaggio, le esemplificazioni, i riferimenti al contesto storico sono di un’altra epoca. Dunque questo testo, apparso negli Stati Uniti d’America all’inizio del Novecento, presenta un interesse primariamente storico. Tuttavia – se si supera una certa estraneità rispetto ai gusti letterari e alle acquisizioni teologiche del XXI secolo – esso veicola un messaggio di inalterata attualità: la fede cristiana, se autentica, non può non incidere positivamente nella sfera sociale, ben al di là della sfera interiore individuale.
L’intento è formulato sin dalla prima pagina: «Coloro che sono stati educati alla religione cristiana possono prontamente riassumere le dottrine della Chiesa» (forse già questo, un secolo dopo, non è più vero), «ma i princìpi da comprendere qualora si voglia seguire il modo di vita di Gesù sembrano avviluppati nella foschia. L’uomo comune conosce chiaramente di Cristo solo la legge dell’amore e la regola d’oro» (la celebre: non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te o, in positivo, fai agli altri ciò che vorresti gli altri facessero a te). «Questo libro tenta di rendere chiaro ciò che noi tutti sappiamo in modo vago».
In sintesi – molto in sintesi – l’autore sostiene che Gesù, come ogni altro essere umano, ebbe una propria “visione del mondo”, una propria “filosofia”, caratterizzata da «tre principi assiomatici, sui quali poggiavano tutti i suoi ragionamenti e imperativi morali, proprio come tutte le teorie e le attività nell’ambito della fisica si basano sulla gravità»: «la sacralità della vita e della persona, la solidarietà della famiglia degli uomini e l’obbligo per i forti di schierarsi a favore di tutti coloro la cui vita subisce impedimenti e a cui viene negato un posto dignitoso tra gli uomini».
Questi princìpi filosofici si sono espressi, tradotti, in un messaggio il cui centro è l’imminenza del “Regno di Dio”: inteso non come evento strettamente soggettivo, bensì sociale; non come annunzio di una vita migliore dopo la morte, bensì come inizio di una vita migliore per tutti qui e ora. Infatti il Gesù di cui abbiamo notizia dagli scritti canonici ed extra-canonici «prende le distanze da tutti coloro che sono stabilmente ancorati al mondo come è; da tutti coloro che collocano la possibilità di crescere e progredire solo nell’individuo, come anche da tutti coloro il cui desiderio di perfezione trascende questo mondo e guarda a un mondo dopo la tomba».
 Alla «realizzazione del Regno di Dio sulla Terra» – dunque ai tentativi di instaurare un sistema sociale di libertà, rispetto, gentilezza, equa distribuzione dei beni, attenzione ai deboli, solidarietà attiva – si oppongono «tre forze recalcitranti: il desiderio di potere, l’amore per la proprietà e la religione asociale».
Il desiderio di potere: «il Regno di Dio predispone un ordine sociale fraterno e giusto contro l’ordine predatorio e ingiusto ereditato dall’Umanità del passato. Il nuovo ordine deve avere una nuova dinastia di leader, perché ogni ordine sociale ha il proprio tipo di aristocrazia. Gesù non propone di abolire la leadership; propone una nuova base sulla quale stabilire la grandezza, in netta opposizione rispetto alla precedente: “Chi vuole diventare grande tra voi, sarà vostro servitore” [...]. L’abilità e l’ambizione saranno ancora al comando, ma saranno poste sotto il giogo del servizio di tutti. Avrà statue erette in suo onore non colui che uccide e soggioga, ma colui che rende la vita più sicura e felice».
 L’amore per la proprietà: «Evidentemente, i pericoli connessi alla proprietà occupavano molto la mente di Gesù. Egli sembra averli enfatizzati più pienamente e frequentemente rispetto ai mali legati alla promiscuità sessuale e all’ubriachezza. La Chiesa moderna ha invertito la relativa enfasi. Perché?». «I meccanismi del fare soldi che Gesù conosceva erano semplici, crudi e triviali, in confronto al complicato e onnipervasivo sistema che i magnati dell’industria moderna hanno messo in piedi. [...] Abbiamo bisogno di un’etica cristiana della proprietà forse più di ogni altra cosa. Le ingiustizie collegate alla ricchezza sono i punti più vulnerabili della nostra civiltà. Se non raddrizziamo questo aspetto deviato, tutte le nostre forme di carità e di religione avranno a che fare con l’ipocrisia». Non è facile, ma occorre tenere in dialessi «due dati di fatto: da una parte, la proprietà è indispensabile per la libertà personale; d’altra parte, la proprietà viene impiegata come [...] una mazza con la quale estorcere guadagni immeritati dai lavoratori e dai consumatori e come principale strumento di oppressione».
La religione asociale: Gesù Cristo, pur essendo «lo spirito religioso più puro a noi noto, si scontrò con la religione. Il conflitto tra lui e i rappresentanti della religione organizzata non era occasionale né superficiale. Attraversò la sua intera attività, era una delle note dominanti del suo insegnamento, culminò in un grande duello spirituale tra lui e la gerarchia ebraica nei suoi ultimi giorni a Gerusalemme e condusse direttamente alla sua crocifissione». Come mai? «Egli criticava gli uomini più seriamente religiosi dei suoi giorni perché la loro religione nuoceva agli uomini invece di aiutarli. Era antisociale». In ciò Gesù ha ripreso e accentuato la polemica dei profeti del Primo Testamento contro quell’apparato sacerdotale-cerimoniale che «deviava l’energia spirituale, mettendo requisiti religiosi di minor importanza al posto dell’unico elemento fondamentale richiesto da Dio: la giustizia nella vita sociale e politica. Essi insistettero a più riprese sul fatto che Geova richiede giustizia e nient’altro. Il loro obiettivo era di rendere l’etica e la religione una cosa unica e inseparabile. Si battevano per l’efficacia sociale della religione».
Ieri come sempre, sino ai nostri giorni, i profeti hanno dovuto misurarsi col rischio di essere uccisi. Il significato autentico della “croce” è proprio questo. Non un’affezione masochistica al dolore né una sua sottovalutazione superomistica: ma il prezzo da pagare, di fatto, se si vuole rimanere coerenti con i propri ideali. Il suo valore è di «attrarre l’attenzione della comunità e mettere le cause sociali di quella morte sotto i riflettori»: quando ciò non accade, quando non «funge da campanello d’allarme per portare l’attenzione dell’intelligenza alla sua causa», è un dolore inutile. «Sprecato». «La salute morale di una nazione può essere misurata in base alla prontezza e accuratezza con cui comprende le sue voci profetiche, o le personalità, o gli eventi»: omaggiare la memoria di chi cade nell’esercizio della «opposizione al male con cognizione di causa» significa «utilizzare» il suo sacrificio per rilanciare le ragioni della sua lotta; riscattarne il peso di «male aggiuntivo»; farne, sia pure a malincuore, «un aiuto indiretto alla redenzione da un male sociale».
È probabile che alcuni passaggi del testo di Rauschenbusch suonino fastidiosi: necessità di una “aristocrazia” in grado di esercitare la leadership, apprezzamento della democrazia rappresentativa di origine borghese, difesa del diritto di proprietà come “corollario del diritto alla vita». Ma proprio questi passaggi rivelano una caratteristica generale estremamente interessante del ragionamento del pastore e teologo battista nord-americano. Infatti, schematizzando molto, si potrebbe asserire che dal IV secolo al XX il Cristianesimo ha inesorabilmente perduto la sua carica rivoluzionaria, sovvertitrice, innovatrice per diventare un apparato ideologico-organizzativo a difesa dell’ordine costituito beffeggiato da Fabrizio De André. Nel XX secolo, soprattutto grazie ai preti-operai europei e alla “Teologia della liberazione” sud-americana, fette notevoli della cristianità (cattolica e protestante) si sono risvegliate dal sonno dogmatico conservatore e hanno riscoperto la valenza critica, profetica, della vita di fede. Questo risveglio è stato variamente intrecciato con le istanze marxiste, come mostrato in maniera esemplare nel movimento internazionale dei “Cristiani per il socialismo”.
La crisi dell’Unione Sovietica e la piega per lo meno problematica della Cina popolare hanno compromesso, in maniera forse irreversibile, la credibilità della proposta social-comunista, trascinando con sé persino l’appetibilità della socialdemocrazia europea. Tutto ciò ha comportato delle ricadute anche nel mondo cristiano. Non senza i condizionamenti esercitati da Giovanni Paolo II e da Benedetto XVI, la crisi dell’alternativa socialista e comunista ha indebolito quella lettura sociale e progressista del Vangelo che, di fatto se non di diritto, a tale alternativa di stampo marxista era legata. Libri come Siamo tutti politici. Dalla repubblica dei partiti alla democrazia dal basso (Albatros, Roma 2018) di Piero Di Giorgi hanno il sapore di un’estrema, quasi disperata, testimonianza-appello di quella stagione ‘catto-comunista’ che – con rimpianto o con sollievo – ci siamo ormai lasciati alle spalle.
Da qui la rinascita di interpretazioni della Bibbia in chiave integralista, intimista, devozionale, quando non addirittura identitaria e xenofoba. Ma tramontato – o forse solo eclissatosi temporaneamente – il marxismo, davvero bisogna ritornare a un Cristianesimo astratto, ignaro dei drammi storici, inerte di fronte ai bisogni emergenti delle donne (soprattutto delle più deboli) e degli uomini del XXI secolo, e dei più emarginati? Ecco, libri come questo di Walter Rauschenbusch, scritti prima del connubio fra cristianesimo e socialismo, possono parlare in maniera convincente a quanti ascoltano dopola crisi di quel connubio. Possono attestare, eloquentemente, che il messaggio sociale di Gesù ha una propria identità e una propria tendenziale efficacia a prescindereda eventuali compagni di viaggio come il marxismo.
La “vera filosofia del Vangelo” è incompatibile con il capitalismo (almeno con il capitalismo ‘reale’) di suo. I cristiani che sposano incondizionatamente l’assetto etico-politico e socio-economico attualmente dominante sul pianeta, accettando come naturali delle sperequazioni sempre più accentuate fra ricchissimi e poverissimi, non possono ricorrere all’alibi della crisi del socialismo ‘reale’: la contestazione delle gerarchie sclerotizzate, del primato del profitto, delle spiritualità d’evasione non può considerarsi un prodotto che le Chiese hanno importato, occasionalmente, dall’esterno. Fa parte del DNA de L’ideale sociale di Gesù. Forse il messaggio gesuano è inconciliabile con il comunismo marxista (almeno nella sua interezza diagnostica e propositiva); certamente lo è con ogni sistema ideologico e economico che deforma il personalismo in individualismo, la libertà in irresponsabilità sociale, la democrazia in legalizzazione dell’ingiustizia, la fedeltà alla patria in nazionalismo, la cura della famiglia in familismo, l’apprezzamento dei valori della propria tradizione in chiusura miope alle ricchezze delle tradizioni altrui, la custodia del benessere economico e sociale raggiunto in sovrana indifferenza verso le sofferenze del mondo.
Insomma: il cristiano in quanto tale, anche se di orientamento liberal-democratico, è obbligato dalla propria stessa fede a vivere contro-corrente rispetto all’andazzo della globalizzazione capitalistica attuale. Nessuno lo obbliga a dirsi cristiano nell’epoca del pluralismo a trecentosessanta gradi; ma, se dichiara di esserlo, non può ignorare che il suo Maestro operò in vista del «nuovo ordine sociale del Regno di Dio con tale piena determinazione» da rappresentare «un costante rimprovero per quelli di noi che provano a vivere sulla base di una “lealtà divisa”, stando a cavallo tra le ingiustizie della forza, del profitto e dell’inumanità e la giustizia fraterna del Vangelo in cui dichiariamo di credere».
Se si esce dall’ottica difensiva e polemica tendente a stabilire quali sistemi politico-socio-economici non siano secondo l’inspirazione evangelica, si aprono all’orizzonte prospettive inedite. Che cosa significhi, in concreto, materializzazione del “Regno di Dio” in terra non lo sa nessuno dal momento che, in questi venti secoli, non si è mai realizzato. Indicazioni innovative come il popolarismo sturziano (di cui in questo 2019 sono già iniziati i convegni commemorativi più o meno retorici) sono state addomesticate, parodiate e strumentalizzate – per legittimare ideologicamente pratiche politiche inqualificabili – già Sturzo (e Dossetti) viventi e auto-esiliatisi.  L’utopia evangelica non sta alle nostre spalle come origine mitica né davanti a noi come promessa ultraterrena. È piuttosto qualcosa come un “ideale regolativo” che va perseguito giorno per giorno pur nella consapevolezza di un’impossibile attuazione definitiva.

http://www.istitutoeuroarabo.it/DM/lutopia-evangelica-nel-tempo-dellindifferenza/

1 commento:

Maria D'Asaro ha detto...

Disamina magistrale di un testo assai interessante. Grazie.