lunedì 22 agosto 2022

ATEISMO O RELIGIONE ? TERTIUM DATUR. DON SCORDATO COMMENTA (CRITICAMENTE) IL LIBRO DI CAVADI


Sono molto grato a don Cosimo Scordato per questa recensione, empaticamente critica, sulla prestigiosa rivista della Facoltà teologica di Sicilia “O THEOLOGOS”   - anno XXIX, 2021, 3

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RECENSIONI

A. Cavadi, O religione o ateismo? La spiritualità «laica» come fondamento comune Algra Editore, Catania 2021, pp. 133.

L'ultimo volumetto di A. Cavadi, O religione o ateismo? La spiritualità «laica» come fondamento comunein qualche modo ricapitola il suo percorso precedente, proposto in numerosi suoi testi, specialmente nel saggio Mosaici di saggezze: Filosofia come nuova antichissima spiritualità (Diogene, Bologna 2915) e ora formalizzato in modo divulgativo, non senza un dialogo ravvicinato con pensatori contemporanei. Seguendo la sintesi proposta da Vergani, A. Cavadi “di fronte all’aut aut fra ateismi assoluti e religioni rivelate confessionali ... propone la terza via di una spiritualità laica” (cit. on line). 

La prima interlocuzione è con Ronald Dworkin (1931-2013) Religione senza Dio, del quale Cavadi condivide inizialmente la definizione di religione (“una visione del mondo profonda, speciale ed esaustiva, secondo la quale un valore intrinseco e oggettivo permea tutte le cose”, cit. ib., p. 19); ma nella quale rileva l’assenza di due aspetti costitutivi: la pratica e la socialità; analizzandone l’uso proposto, Cavadi propende a utilizzare il termine religiosità invece di religione, secondo l’indicazione offerta già da Albert Einstein: “Sapere che ciò che ci è inaccessibile esiste realmente, manifestandosi come la più grande saggezza e la più grande bellezza che le nostre deboli facoltà possono comprendere in forma assolutamente primitiva: questa conoscenza, questa sensazione, è al centro della vera religiosità” (cit. p. 38). A questo punto, ritenendo importante una explicatio terminorum, A. Cavadi condivide nell’insieme la chiarificazione terminologica proposta da L. Berzano, Spiritualità senza Dio? (Mimesis, Sesto S. Giovanni 2014). Il termine spiritualità può essere inteso come “sistema di senso che rende plausibile per un individuo la propria biografia. In ciò, essa è cosa che va oltre l’osservanza dei riti, poiché riguarda l’essere più che la morale” (cit. ib., p. 27); di essa Cavadi propone ulteriori specificazioni (cf. ib., p. 33). Il termine religiosità indica “una dimensione antropologica che può essere vissuta solo da chi ammette una qualche forma di divino, di ‘sacro’, o, per lo meno, che non cessa di confrontarsi con l’ipotesi di una qualche forma di divino” ( cit. ib., p. 28). Il termine religione comprende tre specifiche caratteristiche: “appartenenza, credenza, pratica” (cit. ib., p. 29). Quindi la spiritualità è dimensione comune a tutti; la religiosità caratterizza credenti, ma anche panteisti e agnostici; la religione indica invece una peculiare forma spirituale di religiosità codificata istituzionalmente, attraverso testi, dottrine, culti e precetti. Va da sé che l’ordine, che vede la religione poggiare sulla religiosità e questa sulla spiritualità, andrebbe rispettato, così da non trovarci con una religione sprovvista di religiosità o di spiritualità; tante volte, però, detta mancanza è riscontrabile nelle religioni rivelate istituzionalizzate.

L’altra interlocuzione è col naturalismo della spiritualità filosofica, esemplificata con Orlando Franceschelli; detta prospettiva antropologica intende essere equidistante sia dall’antropocentrismo teologico che dall’assurdismo esistenzialistico; essa individua “nella saggezza della felicità possibile e solidale il senso più plausibile e piacevole delle nostre vite: dell’umanesimo che il principio natura ci sollecita a far fiorire nel presente dei nostri giorni sulla terra” (cit. ib., p. 45); detto naturalismo, lontano da amorali riduzionismi meccanicistici, propone una spiritualità laica capace di etica solidale. Parimenti, viene ricordata la mistica laica di Lombardo Vallauri, intesa come “un humanum laico, è laico come sono laici la matematica, il viaggio, l’innamoramento, l’arte, tutte le cose vere e belle, indipendenti dalla religione” (cit. ib., p. 53); per detta esperienza vengono suggerite alcune vie di meditazione: una prima via, che percorre in direzione dell’infinitamente grande; una seconda via in direzione dell’infinitamente piccolo; una terza via che si concentra sulla complessità; una quarta vita di meditazione profonda, che ha per oggetto l’infinito di incomprensibilità (cf (cit. ib., pp. 53-56). L’obiettivo è di “trasformare la vita in un poema ininterrotto, in un poema meditativo ininterrotto. Soffiare ogni giorno sulla brace della vita. Raggiungere, se possibile, lo stato di contemplazione ordinaria, avvalendosi flessibilmente, a seconda delle circostanze, di tutte le vie mistiche esplorate nei tempi forti...” (cit. ib., p. 57). Complessità che viene ripresa attraverso Stuart Kauffman, biologo e ricercatore statunitense, analista dei sistemi complessi e della loro relazione con la biosfera, la quale non è riducibile alla mera biologia né ancor meno alla fisica: “senza violare alcuna legge fisica, la vita nella biosfera, la sua evoluzione, la pienezza della nostra storia umana e il nostro concreto mondo quotidiano, sono reali anch’essi, non riducibili alla fisica e nemmeno spiegabili da essa” (cit. ib., p. 60). Ciò non comporta di per sé un creatore soprannaturale, piuttosto ci spinge a superare il meccanicismo cosmico per approdare al riconoscimento di “una meravigliosa creatività radicale” (ib.). Questa prospettiva dovrebbe aiutare a sanare le quattro lacerazioni della nostra moderna società laica: la divisione artificiale tra scienze naturali e scienze umane; la separazione tra i ‘fatti’ e i ‘valori’; il divorzio tra umanisti laici e vita spirituale; la distanza tra il consumismo e la mercificazione degli Occidentali e l’impellenza di un’etica globale. Lo scenario che si prospetta è quello di prendere atto dei limiti della nostra conoscenza. Ciononostante “riesaminare noi stessi come esseri viventi evoluti nella natura è, dunque, un compito culturale, con implicazioni per il ruolo delle arti e delle scienze umane, ma anche per il ragionamento giuridico, le attività economiche; e lo è anche per l’azione pratica, e infine per la reinvenzione del sacro: vivere con la creatività dell’universo che in parte noi co-creiamo” (cit. ib., p. 63). Il traguardo è in direzione di un’etica globale e di un incontro tra credenti e non credenti, realizzando uno spazio in cui fare “coevolvere le nostre tradizioni, laiche o religiose, senza perdere le loro radici, o la loro saggezza, verso una spiritualità condivisa” (cit. ib., p. 66).

  1. Cavadi guardando al futuro della religione esprime l’auspicio della ‘de-assolutizzazione’ delle religioni, non solo perché esse sono bisognose di alleggerimento rispetto ai condizionamenti anacronistici del passato; ma, positivamente, perché dovrebbero avere il compito di incrementare gli aspetti di umanizzazione dello sviluppo storico. “Molti dei compiti che hanno assunto quasi costitutivamente durante il periodo agrario dovranno essere abbandonati. Le religioni dovranno concentrarsi sul compito essenziale, che non cambierà: aiutare l’umano a sopravvivere diventando sempre più umano...” (J. M. Vigil, cit. ib., p. 71). L’autore è pure convinto che “religioni così poco presuntuose, scostanti, clericali [...] non sono facili da realizzare, ma senza la chiarezza di un modello utopico è del tutto impossibile che si realizzino” (ib., p. 72). Per realizzare detta istanza ogni religione non dovrà prescindere dalla dimensione profetica, da una fedeltà alla tradizione che sappia dare spazio a nuova energia positiva e creativa, anche in senso terapico (E. Drewermann); inoltre, deve appoggiare i diritti fondamentali dell’umanità a fronte di squilibri che consentono che l’’1% della popolazione mondiale detiene da sola una ricchezza equivalente a ciò che possiede il restante 99%; parimenti, alimentare i sentimenti e l’inconscio, coltivando il valore della femminilità, sulla linea dei grandi saggi dell’umanità, incluso il Nazareno: “In sostanza, quello che Gesù voleva portare nell’inferno della nostra esistenza non era altro che questo crollo e questa ricostruzione di un ‘ordine’ nella ‘giustizia’, a favore di una accettazione incondizionata di ogni singolo individuo nel campo di un affetto e di un’attenzione completamente immeritati, e tuttavia tanto più sicuri e affidabili” (E. Drewermann,. cit. ib., p. 74). 

La compatibilità della spiritualità filosofica con quella religiosa e confessionale viene condivisa da Fabrizio Mandreoli nella Postfazione; il quale, in particolare, afferma che la spiritualità filosofica “non solo non è contraria rispetto a un’esperienza credente pienamente [...] immersa nella propria tradizione, ma risulta essere un aiuto, un sostegno, un elemento di confronto per cercare la verità esistenziale e relazionale di quelle prospettive che animano e attraggono la propria esperienza di uomini e donne credenti” (Postfazioneib., p. 85). Le sollecitazioni che vengono da questo incontro sono molteplici e variegate; “il dialogo tra credenti e laici, tra le varie confessioni cristiane e tra le varie tradizioni religiose potrebbe essere pensato come un aiutarsi e sostenersi [...] a vicenda nel trarre, dal proprio bagaglio di sapienze, strumenti, possibilità, risorse interpretative e di prassi, utopie costruttive, energie ‘spirituali’ che aiutino tutti nella ricerca di una vita più autentica e più buona verso se stessi, gli altri, la propria terra” (ib., p. 86).

Come è comprensibile, la riflessione proposta attraversa diversi ambiti della conoscenza e, seppure connotata soprattutto in senso filosofico, chiama in causa diverse discipline: dall’antropologia alle scienze del linguaggio, dalla storia della filosofia alla politica, dalla storia delle religioni alla teologia, quest’ultima, a sua volta, nel diversificarsi delle sue discipline. 

Diverse sono le provocazioni del libro; esse risultano tanto più preziose in un momento in cui l’approssimazione, se non addirittura, una certa ambiguità linguistica, fa emergere l’esigenza almeno di chiarificare i termini del discorso; per conto nostro ci limitiamo a riprendere la tematica proposta focalizzandola sotto tre aspetti: il primo di carattere 'apologetico'; il secondo di carattere linguistico; il terzo ponendo la questione dell’esclusione pregiudiziale. 

  1. Il primo aspetto, certamente non estraneo alla vicenda autobiografica dell'Autore, ci pone dinanzi a quello che era il percorso tradizionale dell'apologetica, solo che l'Autore ne capovolge la direzione. L’apologetica tradizionale, che si è sviluppata soprattutto dal secolo XVIII fino al Concilio Vaticano II, si dedicava ai cosiddetti Preambula fidei, ovvero a ciò che doveva essere trattato preliminarmente, perché in qualche modo andava presupposto, ma anche giustificato, rispetto alla esplicita trattazione teologica. In questa prospettiva veniva fuori una costruzione di pensiero che, secondo un crescendo dal più generico al più specifico, doveva giustificare la propria appartenenza religiosa: la religione cattolica presuppone quella cristiana (che è distinta in diverse confessioni), la quale presuppone la religione tout court, la quale presuppone la religiosità e prima ancora la spiritualità. All’inizio deve essere affermata la spiritualità dell'uomo, ovvero la sua collocazione originale rispetto al mondo delle altre creature; il passaggio successivo prevede la riconoscibilità e la dimostrabilità della religiosità umana come costante di ogni cultura (classico resta Il trattato della religione di M. Eliade); detta religiosità, a sua volta, si sviluppa nelle diverse forme delle religioni, le quali possono essere immanentistiche o teistiche e queste ultime possono essere politeistiche o monoteistiche; tra le religioni monoteistiche, infine, viene dimostrata la verità della religione cristiana e a conclusione (in ambito cattolico) la verità della religione cattolica. L’apologetica tradizionale nel trattato De vera religione grosso modo proponeva, salvo piccoli aggiornamenti, questa dinamica di pensiero. Ma in Occidente, in seguito alla crisi della Riforma protestante con le conseguenti guerre confessionali, si rese inevitabile quel processo che, a partire dalla famosa affermazione di Grozius etsi Deus non daretur (ovvero interpretare la realtà secondo la sua logica interna e senza chiamare in causa l’intervento di Dio)invitava a conoscere i fatti della storia mettendo tra parentesi la propria appartenenza religiosa. Finché reggeva il paradigma della societas christiana, dovendo condividere un punto di partenza comune, si presupponeva di essere cristiani e quindi si faceva riferimento culturale alla religione cristiana; ma, man mano che l’Illuminismo avanzava, ci si accontentò del riconoscimento di Dio nei limiti della ragione umana e quindi nella forma del teismo e del deismo, dando spazio all’atteggiamento religioso; finché la Rivoluzione francese pose a base del ripensamento della società la libertà, l’uguaglianza e la fraternità, che potremmo considerare come remota formulazione della spiritualità umana, da intendere laicamente ovvero secondo la condizione della cittadinanza. La Dichiarazione dei diritti fondamentali dell'uomo da parte dell'ONU e infine nel 1989 la Dichiarazione dei diritti dei bambini sono storia recente, che ci fa cogliere il senso politico di detto percorso alla ricerca delle condizioni di convivenza e vivibilità sociale, che sappiano ospitare le differenze che esistono fra le persone e i popoli. 

    Cavadi conosce bene questo percorso e ce lo ha voluto riproporre a ritroso, date le profonde trasformazioni che ha subìto l’Occidente, che si caratterizza per la sua condizione ormai cosiddetta post-cristiana; in vista di una convivenza politica rispettosa egli propone come punto di partenza la spiritualità, che chiunque può condividere nella misura in cui accetta che l'uomo sia un animale spirituale. In verità ci vorrebbe un altro passaggio per dare spazio anche a coloro che non si riconoscono nella spiritualità perché danno rilevanza alla materialità, ovvero alla conoscenza che riconduce tutto alle componenti fisiche, organiche, psichiche con un certo determinismo a livello personale, o ai processi di produzione economica come base della storia secondo la prospettiva del materialismo storico a livello collettivo. 

Potremmo chiamare questo percorso, secondo un'espressione una volta usata in matematica, procedimento “del minimo comune denominatore”. Secondo il procedimento sopraindicato, l'approdo conclusivo dovrebbe essere alla vera spiritualità, ovvero a quella spiritualità che rende possibili (ma non necessariamente auspicabili) i passaggi successivi, ma che da sola basterebbe a dare una qualità antropologica alla condizione umana e alla convivenza sociale.

  1. Venendo al secondo aspetto, ovvero quello linguistico, il contributo di Augusto privilegia il percorso a cono o a piramide; egli si muove secondo il procedimento che classicamente potremmo chiamare dalla specie al genere. Possiamo considerare le diverse religioni come specificazioni della religione, la quale a sua volta è specie della religiosità (intesa come apertura verso il trascendente), la quale è specie della spiritualità, condizione comune a tutti gli uomini. Detta precisazione terminologica consente ad Augusto di tracciare una linea in qualche modo demarcatoria, che favorisce la chiarezza del percorso. 

    Ma, venendo al titolo del libro, forse andrebbe fatta qualche ulteriore precisazione. La formulazione mette insieme tre termini: religione, ateismo e spiritualità. La prima domanda che sorge, sul piano logico, è se si tratta di termini opposti o contrari. Nel caso di termini opposti potrebbero essere tutti veri o tutti falsi o parzialmente veri o falsi; invece, se si tratta di termini contrari allora se è vero un termine sarà falso il suo contrario e viceversa. In verità l'accostamento proposto mantiene una qualche ambiguità nella formulazione o...o, anche se l'orientamento prevalente sembra quello di considerarli opposti e non contrari. Per considerarli contrari, per correttezza, a religione sarebbe contraria la mancanza di religione, ad ateismo è contrario il teismo, a spiritualità è contraria la materialità o il materialismo (alla laicità sarebbe contrario il clericalismo?). Non essendo posti come termini contrari non vanno pensati come escludentesi a vicenda. Dall’andamento del testo non sembra che uno dei termini voglia escludere come impraticabile gli altri termini; infatti si può prevedere una spiritualità dell’ateo o una mancanza di religiosità in una religione rivelata (secondo l’ipotesi sottolineata da Vergani). A tal proposito, può essere utile fare l'esempio di due termini che spesso, inopportunamente (anche se ciò è comprensibile alla luce della vicenda culturale dell’Ottocento), vengono accostati come fossero contrari; si tratta dei due termini classici fede e ragione. In verità va affermato che il contrario della fede è l’incredulità e il contrario della ragione è l’irrazionalità. Quindi non è per niente detto che la fede sia irrazionale, né che la ragione escluda ogni forma di fede/fiducia verso qualcosa come l’assunzione di un punto di partenza (cf. teorema di K. Goedel). Certamente, resta il fatto che, per correttezza logica, dovremmo ritenere che, se è vera una affermazione razionale, sarà falsa l'affermazione contraria, relativa allo stesso argomento e considerata dallo stesso punto di vista. 

Per carità, questa precisazione non allontana i problemi che risentono di tante ambiguità che ci trasciniamo dal passato circa l’uso delle parole; sappiamo, infatti, che l'ambito del così detto 'irrazionale', come viene inteso in alcuni ambiti come, per esempio, l'arte o l'inconscio, non è esattamente il contrario della razionalità, ma è semplicemente altro rispetto al razionale, risorsa diversa a disposizione della comprensione dell'umano. 

Offriamo la precedente osservazione per una verifica ulteriore dei contenuti offerti dal libro e, volendo fare chiarezza linguistica e semantica, ci si dovrebbe preliminarmente mettere d’accorso sulle singole accezioni delle parole usate. Basti ricordare la famosa posizione di K. Barth, grandissimo teologo evangelico, citato dallo stesso A. Cavadi, il quale affermava che il cristianesimo non è una religione! Intendendo per religione la pretesa dell’uomo di conoscere Dio, senza che sia Dio a farsi conoscere! Insomma il discorso resta aperto. 

  1. Il terzo ambito è quello che abbiamo anticipato come l'Escluso. Interessante il percorso di una apologetica verso il minimo comune denominatore; preziose le chiarificazioni linguistiche, ma è rimasta fuori una domanda alla quale non si riesce a dare diritto di accesso. É correttamente prevedibile che, pur nel grande rispetto della ricerca dell’uomo nei confronti di Dio o del Divino o del Religioso o altro ancora, Dio venga pensato, ricercato, scoperto come Colui che cerca l’uomo e che voglia parlargli? Come garantire questa possibilità? Evidentemente, muovendoci dentro un linguaggio limitato e già caratterizzato, la formulazione precedente può risultare maldestra perché caratterizzata da una sorta di petitio principii, ovvero dare per scontato ciò che andrebbe preliminarmente dimostrato; ciò non toglie che se ogni formulazione umana è passibile di antropologicità (l’uomo in fondo riesce a parlare solo di se stesso), non possiamo rinunziare a dare spazio alla possibilità che Dio possa parlare di se stesso e, pur dentro il parlare umano, possa e voglia comunicare e dare se stesso. E’ la possibilità più bella e più grande che dobbiamo mettere in conto; diversamente, l’affermazione o negazione su Dio (teismo o ateismo) in fondo rischiano di somigliarsi nella misura in cui tutte e due le posizioni fanno dipendere Dio dall’uomo e non consentono che Dio possa parlare di se stesso e rendersi conoscibile e sperimentabile dall’uomo; in questo modo, l’uomo corre il rischio di arrogarsi il diritto di porsi in qualche modo al di sopra di Ciò/Colui di cui si occupa. Non vogliamo scivolare nel cosiddetto argomento ontologico di S. Anselmo, piuttosto vogliamo chiedere a noi stessi: chi siamo per decidere di Dio? 

Sullo sfondo si delineano tante altre prospettive. Le diverse posizioni che l’uomo o che il mondo siano principio e fine di tutto e di tutti; che non ci si deve illudere di trovare un senso alle cose perché non l’hanno; che le cose hanno solo il senso che noi riusciamo a dare e altro ancora; ma se l’uomo, tutte le creature e il mondo sono il “dato che” (J- L. Marion), che si fa domanda, come fanno a essere il punto di partenza e di arrivo della Realtà nella sua interezza? 

Certamente il presupposto antropologico ci impegna a continue purificazioni del linguaggio e del pensiero, con tutte le precauzioni di de-mitizzare , de-sacralizzare, de-ellenizzare e altro ancora. Senza negare valore a tutto quello che l’uomo tenta di dire su di sé, sul mondo e sulla storia; non potrebbe essere tutto questo già parlato e portare le tracce di una Parola che si fa strada, che si include nella ricerca e la apre al continuo superamento? L’autorivelarsi di Dio, che prende forma nell’autodonarsi nella forma della Parola che si fa carne, a noi sembra l’orizzonte più ampio, che può comprendere e includere in sé sia la spiritualità che la materialità, sia le esperienze di religiosità, sia le forme delle religioni, sia il processo del farsi del mondo, sia le ambiguità della storia... A. Cavadi cita all’inizio del suo testo una bella affermazione di Alberto Maggi che vale la pena riprendere perché, in qualche modo, ci colloca al di là del metodo e del percorso proposto. “La differenza tra religione e fede è che mentre la prima nasce dagli uomini ed è diretta verso la divinità, la seconda nasce da Dio ed è rivolta agli uomini (“Non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi”; IGv 4,10; Rm 5,8). Mentre nella religione conta ciò che l'uomo fa per Dio, la fede nasce da quel che Dio fa per gli uomini. Nella religione l'uomo è tutto orientato verso il suo Dio. Nella fede l'uomo si dirige con Dio e come Dio verso l'altro. Nella religione l'uomo viene assorbito dalla divinità, e si estranea dai suoi simili. Nella fede Dio potenzia l'uomo, dilatandone la sua capacità d'amore, e lo coinvolge nella sua azione benefica verso ogni uomo. nella religione è sacro il Libro. Nella fede è sacro l'uomo (Mc 2, 7). Nella religione è importante il sacrificio, nella fede l'amore” (cit. p. 22). Non è proprio questa differenza, o almeno la sua ragionevole possibilità, che può rimettere in discussione quanto abbiamo, pur ragionevolmente, affermato?

Cosimo Scordato

2 commenti:

germano federici 1950 ha detto...

Per rimanere nel campo dei credenti, la dicotomia tra fede e religione mi pare nasca dalla separazione tra Creatore e Creatura in auge nella tradizione cristiana tutta o quasi ...
Partendo da certe affermazioni di Gesù (o di qualche suo seguace, non importa) "chi vede me vede il padre", "chi fa questo a uno dei piccoli, lo fa a me" non posso che ritenere esista un legame "materiale" oltre che spirituale tra Creatore e Creatura.
Molto interessanti anche e soprattutto le ultime proposizioni del teologo recensore del testo di Cavadi, perché riassumono benissimo i vicoli ciechi in cui la teologia cristiana si è cacciata separando in modo radicale il Creatore dalla sua Creatura. Se il Creatore è TUTTO (un tutto che si rivela nel tempo, che ne sappiamo noi?) dentro la materia della creazione, allora lo Spirito ne anima tutti i processi, sucitando la fede dall'interno dell'uomo. Se ne è estraneo (in tutto o in parte), allora lo iato viene colmato dalla religione. Se il Creatore è TUTTO dentro la materia, allora tutto è grazia. Se non lo è, o lo è solo in parte, allora servono i sacramenti.
Cum enim praeexisteret Salvans, oportebat et quod salvaretur fieri, ut non vanum sit Salvans (Ireneo, Adv, Haer. 3,22,3). Se le vicende del Salvatore e della Creatura sono tutt'uno, c'è spazio solo per la fede. Se abbiamo anche la Religione forse è perché non abbiamo creduto davvero all'Incarnazione.

Alfio Grasso ha detto...

Carissimo Augusto,
ti ringrazio molto, ho ricevuto, apprezzato e condiviso.
A presto,
Alfio