venerdì 29 agosto 2025

MELONI OSANNATA DA "COMUNIONE E LIBERAZIONE": DOLORE, MA SENZA STUPORE

 

L’AUTOGOL RIMINESE DEL CATTOLICESIMO ITALANO

La calorosa accoglienza che i partecipanti al meeting di “Comunione e liberazione” hanno riservato a Giorgia Meloni può addolorare, ma non sorprendere. Può addolorare perché se una delle poche organizzazioni cattoliche ancora capaci di mobilitare in Italia pezzi (sia pur minoritari) di fasce giovanili esprime entusiastico consenso al Capo del governo più lontano dallo spirito della Costituzione sino ad oggi registratosi, vuol dire che davvero camminiamo sull’orlo del baratro: quando gli adulti di domani già adesso condividono il conservatorismo reazionario degli adulti di oggi, che speranze di miglioramento culturale e politico si possono nutrire per i prossimi decenni?

Questo dolore – più acuto per chi si è formato alla scuola di Jacques Maritain, Emmanuel Mounier, Giorgio La Pira, Giovanni XXIII, Paolo VI, Tina Anselmi, Ernesto Balducci, David Maria Turoldo, Giovanni Franzoni, Leonardo Boff…- non può, però, accompagnarsi a nessuno stupore. La platea di Rimini è la stessa che applaudiva Giulio Andreotti (già oggetto di accuse gravissime, confermate in processi da cui è uscito non assolto ma indenne per prescrizione dovuta a scadenza dei termini) e poi Silvio Berlusconi (al cui partito, dopo varie trasmigrazioni non interrotte da una condanna definitiva a cinque anni e dieci mesi per corruzione nel 2019, finirà con l’aderire Roberto Formigoni, leader indiscusso di CL). Nessuna critica specifica merita Giorgia Meloni: fa quello che sa fare, che ha sempre fatto, che sanno fare i demagoghi, cioè accettare ogni genere di invito per promettere a chi l’accoglie ciò che desidera sentirsi promettere. Diversa la valutazione del Movimento cattolico che  formula tale genere di inviti: legando le proprie sorti – mediante una legittimazione reciproca – alle formazioni più lontane dal messaggio evangelico, non si accorge di segare il ramo su cui è appollaiato. Infatti il cattolicesimo è già in crisi dal punto di vista dell’insegnamento teologico, ‘dogmatico’: se anche sul piano etico, ‘pratico’ si uniforma alla maggioranza mondiale spietatamente predatoria, che attrattiva gli rimane? Quale differenza specifica dovrebbe salvarlo dall’irrilevanza? Secondo uno dei quattro vangeli Gesù stesso avrebbe avvertito: “Voi siete il sale della terra; ma se il sale perde il sapore, con che cosa lo si renderà salato? A null’altro serve che ad essere gettato via e calpestato dalla gente” (Mt 5, 13).

 

                                                                                                              Augusto Cavadi                                                                                                                                                                                                                                                            www.augustocavadi.com

Versione originaria illustrata:

https://www.zerozeronews.it/lautogol-del-cattolicesimo-italiano-secondo-il-vangelo-di-comunione-e-liberazione/


giovedì 28 agosto 2025

L'ECONOMIA ESIGE POLITICA, LA POLITICA ESIGE ETICA, L'ETICA ESIGE...?

Veramente l’economia (come scienza e come pratica sociale) ha bisogno di più politica per essere governata, controllata, orientata?

La risposta secca, netta, è certamente errata. Infatti è vero che l’economia si è svincolata da alcune ideologie e prassi politiche, ma non da tutte indiscriminatamente. Si è autonomizzata dalle politiche in cui sia ancora centrale il ruolo della società, dello Stato, della giustizia, dell’equità, della solidarietà internazionale…; non certo dalle politiche incentrate sul primato dell’individuo, della produttività, della concorrenza, del consumo, del sovranismo internazionale…

Una considerazione simile va avanzata se passiamo dal rapporto economia/ politica al rapporto politica/etica. Davvero la politica si è disancorata dall’etica? Da alcune versioni dell’etica, certamente. Ma non da tutte. Infatti la maggior parte delle formazioni politiche in Italia e nel mondo possono rinnegare (o, almeno, di mettere fra parentesi) l’etica pacifista, ma con ciò stesso non possono non adottare un’etica militarista; possono rifiutare l’etica internazionalista, ma a costo di sposare l’etica nazionalista; possono deridere l’etica ambientalista, ma solo abbarbicandosi ancor più all’etica antropocentrica…Insomma: non c’è politica, per quanto perversa, priva di una sua etica. Tale etica spesso non è sbandierata alla luce del sole: resta celata, innominata, inosservata, ma proprio così permane a operare indisturbata. Questa strategia dell’occultamento è favorita dalla resistenza psicologica, anche in osservatori ‘progressisti’, a parlare di etica neo-nazista o di etica mafiosa (si preferisce la scorciatoia di bollare i nazisti o i mafiosi come “privi di etica”). Ma il nostro silenzio non le cancella.

 

L’orizzonte etico è l’ultimo orizzonte fondativo?

Se queste precisazioni concettuali e linguistiche risultano condivisibili, posso tentare di ampliare lo scenario.

L’economia va subordinata a certe politiche, non alla politica indiscriminatamente, così come la politica va subordinata a certe etiche, non all’etica tout court. Ma queste etiche ragionevoli, realistiche, propositive (di varia matrice teologica e filosofica) costituiscono l’orizzonte fondativo ultimo? In questi anni mi sono convinto che, se etiche del genere sono necessarie per salvarci come umanità, non sono però sufficienti.

Sono necessarie: se un’etica comporta chiarezza mentale, rigore comportamentale, fatica della ricerca, senso del dovere, tensione alla coerenza, fedeltà ai propri principi, essa – attraverso l’incarnazione in uomini e donne viventi – può condizionare, positivamente, vari progetti politici che, a loro volta, possono indirizzare le opzioni economiche.

Ma anche le migliori etiche proposte al dibattito pubblico si rivelano, alla distanza, insufficienti. Stentano a farsi “senso comune” (Antonio Gramsci) e – tranne momenti tragici della storia personale e/o collettiva – vengono come erose dalla quotidianità, dai suoi compromessi, dal suo tran-tran. Per mantenersi operanti, esse hanno bisogno di un “supplemento d’anima” (Henry Bergson): esigono un surplus di inspirazione, di slancio, di entusiasmo che renda spontanea, se non gioiosa, la vita etica. Molte etiche nella storia sono state sostenute, animate, da queste motivazioni più-che-razionali che, in mancanza di meglio, possiamo denominare “spirituali”.

Chiudo dunque (provvisoriamente!) il cerchio: l’economia ha bisogno di ‘buone’ politiche; le ‘buone’ politiche si fondano su ‘buone’ etiche; ma queste ultime necessitano, per essere attive e trasformative, di   ‘buone’ spiritualità. Le grandi battaglie di civiltà – per l’ambiente, per la pace, per la giustizia sociale, per il superamento delle guerre, dei razzismi, delle mafie - hanno bisogno di simboli, di miti fondativi,  di poeti, di musiche, di canzoni, di romanzi, di film. Gandhi, Martin Luther King, Nelson Mandela (e i loro splendidi compagni di lotta, quasi sempre ignoti agli storici) avrebbero resistito tanto a lungo senza una dimensione spirituale?

La spiritualità laica come terreno comune da cui ripartire

Tradizionalmente tale dimensione è stata veicolata da religioni. Esse, almeno in grandi aeree del pianeta come America settentrionale, Europa, Russia, Cina, sono in crisi: scontano secoli di timidezze, di ambiguità e non di rado di vere e proprie complicità. Possiamo assistere al loro lento, ma inesorabile, naufragio con indifferenza o, addirittura, con compiacimento. Ma attenzione: sono immensi gusci vuoti che però hanno veicolato dei valori umanamente validi. Si lasci pure che i gusci si decompongano, ma si recuperino alcuni valori che – in misura differente secondo i casi - custodivano e tramandavano: il gusto del silenzio, il piacere della contemplazione, la familiarità con la lettura di Testi, la comunione con la natura, la compassione per la sofferenza dei propri simili…Sono valori che meritano di essere  preservati e valorizzati. E’ ciò che, in parte, sta tentando papa Francesco su un registro comunicativo ‘laico’, appellandosi all’umanità degli uomini, prescindendo da appartenenze ecclesiali  e opzioni di fede (e suscitando dunque la fronda dei bigotti della sua Chiesa).

Già: ciò di cui abbiamo urgenza oggi è una spiritualità “laica”, antropologica, naturale. Una spiritualità “semplicemente” umana (intendo che assuma il meglio dell’umanità, ricordando, con san Tommaso d’Aquino,  che non tutto ciò di cui l’uomo è capace è “umano”).

Mi ha colpito leggere in un libro del filosofo francese contemporaneo  André Comte-Sponville (significativamente intitolato Lo spirito dell’ateismo. Introduzione a una spiritualità senza Dio): “la spiritualità è una cosa troppo importante perché la si lasci in mano ai fondamentalisti” (p. 8). Molti anni prima, in area spagnola, Marià Corbì aveva pubblicato il corposo volume (solo adesso disponibile in traduzione italiana) Verso una spiritualità laica. Senza credenze, senza religioni, senza divinità. Su questa transizione insistono molti degli autori ospitati nei diversi volumi della Collana editoriale “Oltre le religioni” delle Edizioni Gabrielli. Ma, poiché siamo partiti dall’economia, mi pare significativo che alla necessità di una valida, condivisa, praticabile spiritualità siano pervenuti anche due stimati economisti (sia pur ‘eretici’ rispetto all’ortodossia dominante nel loro campo di indagine) della cui amicizia mi onoro.

Uno è Serge Latouche che, nel 2019, ha pubblicato Come reincantare il mondo. La decrescita e il sacro (Bollati Boringhieri, Torino) dove, tra l’altro, scrive che un’economia non predatoria esigerebbe “un certo reincanto del mondo” da intendere non “nel senso dell’emergere di una nuova mitologia e auspicare il ritorno degli dei”, ma come “ristabilire la nostra capacità di meraviglia di fronte alla bellezza del mondo e fare appello a una sorta di spiritualità laica” (p. 10).

Un altro è Maurizio Pallante che nel 2021 ha pubblicato Spiritualità, dono del tempo, contemplazione. Un approccio laico (Edizioni Messaggero, Padova) in cui sostiene che la spiritualità “si manifesta in ogni individuo in forme diverse che, nel loro insieme, delineano un paradigma culturale alternativo a quello dominante nelle società che hanno finalizzato l’economia alla crescita della produzione di merci”; all’interno del quale “la meditazione è più importante della storia, anche se l’azione non è sottovalutata”; “la contemplazione della bellezza prevale sulla ricerca dell’utilità, la durata nel tempo sull’effimero, la collaborazione  e la solidarietà sulla competizione, l’attenzione nei confronti degli altri sull’indifferenza, l’ equità sulle diseguaglianze tra gli esseri umani, il biocentrismo sull’antropocentrismo, le relazioni umane disinteressate sui rapporti mercantili, il tempo degli affetti sul tempo del lavoro” (pp. 32 – 33).

Augusto Cavadi

“Viottoli”, anno XXVIII, n° 1/2025

lunedì 18 agosto 2025

LA PROSSIMITA’ DEL LONTANO, LA LONTANANZA DEL PROSSIMO

Con gradualità, ma inesorabilmente, noi che apparteniamo alle ultime generazioni stiamo vivendo una strana inversione: il lontano (nello spazio) si fa sempre più prossimo, il prossimo si fa sempre più lontano. L’anziana donna di Kiev raggiunta da un missile mentre armeggia ai fornelli o il neonato di Gaza congelato dal freddo sono qui, sullo schermo televisivo, a pochi metri dalla nostra tavola e – per non farci rovinare la digestione – dobbiamo almeno sottoporci al piccolo fastidio di cambiare canale.

Di contro, è raro che si viva con i genitori o con i figli o con i fratelli nella stessa (grande) casa: possiamo abitare nello stesso condominio, perfino sullo stesso pianerottolo, ma a patto di starcene ‘appartati’ in appartamenti separati. Il lontano ci è sempre più vicino, il vicino ci è sempre più lontano: un bene, un male? Certamente un dato oggettivo.

La prossimità del lontano

Che il mondo sia diventato un “villaggio globale” comporta di sicuro dei progressi morali. Prigionieri del tribalismo provinciale restano solo gli animi piccini che vogliono restarvi: è possibile conoscere in tempo reale le cose orribili e bellissime che avvengono sul pianeta, allargare i propri orizzonti mentali e cordiali, liberarsi dalla condanna del tradizionalismo particolaristico. Il cattolico o il buddista potrà pure restare, alla fine, cattolico o buddista, ma con consapevolezza, dopo aver visitato (almeno grazie a un documentario televisivo) un Paese shintoista o aver conversato più volte con un vicino di casa islamico. Non si muore con la stessa mentalità acquisita nell’ambiente in cui si è nati per totale ignoranza di  alternative.

Queste opportunità hanno un prezzo. Sul piano intellettuale si è costretti a operare faticoso discernimento: tanto più faticoso quanto più ampia è la gamma delle sapienze, delle visioni-del-mondo, di cui si viene a conoscenza. Non basta avere avuto un nonno e un padre comunisti in Emilia-Romagna per diventare comunista (o, per automatismo oppositivo, fascista): puoi diventarlo, ma non senza aver fatto i conti con  le notizie provenienti dalla Cina popolare o dalla Corea del Nord. Un prezzo altrettanto elevato -  forse più impegnativo – è d’ordine psicologico: la prossimità delle tragedie sparse sul pianeta di cui siamo testimoni in presa diretta è troppo angosciante. La marea di  dolore dei viventi senzienti ci sommerge, ci soffoca. All’inizio una notizia magari tocca qualche corda e stimola un minimo di reazione: la firma in calce a un appello, la partecipazione a un corteo, la spedizione di un contributo in denaro…Ma, alla lunga, ci scoraggiamo. Per un meccanismo di difesa attiviamo dei filtri emotivi sempre più spessi sino a quando ci accorgiamo che non ci ferisce più nessuna informazione. Sopravviviamo perché anestetizzati dal senso di impotenza: ci convinciamo che non c’è nulla di veramente innaturale o inumano. Ciò che in piccole dosi ritenevamo assurdo, se ci assedia in proporzioni planetarie, finisce con l’apparirci ineluttabilmente ‘normale’.

La lontananza del prossimo

Anche il processo sociologico di allentamento dei rapporti primari – per cui in quanto individui cerchiamo un distanziamento fisiologico dalla stretta dei congiunti e dei vicini  – presenta aspetti positivi.  Nella mia infanzia, soprattutto quando trascorrevo i mesi estivi nei piccoli comuni dove vivevano i miei nonni paterni e materni, ho fatto in tempo a conoscere quanto pesantemente potessero agire il condizionamento familiare e il controllo sociale sullo stile di vita dei singoli: più che il proprio convincimento interiore bisognava rispettare le attese (spesso le pretese) del ‘prossimo’. Non ritengo che l’esistenza mia e dei miei coetanei, molto più emancipata da questo genere di vincoli anagrafici e topografici rispetto alle generazioni precedenti, sia stata affettivamente meno ricca: abbiamo avuto, e abbiamo, le nostre relazioni ‘corte’, ma selezionate. Non siamo privi di un ‘prossimo’, ma non abbiamo lasciato al caso di assegnarcelo: l’abbiamo individuato, prescelto, adottato.

Possiamo concludere che va tutto meglio rispetto a epoche precedenti? Sarebbe alquanto ingenuo. Mi pare, infatti, che nella possibilità (apprezzabile) di potersi scegliere il proprio prossimo covi un rischio non irrilevante: di legarci esclusivamente a chi ci somiglia (per mentalità, condizione socio-economica, orientamenti religiosi, preferenze politiche e così via). La dinamica del simile che cerca il simile può condurre a un esito paradossale: che al tribalismo per nascita si sostituisca il tribalismo d’elezione. Al cerchio limitato fra indigeni si sostituisca il cerchio limitato fra associati in nome di interessi (non solo economici) comuni. Quando ciò accade l’incontro con il prossimo perde una dimensione peculiare che gli dà sapore: l’alterità, la novità, la sorpresa.

Nel vangelo secondo Luca (10, 25 – 37) viene riportata una parabola attribuita a Gesù di Nazareth che costituisce una risposta spiazzante alla domanda su chi sia il nostro “prossimo”. Conosciamo la risposta suggerita dai benpensanti di ogni tempo (in questi anni l’hanno esposta, a proposito dell’ordine di precedenza nell’accoglienza dei migranti, esponenti della Lega come Borghezio e eminentissimi cardinali come Biffi): ‘prossimi’ sono i tuoi familiari; poi i tuoi concittadini; poi i tuoi connazionali e infine i tuoi correligionari. Il vangelo capovolge la sequenza (e in maniera tanto più sconvolgente perché con il tono di enunciare l’ovvio) : il tuo ‘prossimo’  è, prima di tutto e spesso esclusivamente, uno che, in quanto samaritano, appartiene a un’altra confessione religiosa e a un altro gruppo etnico, dunque estraneo non solo alla tua famiglia d’origine ma anche al tuo villaggio. Come se alla domanda di un europeo bianco, capitalista, liberista e cristiano si rispondesse che il prossimo è un africano nero, proletario, comunista e animista. Se non vedo male, l’intenzione originaria dell’evangelista è di evidenziare ciò che davvero ci rende prossimo l’uno per l’altro: la “compassione” attiva, operativa, efficace (come raccogliere un ferito sconosciuto dalla strada e affidarlo, a proprie spese, alle cure di un albergatore). Ma qui m’interessa un altro aspetto del racconto: l’imprevedibilità. Il ‘prossimo’ è l’inaspettato, l’insospettabile. Se il samaritano avesse optato, come criterio di fondo nella scelta della propria cerchia, per l’omogeneità socio-culturale, il giudeo agonizzante non sarebbe rientrato neppure nel raggio del suo sguardo: non sarebbe diventato il suo ‘prossimo’ né egli il ‘prossimo’ di lui.  E’ solo in quanto aperti all’inatteso che, liberatici da prossimità imposte dalla sorte e indesiderate, possiamo arricchirci di prossimità  consapevolmente perseguite da noi. E forse consentirci una delle poche esperienze del divino: l’irlandese Richard Kaerney, nel suo Ana-teismo. Tornare a Dio dopo Dio, si è chiesto se, nell’epoca della sospensione delle antiche certezze su Dio da parte di credenti e di atei, la religiosità autentica non si manifesti come apertura allo straniero nella scommessa fra ospitalità e ostilità.

E’ noto l’apologo di Schopenhauer sui due porcospini che, se avvertono freddo, si avvicinano l’uno all’altro ma, se si avvicinano, si pungono e avvertono la necessità di allontanarsi. Questa dialettica fra desiderio di prossimità e bisogno di distanza è verificabile nella maggior parte dei casi, ma – a differenza del teorico del pessimismo – siamo costretti ad ammettere che la statistica registra anche delle eccezioni: talora fra due soggetti scatta una sintonia così forte da indurre a disarmarsi, a ritrarre gli aculei per non rovinare una ‘prossimità’ fruita con piacere, in nessun senso subita passivamente. Ammettere questi casi non è buonismo bigotto (da deridere dall’alto – o dal basso – della propria infelicità aristocratica), ma realismo a trecentosessanta gradi, dettato da onestà intellettuale. A ognuno/a di noi può capitare – se non gli è già capitato – di tradurre, nella propria visione-del-mondo, ciò che Tagore confidava al suo Dio: “Mi hai fatto conoscere ad amici che non conoscevo./ Mi hai fatto sedere in case che non erano la mia./ Mi hai portato vicino il lontano, e reso l'estraneo un fratello. / In fondo al cuore mi sento a disagio quando abbandono l'abituale rifugio;/ scordo che il vecchio abita nel nuovo, e là tu stesso hai dimora” (Gitanjali, 63).

Augusto Cavadi

www.augustocavadi.com

 Fonte: 

“Nuove frontiere della scuola”, n. 66 (XXI, 2024)

 


giovedì 14 agosto 2025

QUANDO MEDITTERANEO NON SIGNIFICAVA IGNORARSI, DIFFIDARE, ODIARSI

 

Tra i gioielli artistici della Sicilia spiccano le architetture arabo-normanne (o, come sarebbe più corretto, islamo-normanne dal momento che la conquista della Sicilia nel IX secolo avvenne ad opera di eserciti nord-africani di religione musulmana, ma non di etnia araba). Tra questi monumenti ammirevoli la Cattedrale di Palermo (nonostante alcune superfetazioni esterne e soprattutto i pessimi rifacimenti dell’interno).

Ed è in una colonna del portico meridionale del tempio cristiano che troviamo una traccia, poco nota, di quest’epoca contrassegnata, oltre che dalla bellezza estetica, da grande sinergia culturale, ben diversa dalle posture intolleranti nel Mediterraneo contemporaneo. Si tratta di un’iscrizione in lingua araba tratta dal Corano (sura 7, v. 54): “Egli copre il giorno col velo della notte che avida l’insegue; e il sole e la luna e le stelle Egli creò, soggiogate al Suo comando. Non è a Lui che appartengono la creazione e l’ordine? Sia benedetto Dio, il Signore del Creato!”

Augusto Cavadi

www.augustocavadi.com

“Gattopardo” (edizione Sicilia)

Giugno 2025

 

 

venerdì 8 agosto 2025

QUANDO LA FILOSOFIA CI INTERPELLA INESORABILMENTE : SOCRATE L'ANTIPATICO

 Se per tredici anni abbiamo frequentato la scuola (dalla primaria all’esame di Stato) e non abbiamo mai incontrato una docente o un compagno o un personaggio storico che ci abbiano messo in crisi, costringendoci a vedere come in uno specchio la banalità del nostro modo di condurre l’esistenza e inducendoci a mutamenti significativi, abbiamo davvero perso anni preziosi.

A qualcuno di noi più fortunato è capitato di essere sconvolto da più di un incontro del genere, sia con persone fisiche che con personaggi storici. Tra questi senz’altro Socrate. Ed è con pizzico di commozione che ho ritrovato espressa un’esperienza simile nella recente edizione dell’ Apologia di Socrate platonica curata da S. Sigismondi e F. Battistin per l’Agenzia Libraria Editrice (Milano – Monfalcone 2025). Scrive a un certo punto Battistin di essere tra coloro cui è  “capitato di sperimentare come un mutamento nelle nostre vite abbia avuto origine dall’incontro con un uomo o una donna che con la sua amorevole sapienza ci ha costretto a riconoscere quante deformità e brutture si celassero nella nostra anima. L’incontro con quella persona è stato per noi l’incontro con un vero filosofo, perché filosofo non è chi ha letto tremila libri, chi conosce a menadito la storia della filosofia, chi è al corrente dell’ultima novità apparsa sul mercato del sapere, ma chi, anche se non sa né leggere né scrivere, è in grado di governare sé stesso e di agire in modo buono e giusto per sé e per gli altri” (p. 136). A suo parere, Socrate è stato per molti della sua e delle successive generazioni un “filosofo” di questa pasta: e ciò lo ha reso e lo rende affascinante e ripugnante. Infatti, se non se ne anestetizza la valenza provocatoria seppellendolo sotto migliaia di interpretazioni accademiche (p. XII), egli continua a interrogarci spietatamente per costringerci a rispondere alle uniche domande davvero ineludibili: “Sei sicuro che la tua prospettiva di felicità sia la migliore? Sei sicuro di vivere la vita migliore? Sei sicuro di vivere in modo buono e giusto?” (p. 135).

Se si fosse limitato a prediche moralistiche o comizi demagogici, Socrate sarebbe digeribile, metabolizzabile. Ma, alla Gandhi, ha voluto essere in se stesso il cambiamento che proponeva al mondo e, come Gesù di Nazareth, ha pagato in prima persona la profonda convinzione che – sino a quando la violenza fisica sarà praticata come inevitabile da un’umanità ancora primordiale – subirla è meno peggio che agirla.

E’ comprensibile che uno scocciatore del genere sia finito assassinato dopo un processo farsa in cui lo si accusò dell’esatto contrario delle sue azioni. Ed è comprensibile che, anche oggi, le rare personalità che ne riproducono, almeno parzialmente, la missione civica vengano o perseguitate o, più efficacemente, ignorate da chi è abbarbicato alla triplice certezza che ci si realizzi moltiplicando il denaro, il potere e i piaceri corporei: “Non è forse più rassicurante e gratificante asserire ben congegnate teorie e denunciare i mali del mondo e della società, assicurandosi così gli applausi della folla che nulla di meglio chiede se non sfuggire alle proprie personali responsabilità, scaricando i propri fallimenti sui capri espiatori di volta in volta in voga?” (pp. 137 – 138).

Se il quadro complessivo è questo; se ognuno aspetta che siano gli altri ad inoltrarsi su sentieri inediti abbandonando consumismo, carrierismo ed edonismo compulsivo, non si può non condividere l’auspicio di Battistin per una rifondazione dell’etica, della pedagogia e della politica nell’era delle ingiustizie sistemiche mondiali: “l’Apologia dovrebbe essere un’opera presente in ogni casa, e dovrebbe essere come un amico fedele che ci accompagna nel corso della nostra vita” (p. XII).

Augusto Cavadi

* Cliccare qui per la versione originaria illustrata:

https://www.zerozeronews.it/quanto-dobbiamo-al-conosci-te-stesso-di-socrate/