Veramente
l’economia (come scienza e come pratica sociale) ha bisogno di più politica per
essere governata, controllata, orientata?
La
risposta secca, netta, è certamente errata. Infatti è vero che l’economia si è svincolata
da alcune ideologie e prassi politiche, ma non da tutte indiscriminatamente.
Si è autonomizzata dalle politiche in cui sia ancora centrale il ruolo della
società, dello Stato, della giustizia, dell’equità, della solidarietà
internazionale…; non certo dalle politiche incentrate sul primato
dell’individuo, della produttività, della concorrenza, del consumo, del
sovranismo internazionale…
Una
considerazione simile va avanzata se passiamo dal rapporto economia/ politica
al rapporto politica/etica. Davvero la politica si è disancorata dall’etica? Da
alcune versioni dell’etica, certamente. Ma non da tutte. Infatti la
maggior parte delle formazioni politiche in Italia e nel mondo possono rinnegare
(o, almeno, di mettere fra parentesi) l’etica pacifista, ma con ciò stesso non
possono non adottare un’etica militarista; possono rifiutare l’etica
internazionalista, ma a costo di sposare l’etica nazionalista; possono deridere
l’etica ambientalista, ma solo abbarbicandosi ancor più all’etica
antropocentrica…Insomma: non c’è politica, per quanto perversa, priva di una
sua etica. Tale etica spesso non è sbandierata alla luce del sole: resta
celata, innominata, inosservata, ma proprio così permane a operare indisturbata.
Questa strategia dell’occultamento è favorita dalla resistenza psicologica,
anche in osservatori ‘progressisti’, a parlare di etica neo-nazista o di etica
mafiosa (si preferisce la scorciatoia di bollare i nazisti o i mafiosi come “privi
di etica”). Ma il nostro silenzio non le cancella.
L’orizzonte
etico è l’ultimo orizzonte fondativo?
Se
queste precisazioni concettuali e linguistiche risultano condivisibili, posso tentare
di ampliare lo scenario.
L’economia
va subordinata a certe politiche, non alla politica indiscriminatamente,
così come la politica va subordinata a certe etiche, non all’etica tout
court. Ma queste etiche ragionevoli, realistiche, propositive (di varia
matrice teologica e filosofica) costituiscono l’orizzonte fondativo ultimo? In
questi anni mi sono convinto che, se etiche del genere sono necessarie
per salvarci come umanità, non sono però sufficienti.
Sono
necessarie: se un’etica comporta chiarezza mentale, rigore
comportamentale, fatica della ricerca, senso del dovere, tensione alla
coerenza, fedeltà ai propri principi, essa – attraverso l’incarnazione in
uomini e donne viventi – può condizionare, positivamente, vari progetti
politici che, a loro volta, possono indirizzare le opzioni economiche.
Ma
anche le migliori etiche proposte al dibattito pubblico si rivelano, alla
distanza, insufficienti. Stentano a farsi “senso comune” (Antonio
Gramsci) e – tranne momenti tragici della storia personale e/o collettiva –
vengono come erose dalla quotidianità, dai suoi compromessi, dal suo tran-tran.
Per mantenersi operanti, esse hanno bisogno di un “supplemento d’anima” (Henry
Bergson): esigono un surplus di inspirazione, di slancio, di entusiasmo che
renda spontanea, se non gioiosa, la vita etica. Molte etiche nella storia sono
state sostenute, animate, da queste motivazioni più-che-razionali che, in
mancanza di meglio, possiamo denominare “spirituali”.
Chiudo
dunque (provvisoriamente!) il cerchio: l’economia ha bisogno di ‘buone’
politiche; le ‘buone’ politiche si fondano su ‘buone’ etiche; ma queste ultime
necessitano, per essere attive e trasformative, di ‘buone’
spiritualità. Le grandi battaglie di civiltà – per l’ambiente, per la pace, per
la giustizia sociale, per il superamento delle guerre, dei razzismi, delle
mafie - hanno bisogno di simboli, di miti fondativi, di poeti, di musiche, di canzoni, di romanzi,
di film. Gandhi, Martin Luther King, Nelson Mandela (e i loro splendidi
compagni di lotta, quasi sempre ignoti agli storici) avrebbero resistito tanto
a lungo senza una dimensione spirituale?
La
spiritualità laica come terreno comune da cui ripartire
Tradizionalmente
tale dimensione è stata veicolata da religioni. Esse, almeno in grandi aeree
del pianeta come America settentrionale, Europa, Russia, Cina, sono in crisi:
scontano secoli di timidezze, di ambiguità e non di rado di vere e proprie
complicità. Possiamo assistere al loro lento, ma inesorabile, naufragio con
indifferenza o, addirittura, con compiacimento. Ma attenzione: sono immensi
gusci vuoti che però hanno veicolato dei valori umanamente validi. Si lasci
pure che i gusci si decompongano, ma si recuperino alcuni valori che – in
misura differente secondo i casi - custodivano e tramandavano: il gusto del
silenzio, il piacere della contemplazione, la familiarità con la lettura di
Testi, la comunione con la natura, la compassione per la sofferenza dei propri
simili…Sono valori che meritano di essere
preservati e valorizzati. E’ ciò che, in parte, sta tentando papa
Francesco su un registro comunicativo ‘laico’, appellandosi all’umanità degli
uomini, prescindendo da appartenenze ecclesiali
e opzioni di fede (e suscitando dunque la fronda dei bigotti della sua
Chiesa).
Già:
ciò di cui abbiamo urgenza oggi è una spiritualità “laica”, antropologica,
naturale. Una spiritualità “semplicemente” umana (intendo che assuma il meglio
dell’umanità, ricordando, con san Tommaso d’Aquino, che non tutto ciò di cui l’uomo è capace è
“umano”).
Mi
ha colpito leggere in un libro del filosofo francese contemporaneo André Comte-Sponville (significativamente
intitolato Lo spirito dell’ateismo. Introduzione a una spiritualità senza
Dio): “la spiritualità è una cosa troppo importante perché la si lasci in
mano ai fondamentalisti” (p. 8). Molti anni prima, in area spagnola, Marià
Corbì aveva pubblicato il corposo volume (solo adesso disponibile in traduzione
italiana) Verso una spiritualità laica. Senza credenze, senza religioni,
senza divinità. Su questa transizione insistono molti degli autori ospitati
nei diversi volumi della Collana editoriale “Oltre le religioni” delle Edizioni
Gabrielli. Ma, poiché siamo partiti dall’economia, mi pare significativo che
alla necessità di una valida, condivisa, praticabile spiritualità siano
pervenuti anche due stimati economisti (sia pur ‘eretici’ rispetto
all’ortodossia dominante nel loro campo di indagine) della cui amicizia mi
onoro.
Uno
è Serge Latouche che, nel 2019, ha pubblicato Come reincantare il mondo. La
decrescita e il sacro (Bollati Boringhieri, Torino) dove, tra l’altro,
scrive che un’economia non predatoria esigerebbe “un certo reincanto del
mondo” da intendere non “nel senso dell’emergere di una nuova mitologia e
auspicare il ritorno degli dei”, ma come “ristabilire la nostra capacità di
meraviglia di fronte alla bellezza del mondo e fare appello a una sorta di
spiritualità laica” (p. 10).
Un
altro è Maurizio Pallante che nel 2021 ha pubblicato Spiritualità, dono del
tempo, contemplazione. Un approccio laico (Edizioni Messaggero, Padova) in
cui sostiene che la spiritualità “si manifesta in ogni individuo in forme
diverse che, nel loro insieme, delineano un paradigma culturale alternativo a
quello dominante nelle società che hanno finalizzato l’economia alla crescita
della produzione di merci”; all’interno del quale “la meditazione è più
importante della storia, anche se l’azione non è sottovalutata”; “la
contemplazione della bellezza prevale sulla ricerca dell’utilità, la durata nel
tempo sull’effimero, la collaborazione e
la solidarietà sulla competizione, l’attenzione nei confronti degli altri
sull’indifferenza, l’ equità sulle diseguaglianze tra gli esseri umani, il
biocentrismo sull’antropocentrismo, le relazioni umane disinteressate sui
rapporti mercantili, il tempo degli affetti sul tempo del lavoro” (pp. 32 –
33).
Augusto
Cavadi
“Viottoli”, anno XXVIII, n° 1/2025