martedì 13 dicembre 2022

IO ESISTO VERAMENTE SOLO SE MI RICONOSCI

 



Le nuove frontiere della scuola”

n. 59 (Novembre 2022)


IO ESISTO VERAMENTE SOLO SE MI RICONOSCI

L’esigenza di essere riconosciuti dai propri simili – da almeno uno di essi – è fisiologica. Se è soltanto ai miei occhi che sono saggio, generoso, coraggioso… devo mettere in conto la possibilità d’illudermi. E’ quando l’altro mi conosce, mi ‘ri-conosce’, come tale che posso sperare di essere nella verità. In alcuni casi la conoscenza che l’altro ha di me conferma la conoscenza che io ho di me, più spesso mi fa scoprire delle qualità (virtuose o viziose) che misconoscevo. 

C’è una storiella - deliziosamente sadica – che condensa in poche battute la follia che rischieremmo in totale assenza di riconoscimento. Un paziente entra nello studio dello psicoterapeuta, si accomoda sulla poltrona e gli confida il suo problema: “Ho l’impressione che gli altri non mi prendano in nessuna considerazione, quasi non esistessi”. Ma il dottore, appena alzatosi e già affacciato alla porta della sala d’aspetto, chiede agli astanti con voce un po’ irritata: “Ho detto avanti un altro. Non avete sentito?”. E il paziente, entrato da nevrotico, ne esce da psicotico. Davvero, in assenza di uno specchio vivente, ci attendono le braccia della follia. 

I poeti, senza preoccuparsi troppo della precisione logica, l’hanno saputo

 dire con efficacia, come Bruno Lauzi nel testo della canzone 

L’appuntamento interpretata da Ornella Vanoni: “ Se tu non arrivi non 

esisto, non esisto, non esisto...”. Il filosofo preciserà: “Se tu non arrivi,

 non esisto davverointeramentedel tutto...”. Un principio generale che

 va poi analizzato, articolato e sviscerato in molte possibili implicazioni.


Riconoscere l’altro è un atto esistenziale

La prima: il riconoscimento non è una mera operazione cognitiva, mentale; ma neppure solo pulsionale, ‘primaria’ (nell’accezione freudiana del termine). E’ un atto ‘esistenziale’, potremmo esprimerci nel tentativo di recuperare quella circolarità che Piaget ha evidenziato studiando la formazione della personalità sin dai primi vagiti: non esistono “un’azione puramente intellettuale e neppure atti puramente affettivi, ma sempre e in ogni caso, sia nelle condotte relative agli oggetti, sia in quelle relative alle persone, intervengono entrambi gli elementi, giacché l’uno presuppone l’altro”1. Dunque, ri-conoscere l’altro/a è più di una constatazione mentale, è una sorta di approvazione (“è bene che tu sia”). 


Percepirsi riconosciuto è un atto complesso

Se il ri-conoscimento altrui - di cui siamo indigenti - è un atto esistenziale, globale, la nostra ricezione è altrettanto complessa, multidimensionale. Essere ri-conosciuto è sempre, anche, un avvertire d’essere percepito, accettato, incontrato, ‘patito’.

Questa seconda considerazione spiega perché in tante occasioni l’attestazione verbale non ci basta, ci lascia inquieti o, per lo meno, insoddisfatti. Sappiamo che la comunicazione dei contenuti concettuali è inscindibile dalla meta-comunicazione relazionale: e che la prima può essere falsificata, adulterata, dalla seconda. Sul registro verbale l’altro/a può dirmi “Piacere di conoscerti!”, “Condoglianze vivissime!”, “Benvenuto in questa classe!”, “Per te farei qualsiasi cosa!”…ma il messaggio di relazione – che passa per lo sguardo, il tono della voce, la postura del collo, la stretta della mano – può essere dissonante: può veicolare tanto accettazione quanto, invece, dis-conoscimento.


Il riconoscimento non può che essere reciproco

Una terza implicazione: il riconoscimento è un processo intrinsecamente reciproco. Il tuo riconoscimento di me è proporzionale al mio riconoscimento di te: attendibile è il tuo riconoscimento solo se io, per primo, ti ho riconosciuto come soggetto indipendente, lucido, autonomo (almeno rispetto a me). Solo a condizione che tu sia per me un esistente, un non-nihil. Che valore può vantare un riconoscimento proveniente da un altro che la paura, la debolezza, la viltà renda insincero? Il leader carismatico o il dittatore sanguinario devono rassegnarsi all’ignoranza su di sé. A non essere davvero ri-conosciuti. Intorno a loro soggetti non autonomi, ma ridotti a oggetti, a cose, a burattini inaffidabili. In una popolazione di schiavi, anche il sultano diventa schiavo dell’adulazione, della falsità, del mis-conoscimento.


Quando il riconoscimento è falsato

Una quarta considerazione: ho bisogno di essere riconosciuto da un altro, ma non ogni altro è in grado di farlo correttamente. Se mi ama troppo o troppo poco – se addirittura mi odia per invidia o per gelosia – l’immagine di me che può restituirmi non è necessariamente più realistica dell’immagine che posso farmi di me stesso. Indubbiamente un amore intensissimo o un odio altrettanto intenso possono svelare questo o quell’altro aspetto della mia personalità a me ignoto; tuttavia, se si tratta della personalità nella sua interezza, è più probabile che quei sentimenti eccessivi non facilitino la fotografia. La passione (benevola o malevola) acuisce la vista sui dettagli, ma l’offusca sull’intero.


Si è riconosciuti solo se “sognati”

Invece il riconoscimento che dagli altri ci attendiamo – o di cui, comunque, abbiamo bisogno – ci serve solo se si concretizza nella verità. Ma (e questa è una quinta considerazione) la verità più vera è data non dalla fotografia dell’apparenza, bensì dalla radiografia dell’invisibile: non dalla rappresentazione del dato di fatto, bensì dall’interpretazione di ciò che è possibile. Se è importante essere riconosciuti per ciò che si è in atto, non lo è di meno esserlo per ciò che si è in potenza. In prospettiva pedagogica, e con linguaggio poetico, era quanto esprimeva Danilo Dolci scrivendo: “C'è pure chi educa […] sognando gli altri come ora non sono: ciascuno cresce solo se sognato”. Una riprova della necessità di essere “sognati”, di essere per lo meno pensati, visti – insomma riconosciuti – è costituita dalla constatazione di ciò che avviene se ciò non accade: diventiamo crudeli. (Purtroppo è una condizione necessaria ma non sufficiente: si può essere “sognati” migliori di come siamo, ma restare quello che siamo. O peggiorare).


Il riconoscimento che passa per il conflitto

In ogni caso (e siamo a una sesta considerazione) il riconoscimento ci è necessario – per costruirci una nostra identità, o per accorgerci di averla – al punto che l’avversione altrui, la critica feroce e ingiusta, l’attacco pretestuoso sono comunque preferibili all’essere ignorati. Non c’è conflitto tanto aspro da risultare peggiore dell’indifferenza. Se qualcuno mi offende, io esisto: non sono nihil. Non sono un ni/ente. Non sono solo i bambini a inventare capricci, a rendersi detestabili, pur di farsi notare. 


La patologia da non-riconoscimento delle offese subite

Non meno dolorosa dell’indifferenza altrui risulta il misconoscimento delle ferite che subiamo o che ci sono state inferte nel passato. La questione (siamo a una settima considerazione) è delicata e merita attenzione. Molti comportamenti sociopatici – che sbrigativamente attribuiamo a fattori genetici – sono invece spiegabili come reazione a un difetto di riconoscimento sociale dell’offesa attuale o pregressa. La psicologa Alice Miller, a proposito dei maltrattamenti subiti dai minori, ha sottolineato la disperazione in cui può versare una vittima di abusi se non trova un “testimone consapevole”: qualcuno/a che - prima ancora di confortarla o aiutarla – le confermi la fondatezza del suo dolore. “Hai ragione di soffrire: non sei in preda a paranoia, a manie di persecuzione. Ti riconosco come soggetto offeso”. Quando non si ha la fortuna di incontrare un “testimone consapevole”, l’unica alternativa alla disperazione è l’esercizio attivo della violenza: “Non mi vedete? Oppure mi vedete ma non mi prendete in seria considerazione ? Allora provo a farmi notare. Divento per altri – fossero pure i miei bambini – quel carnefice di cui sono stato la vittima”. 


Un’altra patologia del desiderio di riconoscimento

Una ottava considerazione è strettamente legata alla precedente: lo straordinario incremento dei mezzi di comunicazione – in particolare dei social media – ha provocato, o almeno favorito, quell’altra patologia del (fisiologico) desiderio di riconoscimento che è la ricerca ossessiva della notorietà. Nella “società dello spettacolo” - di cui ci ha parlato tra i primi Guy Debord – cresce l’esigenza di emergere dall’anonimato, fosse solo per il “quarto d’ora di celebrità” preconizzato da Andy Warhol. Sino al punto da sbandierare in TV le liti familiari, i dolori più intimi, i desideri più segreti: insomma, come è stato detto da altri, sino al punto da sacrificare la reputazione alla popolarità. Anche a questo proposito dovremmo sforzarci di essere sinceri, evitando ipocriti moralismi. Dunque dovremmo premettere che una certa misura di notorietà fa piacere, condisce la quotidianità alleggerendone gli inevitabili pesi: soprattutto se si vive in metropoli affollate, ricevere il saluto cordiale di uno sconosciuto spettatore di un tuo concerto o raccogliere una parola di gratitudine da un lettore di un tuo libro equivalgono alle boccate d’aria di un nuotatore che solitamente procede con la faccia sott’acqua. I guai cominciano quando questa “buona fama” , circoscritta, di cui godiamo il privilegio, non ci basta e – anziché fruirne come effetto secondario e desiderabile del nostro contributo spirituale al benessere sociale – la perseguiamo in sé stessa e in misura crescente. In preda a questo genere di bulimia, nulla ci sembrerà scorretto o ridicolo, purché la nostra ‘popolarità’ non si eclissi neppure per un giorno. Ma davvero questa condizione di personaggio ‘pubblico’ – costantemente oggetto di monitoraggio, di critiche, di maldicenze – è migliore di chi può condurre serenamente una vita ‘privata’, solo occasionalmente e con discrezione illuminata da qualche flash? Mi pare di capire che proprio le persone che hanno raggiunto livelli notevoli di notorietà (ma non sono già andate fuori di testa) sono le più propense a condividere il senso essenziale – se non proprio la lettera – del consiglio della filosofia ellenistica di “vivere nascosti”. 


Il conformismo come prezzo del riconoscimento

Il bisogno di essere ri-conosciuti è talmente prepotente da esporci al rischio del conformismo più umiliante (nona implicazione). Se sono un pulcino nero e gli altri, tutti uniformemente gialli, non mi riconoscono, m’ignorano, mi dis-conoscono, avverto forte la tentazione di nascondere (o addirittura cancellare) i miei tratti caratteristici, originali, per apparire (o addirittura diventare) come gli altri. Anche in questa ipotesi malaugurata il riconoscimento mi conferisce un’identità: ma falsa. M’inchioda all’inautenticità perpetua.


La riconoscenza come difficile riconoscimento

Vorrei chiudere con una decima considerazione (per così dire in calce). Ragionando in astratto si potrebbe ipotizzare che la forma di ‘riconoscimento’ più agevole sia la ‘riconoscenza’ per i benefici offerti. Ma l’esperienza quotidiana smentisce questa ipotesi aprioristica. Ogni dono – specie se offerto senza la delicatezza, la discrezione, il tatto necessari – arriva al donatario come oggettivo attestato di superiorità da parte del donante: il quale, dunque, deve godere di un’ampia auto-stima per poter accoglierlo. Solo chi è magnanimo conosce l’arte del donare; ma non minore magnanimità esige l’arte della riconoscenza. 


Augusto Cavadi

www.augustocavadi.com

1 J. Piaget, La nascita dell’intelligenza nel fanciullo, Giunti-Barbera, Firenze 1991, p. 

4 commenti:

Anonimo ha detto...

Semplice e nel contempo profonda questa analisi della difficoltà - ma anche dell’importanza - dell’essere essere autentici in un mondo che ci richiede il “ sono come tu mi vuoi “

Bruno Vergani ha detto...

Come fondatori della psicologia psicodinamica conosciamo Freud e Jung mentre Alfred Adler lo conosciamo di meno, da qualche tempo sto approfondendo la sua visione che contiene e sviluppa le tematiche e le problematiche proposte da Augusto. Sostiene che per conoscerci persone e vivere una esistenza sana abbiamo il bisogno vitale di appartenere alla comunità umana, il sentimento sociale assume, quindi, la funzione di "barometro della normalità", ciò non significa conformazione e dipendenza dagli altri dato che ognuno di noi è una individualità psichica unica e irripetibile, che appartiene e interagisce a una comunità composta da altre unità psichiche a loro volta uniche irripetibili. Chi a digiuno dell’autore e interessato alla cosa potrebbe cominciare da qui: https://www.youtube.com/watch?v=64GS3Uqh_Xg

giulia oddo ha detto...

Bravo Augusto. Bell’articolo. 👏🏻👏🏻👏🏻 Ti leggo sempre volentieri

Mauro Matteucci ha detto...

Bellissimo e vero e soprattutto, umano! Lo condivido totalmente. Auguri di Buone Feste
Mauro