Con gradualità, ma inesorabilmente, noi che apparteniamo alle ultime generazioni stiamo vivendo una strana inversione: il lontano (nello spazio) si fa sempre più prossimo, il prossimo si fa sempre più lontano. L’anziana donna di Kiev raggiunta da un missile mentre armeggia ai fornelli o il neonato di Gaza congelato dal freddo sono qui, sullo schermo televisivo, a pochi metri dalla nostra tavola e – per non farci rovinare la digestione – dobbiamo almeno sottoporci al piccolo fastidio di cambiare canale.
Di contro, è raro che si viva con i genitori o con i figli o con i fratelli nella stessa (grande) casa: possiamo abitare nello stesso condominio, perfino sullo stesso pianerottolo, ma a patto di starcene ‘appartati’ in appartamenti separati. Il lontano ci è sempre più vicino, il vicino ci è sempre più lontano: un bene, un male? Certamente un dato oggettivo.
La
prossimità del lontano
Che
il mondo sia diventato un “villaggio globale” comporta di sicuro dei progressi
morali. Prigionieri del tribalismo provinciale restano solo gli animi piccini
che vogliono restarvi: è possibile conoscere in tempo reale le cose orribili e
bellissime che avvengono sul pianeta, allargare i propri orizzonti mentali e
cordiali, liberarsi dalla condanna del tradizionalismo particolaristico. Il
cattolico o il buddista potrà pure restare, alla fine, cattolico o buddista, ma
con consapevolezza, dopo aver visitato (almeno grazie a un documentario
televisivo) un Paese shintoista o aver conversato più volte con un vicino di
casa islamico. Non si muore con la stessa mentalità acquisita nell’ambiente in
cui si è nati per totale ignoranza di alternative.
Queste opportunità hanno un prezzo. Sul piano intellettuale si è costretti a operare faticoso discernimento: tanto più faticoso quanto più ampia è la gamma delle sapienze, delle visioni-del-mondo, di cui si viene a conoscenza. Non basta avere avuto un nonno e un padre comunisti in Emilia-Romagna per diventare comunista (o, per automatismo oppositivo, fascista): puoi diventarlo, ma non senza aver fatto i conti con le notizie provenienti dalla Cina popolare o dalla Corea del Nord. Un prezzo altrettanto elevato - forse più impegnativo – è d’ordine psicologico: la prossimità delle tragedie sparse sul pianeta di cui siamo testimoni in presa diretta è troppo angosciante. La marea di dolore dei viventi senzienti ci sommerge, ci soffoca. All’inizio una notizia magari tocca qualche corda e stimola un minimo di reazione: la firma in calce a un appello, la partecipazione a un corteo, la spedizione di un contributo in denaro…Ma, alla lunga, ci scoraggiamo. Per un meccanismo di difesa attiviamo dei filtri emotivi sempre più spessi sino a quando ci accorgiamo che non ci ferisce più nessuna informazione. Sopravviviamo perché anestetizzati dal senso di impotenza: ci convinciamo che non c’è nulla di veramente innaturale o inumano. Ciò che in piccole dosi ritenevamo assurdo, se ci assedia in proporzioni planetarie, finisce con l’apparirci ineluttabilmente ‘normale’.
La
lontananza del prossimo
Anche
il processo sociologico di allentamento dei rapporti primari – per cui in
quanto individui cerchiamo un distanziamento fisiologico dalla stretta dei
congiunti e dei vicini – presenta
aspetti positivi. Nella mia infanzia,
soprattutto quando trascorrevo i mesi estivi nei piccoli comuni dove vivevano i
miei nonni paterni e materni, ho fatto in tempo a conoscere quanto pesantemente
potessero agire il condizionamento familiare e il controllo sociale sullo stile
di vita dei singoli: più che il proprio convincimento interiore bisognava
rispettare le attese (spesso le pretese) del ‘prossimo’. Non ritengo che
l’esistenza mia e dei miei coetanei, molto più emancipata da questo genere di
vincoli anagrafici e topografici rispetto alle generazioni precedenti, sia
stata affettivamente meno ricca: abbiamo avuto, e abbiamo, le nostre relazioni
‘corte’, ma selezionate. Non siamo privi di un ‘prossimo’, ma non abbiamo
lasciato al caso di assegnarcelo: l’abbiamo individuato, prescelto, adottato.
Possiamo
concludere che va tutto meglio rispetto a epoche precedenti? Sarebbe alquanto
ingenuo. Mi pare, infatti, che nella possibilità (apprezzabile) di potersi
scegliere il proprio prossimo covi un rischio non irrilevante: di legarci
esclusivamente a chi ci somiglia (per mentalità, condizione socio-economica,
orientamenti religiosi, preferenze politiche e così via). La dinamica del
simile che cerca il simile può condurre a un esito paradossale: che al
tribalismo per nascita si sostituisca il tribalismo d’elezione. Al cerchio
limitato fra indigeni si sostituisca il cerchio limitato fra associati in nome
di interessi (non solo economici) comuni. Quando ciò accade l’incontro con il
prossimo perde una dimensione peculiare che gli dà sapore: l’alterità, la
novità, la sorpresa.
Nel
vangelo secondo Luca (10, 25 – 37) viene riportata una parabola attribuita a
Gesù di Nazareth che costituisce una risposta spiazzante alla domanda su chi
sia il nostro “prossimo”. Conosciamo la risposta suggerita dai benpensanti di
ogni tempo (in questi anni l’hanno esposta, a proposito dell’ordine di
precedenza nell’accoglienza dei migranti, esponenti della Lega come Borghezio e
eminentissimi cardinali come Biffi): ‘prossimi’ sono i tuoi familiari; poi i
tuoi concittadini; poi i tuoi connazionali e infine i tuoi correligionari. Il
vangelo capovolge la sequenza (e in maniera tanto più sconvolgente perché con
il tono di enunciare l’ovvio) : il tuo ‘prossimo’ è, prima di tutto e spesso esclusivamente, uno
che, in quanto samaritano, appartiene a un’altra confessione religiosa e a un
altro gruppo etnico, dunque estraneo non solo alla tua famiglia d’origine ma
anche al tuo villaggio. Come se alla domanda di un europeo bianco, capitalista,
liberista e cristiano si rispondesse che il prossimo è un africano nero, proletario,
comunista e animista. Se non vedo male, l’intenzione originaria
dell’evangelista è di evidenziare ciò che davvero ci rende prossimo l’uno per
l’altro: la “compassione” attiva, operativa, efficace (come raccogliere un
ferito sconosciuto dalla strada e affidarlo, a proprie spese, alle cure di un
albergatore). Ma qui m’interessa un altro aspetto del racconto:
l’imprevedibilità. Il ‘prossimo’ è l’inaspettato, l’insospettabile. Se il
samaritano avesse optato, come criterio di fondo nella scelta della propria
cerchia, per l’omogeneità socio-culturale, il giudeo agonizzante non sarebbe
rientrato neppure nel raggio del suo sguardo: non sarebbe diventato il suo
‘prossimo’ né egli il ‘prossimo’ di lui.
E’ solo in quanto aperti all’inatteso che, liberatici da prossimità
imposte dalla sorte e indesiderate, possiamo arricchirci di prossimità consapevolmente perseguite da noi. E forse
consentirci una delle poche esperienze del divino: l’irlandese Richard Kaerney,
nel suo Ana-teismo. Tornare a Dio dopo Dio, si è chiesto se, nell’epoca
della sospensione delle antiche certezze su Dio da parte di credenti e di atei,
la religiosità autentica non si manifesti come apertura allo straniero nella
scommessa fra ospitalità e ostilità.
E’
noto l’apologo di Schopenhauer sui due porcospini che, se avvertono freddo, si
avvicinano l’uno all’altro ma, se si avvicinano, si pungono e avvertono la
necessità di allontanarsi. Questa dialettica fra desiderio di prossimità e
bisogno di distanza è verificabile nella maggior parte dei casi, ma – a
differenza del teorico del pessimismo – siamo costretti ad ammettere che la
statistica registra anche delle eccezioni: talora fra due soggetti scatta una
sintonia così forte da indurre a disarmarsi, a ritrarre gli aculei per non
rovinare una ‘prossimità’ fruita con piacere, in nessun senso subita
passivamente. Ammettere questi casi non è buonismo bigotto (da deridere
dall’alto – o dal basso – della propria infelicità aristocratica), ma realismo a
trecentosessanta gradi, dettato da onestà intellettuale. A ognuno/a di noi può
capitare – se non gli è già capitato – di tradurre, nella propria
visione-del-mondo, ciò che Tagore confidava al suo Dio: “Mi hai fatto conoscere
ad amici che non conoscevo./ Mi hai fatto sedere in case che non erano la mia./
Mi hai portato vicino il lontano, e reso l'estraneo un fratello. / In fondo al
cuore mi sento a disagio quando abbandono l'abituale rifugio;/ scordo che il
vecchio abita nel nuovo, e là tu stesso hai dimora” (Gitanjali, 63).
Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com
“Nuove
frontiere della scuola”, n. 66 (XXI, 2024)
3 commenti:
Bellissimo, Augusto, questo tuo ultimo post! Quello che affermi con parole altissime, l'ho provato decine di volte nell'incontro a Vicofaro - il centro di accoglienza che la pervicacia delle istituzioni hanno voluto chiudere - ogni volta che incontravo i migranti africani, che mi raccontavano le loro infinite sofferenze.
Non potevi scrivere meglio delle nostre fughe dalla realtà. La prossimità con il diverso - e con la diversità - ci inquieta ma ci salva da una mortifera prigione protettiva che ci aliena dalla vita
Caro Augusto, trovo ottimo l'articolo LA PROSSIMITA’ DEL LONTANO, LA LONTANANZA DEL PROSSIMO.
Posta un commento