venerdì 9 marzo 2018

ESISTERE E' UN' ARTE

     Dall’interessante rivista on line (gratuita) “Dialoghi mediterranei” a cura dell’Istituto euroarabo di Mazara del Vallo (TP) del marzo 2018:

                   COME NOMINARE L’ARTE DI E-SISTERE ?

       Oggi siamo propensi ad accettare l’intuizione di Democrito: al posto di “atomi” scriviamo corpuscoli, onde o stringhe, ma riteniamo che la stoffa dell’universo sia omologa per minerali, piante, animali. Tuttavia non è agevole scacciare il sospetto che sia rilevante non solo il ‘cosa’ ma anche il ‘come’: per riprendere il bistrattato Aristotele, non solo la ‘materia’ ma anche la ‘forma’, la struttura, l’organizzazione interna. Nell’uso quotidiano adoperiamo con leggerezza superficiale il verbo ‘essere’ dimenticando che si tratta di un termine intrinsecamente analogo: “In questa stanza ci sono un tavolo, due piante, un gatto e due persone”. Ci sono: ma l’essere si dice pollakòs (in molti modi). E’ la constatazione fenomenologica più s-pregiudicata a mostrarci come l’azione, il comportamento, l’interazione con l’ambiente… di un tavolo non siano esattamente identici all’azione, al comportamento, all’interazione con l’ambiente… di una pianta; né di un gatto; né di una persona. Le modalità d’essere in tutti questi casi hanno molto in comune, ma molto altro ancora di differente.
    Come esprimere linguisticamente questa articolazione di piani ontologici ? Tra le molte possibilità se ne potrebbe adottare una: tutti gli essenti siamo, ma alcuni stanno, sus-sistono, in-sistono; altri e-sistono. Ex-sistere è emergere, eccedere, rispetto al mero essere-qua o essere-là. So bene che non è facile individuare il principio che rende possibile tale ex-sistenza , ma questa difficoltà teoretica non giustifica la soppressione della questione. Una conferma ce l’ha offerta la vicenda dell’esistenzialismo: pensatori teologicamente connotati (come Kierkegaard e Marcel), e pensatori di diverso orientamento (come Jaspers, Heidegger e soprattutto Sartre) si sono trovati concordi nel sostenere l’irriducibilità della    e-sistenza  al piano della semplice presenza.

a) E-sistere come “privilegio” e come “condanna”
   Visitare questo orizzonte teoretico ci impone, o per lo meno suggerisce, alcuni paradossi. Il primo dei quali è che nascere come e-sistenti è un privilegio e una condanna. Un privilegio perché ci è consentito attivare un processo di consapevolezza di sé e del mondo circostante che è la radice di quel poco di libertà che possiamo sperimentare in vita. E’ solo grazie alla distanza (potenziale) fra la mia mente e la mia condizione corporea, familiare, sociale… che posso assumere, rinnegare o adattare tale condizione data. E’ solo perché    e-sisto che posso fare antropologia culturale: sia perché senza questa auto-trascendenza non ci sarebbe un soggetto in grado di narrare (come dall’alto) l’animale culturale che siamo, sia - più radicalmente - perché senza questa     auto-trascendenza mancherebbe l’oggetto: non ci sarebbe, infatti,  un animale culturale da narrare.
    Ma e-sistere è anche una condanna. La pianta può realizzarsi quietamente come pianta, e probabilmente anche la mia gattina come gattina, se si limita a stare, sus-sistere, in-sistere: ma a un nato-per-esistere è precluso  di vivere come una pianta o un altro animale. “Sei un broccolo! Non fare il maiale!”: affermazioni efficaci sul piano retorico-performativo, ma scorrette semanticamente. Un           e-sistente, per quanti sforzi possa fare, non sarà mai semplicemente, serenamente, un vegetale o un suino: sarà un imitatore dei vegetali o dei suini, ne mimerà il comportamento senza poterlo davvero riprodurre. Ammesso che un e-sistente riesca a vivere, da solo o in branco, come un lupo nella foresta – una possibilità su cui solo storici e antropologi culturali possono informare noi filosofi – sarà, comunque, un lupo per scelta: vivrà la condizione naturale come effetto di una (continua) opzione culturale.

  b) E-sistere come “compito”
      Privilegio e condanna, insieme, e-sistere è in ogni caso un “compito”. In un certo senso, il compito del nato-per-esistere. La maggior parte dei mortali svolge questo compito in maniera inconsapevole affidandosi per lo più a due coordinate principali: la tradizione (passato) e la maggioranza (presente).  Ci sono poi altri soggetti che, pur consapevoli della tradizione e della maggioranza dei contemporanei, vogliono evitare di restarne prigionieri; vogliono inventare modi originali di e-sistere; vogliono affacciarsi al futuro. Per tentare tutto questo non possono procedere a caso, ma devono attrezzarsi: imparare una tecnica che, alla latina, sarebbe un’arte.

c) Come chiamare l’arte di e-sistere?
     Nella storia delle civiltà sono state proposte categorie numerose: l’educazione (paideia), la  saggezza, la religione, la filosofia, l’etica, la morale…Ciascuna di queste proposte presenta vantaggi e svantaggi. Nell’attesa di una proposta più convincente, senza contro-indicazioni o con contro-indicazioni limitate, mi sono convinto che – nel contesto linguistico contemporaneo – il semantema meno inadeguato potrebbe essere “spiritualità”. So bene che il vocabolo evoca concezioni incomplete o addirittura fuorvianti, ma proprio l’esame di alcuni frequenti malintesi può aiutarci a evidenziare le accezioni semantiche migliori.
 Chi nomina la spiritualità spesso pensa a una dimensione meta-materiale,  meta-corporea. Ma lo spirito è tale in quanto influssa una carne, la permea e la vivifica: una spiritualità autentica, lungi dall’adagiarsi sui dualismi ontologici e antropologici, ne sanziona il superamento definitivo.
   Una vita spirituale, come non può dunque essere sessuofobica, schizzinosa, così non può essere individualistica, intimistica. Secondo Hegel, addirittura, è solo nel “noi” collettivo, sociale, che si manifesta lo spirito in quanto tale. Senza necessariamente aderire al suo collettivismo, non possiamo comunque limitare la spiritualità alla sfera interiore del soggetto: silenzio, raccoglimento, concentrazione sono indispensabili quanto insufficienti. L’apertura all’altro, la relazionalità, sono altrettanto costitutive: senza di esse la dimensione spirituale non ha modo di esercitarsi né di esternarsi.
  Né spiritualismi unilaterali, dunque, né solipsismi autistici: ancor meno parassitismi. La persona davvero spirituale, integralmente spirituale, avverte l’esigenza di lasciare un segno nella storia, di fecondare la natura e la società con la propria azione: si pensi soltanto all’insistenza dell’idealista Platone sulla necessità di “procreare nel bello” o mettendo al mondo figli mortali o, più ancora, opere (tendenzialmente) immortali.
   Spiritualità equivale, insomma, alla formula di  Martha Nussbaum  circa la “fioritura della persona”: tanto più esistenza spirituale quanto più si attualizzano le proprie potenzialità umane. Un’esistenza spirituale è un’esistenza consapevole, critica rispetto a sé e al contesto sociale, memore del passato ma attenta al presente e proiettata sul futuro, aperta ai godimenti fisici e psichici ma pronta ad affrontare sofferenze proprie e altrui. Nel mio Mosaici di saggezze. Filosofia come nuova, antichissima spiritualità (2015) ho cercato di articolare, e dettagliare, i lineamenti essenziali di una spiritualità autentica.
    La proposta di denominare “spiritualità” l’arte d’e-sistere origina dal desiderio di chiarire che essa non può non avere caratteri di “laicità” e di “polifonicità”.
    Di laicità perché designa una costellazione di atteggiamenti condivisibili e praticabili, anzi auspicabili, dalle donne e dagli uomini di ogni area del pianeta e di ogni orientamento culturale: per individuarli e tematizzarli basterebbe esercitare, in un’ottica di confronto comunitario, la ragionevolezza non offuscata da eccessivi egoismi. Designa una sorta di galateo universale, di grammatica elementare: là dove una simile base di vita spirituale difetta, è lecito dubitare di chi avverte sentimenti religiosi o di chi professa, addirittura, una fede in senso confessionale. No,  senza una “spiritualità” laica, “religiosità” e “religione” degenerano in superstizione e in fondamentalismo.
    Di polifonicità: una vita spirituale, in senso laico, non può autointerpretarsi come definita, conchiusa. Costitutivamente parziale, cerca stimoli e integrazioni per correggersi, purificarsi, ampliarsi, approfondirsi: quasi uno strumento musicale consapevole di quanto possa essere valorizzato se inserito in una logica orchestrale. Nessuna tradizione spirituale del mondo può illudersi di essere “la” spiritualità umana: ognuna è piuttosto un piccolo corso d’acqua che porta in sé molto fango e qualche pietra preziosa. Chi si riconosce all’interno di una di queste tradizioni (l’induismo, il buddhismo, la filosofia greca, l’ebraismo, il cristianesimo, l’islamismo, il liberalismo, il socialismo…) ha il compito, dunque, di attivare un’auto-critica, di rinnegare il fango, di recuperare la propria pietra preziosa e di metterla a disposizione di una sintesi (per quanto provvisoria) planetaria. La spiritualità, come arte dell’e-esistere, non è alle nostre spalle. Né, pronta-da-portare, in qualche angolo del nostro presente. E’ piuttosto l’u-topia che dà senso alla nostra ricerca, intellettuale ed esperienziale, individuale e collettiva.

Augusto Cavadi


http://www.istitutoeuroarabo.it/DM/come-nominare-larte-di-e-sistere/

3 commenti:

Bruno Vergani ha detto...

Bellissimo articolo. Tra i lemmi che passa il convento anch’io mi arrangio con “spiritualità”. Per quale motivo non disponiamo di meglio? Ruminandoci ontologicamente sopra, ovvero provando a individuare il principio che permette l’ex-sistenza, mi è tornato alla mente Roberto Calasso quando annotava che a Occidente è rimasta esclusa una parola cruciale: “coscienza”. Mi sembra che abbia colto nel segno perché ex-sistere è coscienza in atto. Coscienza nell’accezione comune dice davvero poco, è termine inerente al monitoraggio funzionale dei sensi, oppure parametro etico della morale personale. Filosoficamente è invece lemma più esteso, ma non certo fondante e portante e dal quale non si può prescindere, come accade a Oriente: “Coscienza” nelle Upanishad è indagata con tale precisione che è stato redatto un glossario ad hoc illustrante differenti livelli e distinte tipologie di coscienza - vedi: http://spokensanskrit.org/index.php?mode=3&script=hk&tran_input=consciousnes&direct=au
Va considerato che per esaminare la costituzione dell’universo utilizziamo necessariamente noi stessi senza possibilità di oltrepassarci, una sorta di cerchio magico, monade invalicabile, Hume è stato forse tra i più precisi nell’osservare e sviluppare questa concezione. Ricordo che anni fa anch’io la vedevo un po’ così. Di tanto in tanto mi recavo in ospedale a farmi togliere dei calcoli che si formavano in un rene. Prima di operarmi mi addormentavano e l'anestesia comportava due vantaggi, non mi faceva sentire il dolore e mi faceva provare in anticipo com'era morire. La coscienza iniziava a ritirarsi il nome che portavo e il ruolo che svolgevo li avvertivo rarefatti e poi sparivano. Mi abbandonavano rapidi tutti gli affetti e ogni amore. Per ultimo, quando stavo per morire, ogni idea spariva anche quella di un possibile Dio. Un istante prima di essere morto mi veniva perfettamente chiaro che tutta la questione si riduceva a "sono" oppure "non sono". Quando il "sono" s’attivava tutto esisteva, quando si ritraeva nulla esisteva. Tutto qui. Per più volte osservavo la coscienza che andava e veniva in un istante, come quando si accende e spegne la lampadina del soggiorno. Quando si spegneva, vedevo che con me si dissolveva l'intero universo, quando si accendeva, prima tornavo io e immediatamente dopo di me tutto quanto. Era dunque l'universo che esisteva grazie alla mia coscienza e non il contrario. Sant'Agostino invita a non uscire da noi stessi, dimodoché rientrando in noi possiamo incontrare nell'intimo la realtà, che è Dio, quindi, a differenza della concezione di Hume, interiorità e universalità trascendente coinciderebbero. Hegel vede la Coscienza come l’Autocoscienza intesa come Principio assoluto che nell’auto-crearsi fa letteralmente la realtà nella sua totalità. Fra Agostino, Hume ed Hegel incontriamo numerose concezione intermedie che tra Idealismo e Spiritualismo dettagliano distinti livelli di coscienza fluttuando dall’inter-coscienziale al trascendente, talora separandoli, talvolta mischiandoli. Invece Freud mette in guardia dall’ortodossia della coscienza personale perché determinata da forze inconsce. Marx, anche lui diffidente della soggettività antropologica, individua tali forze occulte e inconsce nella sovrastruttura economico-sociale. Un dato è certo, nella modernità Coscienza è vista con crescente sospetto, fino al punto da considerarla «nemica segreta delle scienze dell’uomo» (Lévi-Strauss), a Oriente si continua invece a indagarla, persino ad adorarla, forse meglio dirigersi a Est, non possiamo escludere che se un qualche Dio c’è passeggia da quelle parti bisbigliando “Io sono”, proprio come facciamo noi.

armando caccamo ha detto...

Beh, l'articolo di Augusto e il suo bel libro "Mosaici di saggezze", che consiglio di leggere perché capace di farci cambiare, rendono oggi migliore di ieri. Poi c'è il commento di Bruno Vergani, che il "migliore" rende più ricco. Insomma leggervi è un piacere della mente e del cuore. Grazie.

Pietro ha detto...

Augusto scrive che se per l'animale e la pianta esistere è un fatto, per noi umani è anche un compito. Sono d'accordo. Però sicuramente è un compito complesso, mentre al nostro livello di coscienza al massimo siamo capaci di fare le aste come all'asilo. Concedo che alcuni come Augusto e Bruno Vergani siano forse già alla scuola dell'obbligo, ma per svolgere una tesi universitaria e conseguire una laurea in e-sistenza ci vogliono pure le scuole superiori e poi l'Università, e tutto in una sola esistenza non possono farlo neppure loro. Può darsi, allora, che esistiamo - e impariamo - a tappe, che ci siano promossi e ripetenti e che abbiano, dunque, ragione quelli che credono nella Reincarnazione?