lunedì 6 maggio 2019

IL FESTIVAL DI CASTELLAMMARE SECONDO IL DIARIO SPIRITUALE DI BRUNO VERGANI


E, infine, gli appunti di Bruno Vergani sul Festival della filosofia d'a-Mare di Castellammare del Golfo (25 - 28 aprile 2019) sono arrivati !
Anche se sono disponibili in originale sul famigerato blog di Bruno (www.brunovergani.it) mi fa piacere rilanciarli per i venticinque lettori del mio blog. 
Lo faccio con qualche perplessità, anche se di segno opposto rispetto alle riserve dello stesso Bruno (nella foto sopra, scattata da Pietro Spalla, in accesa discussione con me). Egli, infatti, mi ha chiesto in privato  se fosse il caso di ospitare le note di un "semplice erborista" che non è filosofo di mestiere; io, al contrario,  mi chiedo se la raffinatezza del suo stile di scrittura non possa scoraggiare il lettore 'medio' che, non avendo partecipato direttamente agli incontri del Festival, potrebbe chiedersi: "Ma se i non-filosofi di strada parlano così difficile, chi sa che caspita di paroloni avranno usato i filosofi di professione!"
Comunque, rischiamo pure. Gli spazi della filosofia sono gli spazi della pluralità delle idee, della polifonicità anche espressiva, della varietà delle prospettive: dunque nessuno, purché in sincera ricerca (e dunque disposto a cambiare opinione di fronte a argomenti più forti), è fuori luogo.

Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com

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Le conferenze sono agilmente trascrivibili e le lezioni condensabili in bigini, ma se si vuole raccontare l’ultima edizione del FESTIVAL DELLA FILOSOFIA D’A-MAREdi fine aprile, svoltosi a Castellamare del Golfo (Trapani), non si ha dove posare il capo. Tutto poggiava sul dialogo filosofico e il dialogo come il pesce è meglio mangiarlo fresco in presa diretta. 
Le quattro giornate sono state architettate in una proficua sinergia di relazioni di filosofi seguite, a caldo, da gruppi di lavoro dei con-filosofanti, partecipanti non filosofi di professione come me, che indagano e pensano autorizzandosi da sé, moderati maieuticamente da altri filosofi. Gruppi di lavoro nei quali i filosofi che avevano precedentemente relazionato stimolando la tematica, partecipavano come semplici con-filosofanti mischiati ai partecipanti. Situazione rara, forse unica nel panorama dei festival filosofici, dove i filosofi relatori il più delle volte si limitano, poco laicamente, a pontificare ieratici dal palco senza interagire con i partecipanti.
Evitando il surgelato della trasmissione in differita provo a scrivere in libertà frammenti del mio diario spirituale di partecipante, una sorta di stream of consciousnessche il Festival mi ha attivato, riportando mie comprensioni ed elaborazioni che potrebbero scostarsi dall’originale quanto si discosta, per dirla alla Montaigne, il miele prodotto dalle api dal nettare dei fiori che bottinano.
In questo articolo dirò della tematica affrontata dal filosofo Alberto Giovanni Biuso, notevole per contenuti ed esposizione, argomento “La passione amorosa”, stiamo parlando dell’innamoramento estremo; se è innamoramento è estremo altrimenti è un’altra cosa. Nella passione amorosa irrompono elementi e moti naturali (corpo, leggi di riproduzione) nelle dinamiche culturali (storia, civiltà). Tale irrompere pur favorendo relazioni intraspecifiche le perturba alla radice, la passione amorosa è avvenimento anarchico ed eversivo del socialmente costituito che il potere sociale istituito guerreggia. Come l’angoscia di piombare nel baratro del nulla è risolta kierkegaardianamente dall’inserzione dell'eternità nel tempo operata da Cristo, nell’innamoramento accade esattamente l’opposto: l’irrompere del dio sconvolge il risolto e apre baratri. Nell’abbandonarci all’Altro si svolge un “dramma ermeneutico”, nell’innamoramento l’Altro non è più un individuo con la sua biografia ma entità sacra, separata, irraggiungibile nella sua assolutezza. Per comprendere i territori estremi e tragici che provo ad indicare ognuno può attingere dalla propria esperienza esistenziale, per maggior chiarezza invito a rammentare “I dolori del giovane Werther” del primo Goethe, per chi non lo conoscesse può, in subordine, leggere il testo della canzone “Pugni chiusi” quella dei Ribelli che, rischiando certamente la grossolanità ma favorendo forse la comprensibilità della tematica, riporto:

«Occhi spenti nel buio del mondo

per chi è di pietra come me […]
Perduto per sempre! Non ha più ragione la vita.
La mia salvezza sei tu […] Pugni chiusi non ho più speranze
in me c'è la notte più nera […]
Io come un albero nudo senza te
senza foglie e radici ormai […];
Mi manchi come quando cerco Dio
il dolore è forte come un lungo addio […]
E l’assenza di te è un vuoto dentro me […]
In ogni lacrima tu sarai per non dimenticarti mai.
E mi manchi, amore mio così tanto che ogni giorno muoio anch’io […]
Grido il bisogno di te perché non c’è più vita in me.»

Nell’innamoramento L’Altro ci sconvolge, proiettandoci in una “utopia temporale” un “Sempre” dove amore e morte, freudianamente, si fondono. Ricordo lo psicoanalista Giacomo Contri che aveva implementato la puntuale definizione di “Cielo Infernale”. L’Altro, unico e assoluto, è oggetto ermeneutico dal quale ci rimbalzano addosso le immense forze che gli proiettiamo sopra: “dramma della solitudine”.
Annoto l’importanza di affrontare la tragedia dei femminicidi evitando impotenti moralismi, consapevoli dei territori che Biuso additava, così da essere, per quanto possibile, attrezzati nel decifrarli e allenati nel transitarli. Sulla falsariga della lettera di Paolo agli Efesini bonificata dagli effluvi gnostici, si potrebbe qui affermare:
«La nostra battaglia infatti non è contro creature fatte di sangue e di carne, ma contro i Principati e le Potestà, contro gli spiriti che abitano nelle regioni celesti».
Nei successivi gruppi di lavoro dei con-filosofanti sulla tematica si è perlopiù virato verso l’affermazione degli aspetti positivi dell’amore, inclusi gli amori amicali e quelli agapici. Divagazioni lecite per i non filosofi di professione quanto è stato lecito, anzi doveroso, per Biuso il suo dire senza digredire. Plausibile che nei con-filosofanti e nei filosofi moderatori si sia attivata una sorta di legittima difesa, quella consigliata nel Libro Dodicesimo dell’Odissea:

«Le Sirene sedendo in un bel prato,

Mandano un canto dalle argute labbra,
Che alletta il passeggier: ma non lontano
D'ossa d'umani putrefatti corpi
E di pelli marcite, un monte s'alza.
Tu veloce oltrepassa».

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Nell’ultima edizione, la VI, del FESTIVAL DELLA FILOSOFIA D’A-MARE di fine aprile a Castellamare del Golfo (Trapani), il filosofo Orlando Franceschelli ha affrontato la tematica-problematica “Natura umana, biotecnologie e poteri economico-politici”, che provo a condensare liberamente e commentare in scioltezza.
Homo faberha modificato radicalmente i connotati del mondo apportando modifiche territoriali, strutturali e climatiche, operando una così potente e onnipervadente trasformazione da determinare un’inaspettata epoca geologica: l’antropocene. La scienza e la tecnica hanno indubbiamente aiutato enormemente la civiltà ma nel contempo la minacciano. Di quali nuovi strumenti necessitiamo per decifrare e affrontare queste nuove sfide? Siamo già attrezzati, e da tempo, se socraticamente sappiamo “condurre l’indagine ancora meglio, sul modo per cui bisogna vivere”, in questo solco socratico sorge spontanea una domanda (Ladomanda) logica ed etica: “ Tecnologia: per fare cosa?”
La Problematica è evidentemente nuova ma ha radici antiche. Come non rammentare l’incipit di Genesi, quando Dio disse: «Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza, e dòmini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra», snodo operativo di tale concezione la troviamo nel tardo medioevo quando Bacone, Prometeo 2.0, prese il fuoco agli dei senza necessità di rubarlo perché autorizzato dal Dio giudaico-cristiano. Ed eccoci ora qui con Dio che è morto e noi col fuoco in mano, poderosi i vantaggi nondimeno i possibili scenari da incubo.

Grazie alle biotecnologie la vita organica dei singoli durerà di più e meglio e forse colonizzeremo altri pianeti se nel nostro le cose si metteranno male. Ma se così sarà (lo sarà?), sarà per tutti o solo per qualcuno? Le tecnologie sono progredite ma la natura umana è sempre la stessa. Non pochi gli indizi profetizzano masse di schiavi che edificheranno, spezzandosi la schiena e lo spirito, piramidi a beneficio di élite di sacerdoti detentori del biopotere, novelli san Pietro con in mano le chiavi del Regno. Il problema non risiede, dunque, nella scienza e neppure nella tecnologia ma nell’uso che ne facciamo:

«Beato chi possiede l'apprendimento della ricerca, non slanciandosi a danneggiare i suoi concittadini né a compiere azioni ingiuste, ma contemplando l'ordine infinito della natura immortale, come si è formato, in che modo; a persone così non si accosterà mai la pratica di azioni turpi.» (Euripide, frammento 910)[1].
Gli astrofisici sentenziano che il mondo sicuramente finirà e di Homo sapiensnon rimarrà segno, tutto sommato un motivo in più per non pestarci in piedi nel tempo che ci è dato. Sono e saranno le scelte etiche e politiche che determinano e determineranno il mondo, il progresso della scienza e delle tecnologie, di per sé neutre[2], amplificano e catalizzano nel bene e nel male le conseguenze delle nostre opzioni etiche. Tutto dipende dal nostro personale scegliere per la volontà di potenza così da sopraffare i nostri simili o per l’amore che ne cura le ferite, ed è cruciale implementare una pedagogia che dimostri la ragionevolezza e il vantaggio di volere e sapere curare, fino al coraggio di affrontare la tragicità del dolore irredento, della sofferenza del giusto e dell'innocente.
Concludo con una mia annotazione. Osservando la nostra civiltà con il metro e i tempi degli astrofisici, consideravo che, dato che di Homo sapiens non rimarrà segno, risulta irrilevante sia la volontà di potenza che schiaccia l’altro, sia l’amore per il prossimo e che una pedagogia che qui poggia insegnerebbe che la vita non ha alcun senso. Nel frattempo (qualche miliardo di anni) è comunque conveniente implementare narrazioni (la religione è una di queste, la Costituzione italiana anche) preferibilmente non bislacche, che resistano alla gloria dell’inorganico. Se senso non c’è lo costruiremo noi con correlate pedagogie.
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1 Improbabile che Rotblat, lo scienziato che rifiutò di collaborare nel progetto nucleare Manhattan, conoscesse l’antico frammento di Euripide, ma dopo Hiroshima lo riaffermò con precisione: “Ricordatevi della vostra umanità, e dimenticate il resto.”
2 Per alcuni versi anche scienze e tecnologie sono prodotti culturali, quindi non neutri: «I fatti non ci sono, bensì solo interpretazioni» (Nietzsche); «I fatti sono carichi di teoria» (Popper); «Così come un popolo sceglie i propri governanti, la teoria conferisce autorità all’osservazione, affinché governi la giustificazione delle teorie» (P. Kosso). Tuttavia tra le tante storie che implementiamo per comprendere il mondo naturale le scienze e le tecnologie permangono tra le più affidabili ed efficienti.

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In questo mio terzo, stringatissimo, resoconto del FESTIVAL DELLA FILOSOFIA D’A-MARE, preavvisando il lettore di proteggersi dal rischio di crampi mentaliprocurati dall’oggettiva difficoltà degli argomenti potenziata dalla mia dappocaggine espositiva, elaboro la relazione del filoso Giorgio Gagliano, che digredendo dal titolo dell’incontro «I molti volti della sofferenza» ha, invece, sviluppato un excursus -per certi aspetti più utile- sul come risolvere la sofferenza.
Gagliano ha seguito un flusso concettuale non una mappa, da qui l’impossibilità di ridirlo senza tradirlo, quanto segue è pertanto un resoconto di quanto l’incontro mi ha evocato. La relazione ha operato su due livelli, uno più speculativo con rimandi al neoplatonismo e alle elaborazioni filosofico-teologiche del monaco cristiano altomedioevale Scoto Eriugena, proponendo nel contempo una ortoprassi nel solco della tradizione buddhista. Va ricordato che anche se per Eriugena Dio è, mentre il buddhismo risulta sprovvisto di Dio, le due concezioni sono più contigue di quanto possa sembrare, basta ricordare che Eriugena concependo Dio superiore sia all'essere che al non-essere lo collocava in sfere di indicibilità (in tali sfere permane sostanza?) squisitamente orientali.
In tali tradizioni la sofferenza (duḥkha) deriva dall’equivocare la realtà nella sua totalità con nostre parziali ed errate interpretazioni di essa. Il punto è che per emanciparci dalla confusione urge oltrepassare le ortodossie logiche che abbiamo appreso (stiamo ancora qui ottemperando lo statuto filosofico?) e introiettato, così da abbracciare senza paura il Caos. Nel Gioco di Brahma L’Uno (neoplatonico) si frammenta in pezzi che si riaggregano nell’Uno, un fiume che scorre (impermanenza), dove ogni goccia d’acqua è il fiume e il fiume è ogni goccia. In questo continuo infinito presente dove tutto è interconnesso, dove il particolare è l’universale e viceversa, “la sofferenza contiene [necessariamente] in sé la soluzione”. Il dovere (Dharma) si esplica, dunque, nel raggiungere la precisa visione delle cose per quello che davvero sono nel sempiterno qui e ora, permanendo in tale consapevolezza.
Va da sé che per dire tali concetti il linguaggio arranca e ogni parola che li esprime già li tradisce. Nella tradizione buddhista per raggiungere e permanere in tale consapevolezza sono pertanto indicati dei percorsi pratici. Gagliano ha quindi illustrato la pratica meditativa dell’osservazione (contemplazione) dei "Quattro Pilastri":
‪Corpo, Sensazioni, Mente, Oggetti della mente.‬
Più precettistici e dualistici rispetto a quanto suesposto, i quattro ‪modi o stili di vita,‬ combinazioni temporali di bene e male che partono dalla più dannosa per arrivare alla più proficua:

1 male presente male futuro (uccidi una persona e andrai in prigione);

2 bene presente male futuro (mangio troppo perché mi piace ma poi sto male);
3 male presente bene futuro (atteggiamento della formica rispetto alla cicala);
4 bene presente bene futuro (questo è raro, ma lo si può ottenere se il sacrificio fatto nel presente per ottenere un futuro migliore lo si fa con piacere);

Così ho udito e così, per quanto sono stato capace, ho scritto.


http://www.brunovergani.it/item/4546-i-molti-volti-della-sofferenza.html#.XM7aqaZS-8U



2 commenti:

Pietro Spalla ha detto...

Grazie Bruno per avermi fatto rivivere e ripensare queste belle giornate di pratiche filosofiche per non filosofi

Pietro Spalla ha detto...

Grazie Bruno per avermi fatto rivivere e ripensare queste belle giornate di pratiche filosofiche per non filosofi