Sul
n. 563 (10 gennaio 2025) di “Società Libera online” ho letto, con
consueto interesse e inconsueto disaccordo, l’articolo, a firma del Direttore
Vincenzo Olita, Cultura Woke e Chiesa Anglicana, Futuro e Chiesa Cattolica.
In esso vengono fedelmente rappresentate, sulla base di dati statistici,
le attuali condizioni di crisi in cui versano le Chiese cristiane e, in
particolare, l’Anglicana e la Cattolica: la prima “si avvia verso l’estinzione”
(“Negli ultimi anni ancor più di 400 chiese hanno chiuso, in molte città
esistono più moschee che chiese e i fedeli sono in netta diminuzione”); la
seconda, la Chiesa di Roma, vive – “ all’infuori del clero sul continente
africano” – un calo continuo di praticanti e di candidati al ministero
presbiterale.
A
quali cause bisogna risalire per spiegare questi sintomi di decadenza?
Olita
non ha dubbi: la radice è “l’abbandono della tradizione cristiana in nome del
politicamente corretto e dell’osanna per la cultura politica woke” (ad
esempio la revisione dei testi liturgici e delle preghiere in generale in cui
si trasmette una visione esclusivamente maschile di Dio) nonché l’abbandono di una concezione sacrale
del cristianesimo a favore di un impegno sociale in “strutture di beneficenza o
enti come Amnesty International”.
Tra
le righe di questa diagnosi s’intravede la terapia suggerita dall’autore: invertire
la direzione di marcia degli attuali vertici delle Chiese Anglicana e Cattolica,
avviati “sullo stesso cammino fallimentare di larghi strati del protestantesimo”
tedesco, e rilanciare quel “patrimonio dottrinale” che “sbiadisce, giorno dopo
giorno”.
Le questioni da approfondire sono
almeno due.
La prima concerne
l’interpretazione della crisi attraversata dalle Chiese cristiane: essa è
dovuta a un aggiornamento eccessivo del patrimonio dottrinario, liturgico,
morale tradizionale o a un ritardo del medesimo aggiornamento? La gente non va
più a messa o non si sposa più in chiesa perché il linguaggio dei preti e dei
teologi è mutato troppo negli ultimi cento anni (risultando spiazzante) o
perché è mutato troppo poco (risultando obsoleto, scarsamente comprensibile,
inconciliabile con la cultura del cittadino medio)? Personalmente non ho dubbi:
il mezzo secolo di studi teologici che coltivo intrecciandoli agli studi
filosofici mi hanno convinto sempre di più che non possiamo mutare la nostra
concezione dell’uomo, della storia, della natura, del cosmo in tutti i campi
del sapere e restare fermi a duemila anni fa quando parliamo con Dio
(trattandolo come Imperatore dispotico) o quando parliamo tra noi di Bibbia o di
dialogo fra le grandi religioni del mondo.
Ma, per comodità espositiva,
ammettiamo che la risposta per cui propendo (ovviamente non da solo, bensì
preceduto da giganti del pensiero teologico come Panikkar, Kueng, Drewermann,
Sartori, Barbaglio, Molari, Ortensio da Spinetoli…) sia errata. Ammettiamo che
una Chiesa ferma ai dogmi, ai precetti, ai divieti, alle formule di preghiera
personale e comunitaria…di settanta o di ottanta anni fa (Olita evoca
nostalgicamente addirittura la “essenza controriformista” di mezzo millennio
fa!) fosse più appetibile, più seducente, più popolare di una Chiesa in
autocritica, talora in vera e propria rifondazione: con che criterio dovremmo
procedere? Dovremmo optare per una Chiesa in grado di raccogliere consensi o
per una Chiesa che, spogliatasi di superfetazioni teologiche e istituzionali,
prova a recuperare il vangelo originario, a sintonizzarsi con il progetto di
Gesù e dei primi discepoli? Dovremmo, insomma, privilegiare la ricerca del
successo o la fedeltà alla verità?
Anche su questa seconda questione
non ho dubbi: se scopro che la mia Chiesa ha accumulato potere e denaro
falsificando l’insegnamento dei profeti, del Maestro e dei suoi apostoli;
seminando promesse illusorie e minacce infondate; imponendo in nome di Dio, sulle
spalle della povera gente, dei pesi inventati da uomini…ho il dovere morale,
prima ancora che il diritto intellettuale, di denunziare l’imbroglio secolare.
Anche a costo che le Chiese storiche, con miliardi di fedeli più confusi che
persuasi, chiudano i battenti e lascino terreno a piccole Chiese costituite da
uomini e donne in sincera, continua, ricerca di ciò che veramente ha proposto
(insieme a tante cose inaccettabili o comunque datate) il filone del profetismo
ebraico-cristiano.
Se il criterio è condivisibile, allora il compito della teologia libera e liberante sarà di risalire, per quanto possibile alle scienze bibliche ma con serietà scientifica e spirituale, al messaggio cristiano dei primi secoli: prima che l’infausta alleanza con l’imperatore Costantino trasformasse in ideologia sociologicamente conveniente una rivoluzionaria proposta di vita più sobria, fraterna, solidale, compassionevole. Verso questo cristianesimo i privilegiati della Terra non potranno nutrire simpatia e, legittimamente, appoggeranno altre versioni ‘sacrali’, ottime come “oppio dei popoli”; ma perché stentano a riconoscerne la fondatezza storica e la valenza salvifica anche persone impegnate con dedizione nella costruzione di una “società libera”?
Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com
* Poiché, in maniera non esattamente 'liberale', il Direttore di "Società libera online" ha preferito non ospitare sulla Sua rivista questa mia 'replica', essa è stata pubblicata da Gianfranco D'Anna su:
2 commenti:
Sono del tutto con te, Augusto. Rifugiarsi nella sacralità e nel devozionismo svuota di contenuto il Vangelo. Proprio questa pratica, purtroppo ancora dominante in molte chiese, ha allontanato molte persone. Per esempio, non si coglie lo straordinario kairòs offerto dall'arrivo dei fratelli migranti.
Il nuovo Papa avvicinerà la chiesa al vangelo originario?
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