PER
IMPERVI SENTIERI. UNA ZATTERA DOPO IL NAUFRAGIO DELLE GRANDI NARRAZIONI *
Post-cristiani fra post-teismo e post-religione
Quando
proprio mi trovo costretto a definirmi, più che “post-cristiano” preferisco
dirmi “oltre-cristiano”: vorrei alludere al fatto che - a differenza di altre persone che, avendo
visto che la proposta tradizionale cristiana non regge, buttano tutto alle
ortiche - mi viene spontaneo cercare di recuperare qualcosa di importante, pur
lasciando cadere senza rimpianti tutte le sovrastrutture, le superfetazioni che
in questi duemila anni hanno appesantito la storia della Chiesa, ma anche la
storia delle coscienze. Che è stata storia di tanti sensi di colpa, di tanti
dubbi atroci, senza contare le sofferenze di tanti e di tante che questi dubbi
hanno esplicitato e sono finiti al rogo.
Questo
tema dell’oltre-cristianesimo lo inserirei nella problematica, comune a molti
di noi, che don Ferdinando Sudati e altre persone amiche ci hanno suggerito di
chiamare “post-religionale” e “post-teista”. I due termini non sono esattamente
identici: sono convinto che ci potrebbe essere un “teismo” post-religioso
(che mantenga l’idea tradizionale di Dio
rifiutando la religione intesa come strutture, istituzioni, dogmi, codici
morali, liturgie, gerarchie…) e, viceversa, ci potrebbe essere una religione non-teista,
che rifiuti l’idea non di un Dio nel profondo della realtà, fondamento
dell’essere, della vita, ma di un Dio posto al di sopra, nell’alto dei cieli,
che da lì ci manovrerebbe come burattini.
Preciso
fra parentesi che questa visione del teismo rifiutata dai post-teisti (o
trans-teisti) [1] non è l’unica possibile: è alquanto caricaturale, però
vale in concreto per le molte persone che dicono di credere in Dio e lo
concepiscono come una specie di super-uomo dai poteri infiniti a cui attribuire
tutti i beni e tutti i mali dell’universo.
A
me capita di lavorare anche negli ospedali, con dei medici e degli infermieri
che si trovano spiazzati quando una mamma che sta morendo di cancro chiede
: “Perché Dio mi ha riservato questo?
Cosa ho fatto di sbagliato?”. E vedo che molti operatori sanitari non hanno
l’attrezzatura intellettuale e teologica per replicare: “Ma signora, perché sta bestemmiando? Chi le
dice che Dio le ha mandato questo cancro?
Perché si sta ponendo il problema di una sua colpa?”
Chiaramente
la responsabilità non è di quella povera donna angosciata, ma della tradizione
ormai bimillenaria che concepisce l’essere umano come un burattino nelle mani
di un super-patriarca: ne Il Dio dei mafiosi ho chiamato questa figura
“il Dio padrino”[1], che dispone in maniera
mafiosa della vita degli esseri viventi, a cominciare dal figlio Gesù che
sarebbe stato mandato nel mondo per essere sacrificato a riscatto di noi umani.
In questi giorni un amico - prete di 94 anni- mi ha proposto di pubblicare un
libro in cui si chiede: se sentissimo dire che un nostro amico ha sacrificato
il figlio per amore dei suoi amici, non chiameremmo l’autoambulanza[2] del manicomio? Non penseremmo che quel povero padre
fosse impazzito?
La
crisi delle “grandi narrazioni”
Il
problema della crisi delle Chiese è interessante, però a mio avviso stiamo
vivendo una crisi molto più radicale. A vacillare sono le fondamenta dei
sistemi culturali su cui si sono basate le principali civiltà mondiali. Le
persone serie si interrogano sul futuro del cristianesimo all’interno di uno
scenario molto più ampio in cui tutte le grandi narrazioni - religiose,
filosofiche, politiche, scientifiche - sono sotto esame. La battuta di Ionesco - “Dio è morto, Marx è
morto e, se devo essere sincero, nemmeno io mi sento tanto bene” – non è solo
una battuta[3] umoristica: dipinge in modo fulminante lo spaesamento
della nostra generazione, abituata ad avere delle mappe chiare, nette (la
marxista, la radicale, la cattolica, la buddhista...), tra cui optare. Si
potevano anche rifiutare tutte, ma non cessavano di costituire dei riferimenti,
sia pur polemici.
Esseri
umani in ricerca
Oggi
quelle mappe sono come evaporate e noi ci troviamo in mezzo al guado: le
certezze di un tempo non ci sono più e al momento non se ne intravedono di
nuove.
In
questa transizione credo che l’atteggiamento più serio sia quello di persone in
ricerca che, da una parte, non si accontentano più della minestra che passano i
conventi, ma, dall’altra, non vogliono neppure piegarsi alla banalità del
sistema capitalista, del ciclo produzione/commercio/consumo. Se rifletto sul
dato che per molte famiglie la domenica è il centro commerciale, viene da
chiedermi se veramente ci sia tutto questo guadagno a non andare più in chiesa
se poi dobbiamo trascorrere la giornata festiva comprando cose inutili,
ingozzandoci di cibi che vengono non si sa da dove, sprecando denaro e
soprattutto rinunziando a occasioni di relazione.
Persone in ricerca, dunque. Ma, in concreto, cosa implica un atteggiamento di ricerca?
Apofatismo
e spiritualità laica
Mi
soffermerei su due componenti.
Innanzitutto
quell’apofatismo di cui parla e scrive Luigi Lombardi Vallauri: un
silenzio rispettoso, intriso della consapevolezza della nostra piccolezza a
confronto dell’universo, di stupore di
fronte al mistero che siamo e che ci abbraccia[2].
Quell’apofatismo che per molti mistici è il momento culminante della relazione
con l’Assoluto: Tibi silentium laus, di fronte a te - che sei la fonte
segreta di tutto - il silenzio è la lode più alta che posso elevare.
Ma
l’apofatismo non va inteso come rinunzia a pensare né, ancor meno, a vivere.
Mentre le grandi navi che ci avevano ospitato, confortevolmente, per secoli
stanno naufragando, penso che diventi
automatico mettersi alla ricerca di una zattera: uno come me, ad esempio, già
settantatreenne, non può rimandare chissà a quando il profilarsi all’orizzonte
di nuovi bastimenti. Ha bisogno già da subito di una bussola, di alcuni punti
fermi su cui contare, sia per la vita personale che per quella degli amici,
della società, della Terra intera. Ma una tale zattera esiste?
L’ipotesi
su cui lavoro negli ultimi anni è che siano rintracciabili alcune – poche –
certezze che possano fare da punto di ripartenza, di rilancio. Se scaviamo
dentro tutte le tradizioni sapienziali, più o meno in crisi, troviamo che
ognuna di esse è un fiume che porta tanti detriti ma anche qualche perla
preziosa. Ciò vale anche per la storia della filosofia dal momento che la
filosofia è stata sempre e soprattutto una proposta di saggezza -[4] un progetto di vita - nonostante, ordinariamente, a
scuola e nelle università venga insegnata come se fosse una materia puramente
teorica. È’ molto recente la figura del filosofo come professore di filosofia
che può dire delle cose con la stessa nonchalance con cui tratterebbe di
matematica o di biologia, ma per secoli
è stato colui che sa non tanto parlare con buona dialettica, quanto
vivere bene: affrontare la vita, la morte, l’amicizia, le relazioni con
consapevolezza, generosità, coraggio, delicatezza, gentilezza.
Ebbene,
queste perle che si trovano in tutte le tradizioni sapienziali dell’umanità,
penso che possiamo raccoglierle in una sorta di collana denominabile spiritualità
laica [3].
Il
filo adatto a collegare, sostenendole, le perle costitutive di una spiritualità
‘laica’ non potrebbe essere che la base antropologica, umanistica, al fondo di
tante religioni, di tante filosofie, di tante teorie politiche. Qualcuno l’ha
individuato nella “regola aurea”: “Non fare agli altri quello che non vorresti
che gli altri facessero a te” o meglio, in positivo, “tratta l’altro come
vorresti che l’altro trattasse te”. Adottando questa[5] regola come criterio discriminante - come una sorta
di lanterna nell’oscurità di una miniera
- possiamo individuare intuizioni, consigli, divieti, appelli presenti in tante
epoche e in tante aree del pianeta. Possiamo così raccogliere, come in uno
scrigno, una costellazione di principi che ci diano indicazioni per la prassi:
mentre discutiamo su religione sì-religione no, su teismo sì - teismo no (tutti
dibattiti interessantissimi), la storia incalza: io, oggi, qui, su cosa posso
fare affidamento? Su cosa posso contare mentre sono costretto a giocarmi
l’unica vita che ho a disposizione?
La
zattera su cui aggrapparci nella transizione la possiamo chiamare in molti
modi: “spiritualità laica” è solo una delle possibili formule con cui nominare
questo nucleo etico elementare, questa grammatica del vivere, questa sintassi
basica senza la quale tutte le altre opzioni filosofiche, teologiche, politiche
suonano false. L’essenziale non è darle un nome quanto apprezzarne la funzione:
se non hai interiorizzato questo galateo; se non hai capito qual è l’ABC delle
relazioni; se misconosci il DNA della vita sociale, veramente poi tutto il
resto è sovrastruttura, chiacchiera, esibizione. Anche se abbracci sinceramente
grandi e nobili cause dell’umanità, la tua voce tradirà un timbro
d’inautenticità se non sgorgherà da questi fondamenti etici, da queste radici
onto-antropologiche.
Hans
Küng ha dedicato tutta l’ultima parte della sua vita a
creare, meglio a scoprire – perché c’è già, potenzialmente, ma sotto montagne
di bugie, istituzioni, dogmi, codici, liturgie– un’etica universale. Il
problema è andare a coglierle queste perle, scovarle e valorizzarle
sperimentandole: il gusto del silenzio; la capacità di ascoltare; di sentire
compassione per chi soffre (e non soltanto per gli altri esseri umani ma per
tutti gli esseri viventi, animali e piante); di ‘patire’ la fascinazione della
bellezza naturale e della bellezza artistica; l’attitudine a scartare cibi –
materiali e simbolici – tossici e ad alimentarci di “cose” sane, che nutrono.
Credo che se affrontiamo la gioiosa fatica della ricerca non possiamo non trovarle queste pepite preziose che – insieme – concorrono a comporre il nostro piccolo patrimonio sapienziale: una lucina sufficiente per andare avanti di pochi passi, quanto basta per sapere dove metti i piedi, pur senza certezze nelle prospettive di lungo periodo. Sono solo alcuni semi, ma se riesci a coltivarli danno senso alla tua vita e contribuiscono – in misura che non ti è dato calcolare- alla vita collettiva e sociale.
Tre
caratteristiche della spiritualità ‘laica’
Anche
se, a questo punto, dovrebbe essere evidente, aggiungo esplicitamente che
questa spiritualità è talmente ‘laica’ da non essere escludente. Non è “contro”
le religioni né “contro” le opzioni politiche: non è “contro” niente, perché
pretende di costituire la base senza la quale tutte le altre opzioni
(teologiche, ideologiche o d’altro taglio) risultano false o quantomeno
sospette.
Come
non esclude ulteriori confessioni di fede né adesioni a dottrine politiche,
così essa non le esige necessariamente. Pretende di essere auto-sufficiente e,
dunque, di poter essere condivisa da atei, agnostici, ideologicamente
perplessi. André Comte-Sponville, nel suo libro Lo spirito dell’ateismo
scrive: “Il fatto di non credere in Dio non impedisce di avere uno spirito, né
mi dispensa dall’usarlo. Possiamo fare a meno della religione (…) , ma non
della comunione, né della fedeltà, né dell’amore. Non possiamo neppure fare a
meno della spiritualità. Perché dovremmo?”[4].
Questa testimonianza dovrebbe prevenire l’accusa che la spiritualità laica, in
quanto spiritualità, sia invasiva e voglia arruolare anche chi ha maturato
posizioni comunemente considerate estranee a qualsiasi spiritualità. No, ci
sono anche atei a sostenere che la spiritualità vale per tutti, sia per chi
crede sia per chi non crede: [6] “Non è perché sono ateo che mi castrerò nell’anima! Lo
spirito è una cosa troppo importante perché lo si lasci in esclusiva ai preti,
ai mullah o agli spiritualisti” insiste lo stesso Comte-Sponville nelle righe
immediatamente successive[5].
Quindi
la spiritualità – intesa come coltivazione del nostro io profondo, impegno nel
far fiorire le nostre potenzialità, cura di tutte le relazioni con la natura e
con gli altri, apertura alla possibilità di sperimentare il mistero – è il
terreno [7] in cui possiamo ritrovare molte convergenze con
persone, gruppi, movimenti da cui ci ritenevamo distanti. E’ l’ambito in cui
possiamo scoprire che ciò che ci unisce è molto più importante di ciò che ci
divide.
E
allora, a mo’ di conclusione, qualificherei questa spiritualità laica con tre
aggettivi.
Il
primo: una spiritualità critica. Non mi fido delle spiritualità fondate
sulla venerazione del guru né esclusivamente sulla tradizione né ancor meno su
dogmi inesaminabili. Esercitare la ragione è, prima che un diritto, un dovere
antropologico. Certo la spiritualità non è solo ragione, è anche sentimento, è
anche azione; ma una cosa è dire che non è solo ragione, altro è dire
che prescinde dalla ragione. Essa è più della ragione di cui, però, non
può fare a meno. [8] Se non è critica, finisce nel fanatismo. E purtroppo
gli esempi contemporanei non mancano.
La
spiritualità laica – abbiamo visto – è intessuta con fili tratti dalle varie
sapienze. Con altra immagine, si potrebbe dire che richiama i pezzi di un
puzzle. A me siciliano, immerso nell’arte islamico-bizantina[9] , evoca un mosaico. La spiritualità che cerco di
delineare, ovviamente come bozza in continua evoluzione, è mosaicale:
ogni tessera è necessaria, ma è l’insieme delle tessere che la valorizza. Ogni elemento, ogni particolare, ogni
dettaglio viene arricchito dalla complementarietà con l’altro. Un mosaico
differente dai mosaici della Cappella Palatina o del Duomo di Monreale che sono
ormai definiti e definitivi: un mosaico aperto perché non finiremo mai di
scoprire le cose vere, belle, giuste da cui lasciarci inspirare. Laicità è anche questa grande apertura, nella
consapevolezza che il [10] mosaico ereditato è sempre da rivedere, da integrare,
da completare: è, potenzialmente, illimitato.
La
spiritualità laica – critica e mosaicale – la qualificherei, infine, pulsante.
Il riferimento iconico è al doppio movimento del muscolo cardiaco: la sistole e
la diastole. La sistole cioè l’interiorizzazione: non può esserci spiritualità
senza il coraggio di guardarci dentro, di fare silenzio, di interrogare il
nostro dolore, le nostre aspirazioni, i nostri desideri profondi… Sappiamo bene
che in questa direzione centripeta il mondo orientale può darci molte lezioni
sul raccoglimento, sulla meditazione, sulla vigile consapevolezza della nostra
interiorità.
Ma
la sistole è in rapporto dialettico con la diastole: l’interiorità con
l’esteriorità, il riflettere su se stessi con l’agire nella storia. E su questo
versante sono fondamentali le tradizioni ebraico-cristiana e islamica.
Dall’ebraismo abbiamo imparato che la vera adorazione del divino è agire per
trasformare il mondo: il “regno di Dio” di cui parla l’ebreo Gesù, al di là
delle mistificazioni clericali che l’hanno ridotto a metafora per indicare un
paradiso nell’altra vita, è invece un altro modo di vivere in questa vita. E’
una proposta agli esseri umani[11] di rifondare i rapporti sociali sulla giustizia, la
fraternità, la libertà.
Qualche anno fa è stato tradotto in italiano il libro di un ex-gesuita, Paul Knitter, Senza Buddha non potrei essere cristiano[6] in cui l’autore racconta come da giovane cattolico avesse imparato la rilevanza della interiorità; come poi il crollo del mondo teologico cattolico avesse comportato il rischio di abbandonare ogni forma di spiritualità; e come da questo rischio l’avesse salvato il buddhismo, scuola di silenzio, di meditazione, di contemplazione. Con tutta la gratitudine verso il mondo orientale Knitter non si nasconde il pericolo che esso possa indurre in tentazioni di segno opposto: l’intimismo, la clausura sterile, la fuga dalla storia. E allora conclude affermando di voler conservare nel cuore tutti gli insegnamenti del buddhismo, ma recuperando l’invito ebraico-cristiano ad agire politicamente per trasformare la società. Così, in modo molto schematico, possiamo dire che non c’è Buddha senza Gesù ma non c’è Gesù senza Buddha, perché non c’è interiorità vivida che non esploda in un’azione sociale, ma l’azione sociale senza un radicamento interiore rischia di essere una confusa agitazione che non incide veramente nel tessuto della storia.
Qualche
esempio di pratica
Non
posso terminare senza aggiungere che questa ricerca la vivo in relazione con
amici e amiche – la mia compagna Adriana in primis - perché convinto che
la spiritualità non possa essere una ricerca soltanto individuale. È’ indispensabile che ci sia una ricerca personale, ma una
spiritualità autentica, completa, non può fare a meno di una dimensione
comunitaria. Ormai sono trascorsi più di vent’anni da quando alcune
persone amiche che mi hanno obiettato:
“Tu parli di modi alternativi di vivere
la spiritualità, ma dove dovremmo sperimentarli? Non certo nelle chiese o nelle
moschee o nelle sinagoghe della città, che molti di noi abbiamo da tempo
cessato di frequentare”. Così, una volta al mese, abbiamo iniziato a
incontrarci a casa di qualcuno di noi per celebrare quella che autoironicamente
abbiamo chiamato “la domenica di chi non ha chiesa”: si inizia con una
meditazione condivisa e si passa, al momento del pranzo con ciò che ognuno ha
voluto portare a tavola, a una fase di convivialità, di allegria, di leggerezza [12] (abbiamo bisogno di festa, anche se non
necessariamente sotto un’etichetta confessionale). Ci vediamo e ci accogliamo a
vicenda alle 11 del mattino; poi ci
regaliamo una pausa di silenzio in cui a turno (sottolineo a turno, in
modo che non ci sia il “guru” fisso che dirige, che tiene le redini della
situazione) uno/una di noi ha un quarto d’ora per suggerire una riflessione. Lo
può fare attraverso una poesia, un brano di romanzo, uno spezzone di film, un
quadro... Poi, in un clima di concentrazione, i presenti, se vogliono, regalano
al gruppo le risonanze suscitate in loro e spesso – non sempre, perché non
tutte le ciambelle riescono con il buco! – si tratta di un momento di grande
sincerità e intensità.
Qualche
volta, durante l’anno, replichiamo questa esperienza anche per un intero
weekend: andiamo in campagna, in qualche fattoria sociale che ci ospita
(particolarmente cara la Fattoria sociale “Martina e Sara” nei pressi di
Segesta) e arricchiamo l’esperimento con musica, danze, alimentazione
alternativa (scoprendo che si può mangiare gustosamente anche in modo vegano).
Oserei dire, se non rischiassi la retorica di basso livello, che in quei pochi
giorni proviamo a vivere, in concreto, il tipo di società che sogniamo.
Dal
2016 varie vicende ci hanno consentito di disporre di un intero appartamento
nel centro della città. Abbiamo potuto così offrire uno spazio – la “Casa
dell’equità e della bellezza” – a chi desideri la possibilità di incontri,
riunioni, seminari, concerti (oltre che ospitalità nella foresteria). Singoli
artisti o formatori o scrittori hanno utilizzato questa occasione e una decina
di associazioni si alternano nel corso delle settimane per i loro appuntamenti.
Come abbiamo scritto nel pieghevole illustrativo, la Casa è un luogo dove studiare,
meditare, fruire della bellezza artistica e impegnarsi
socio-politicamente: dove, insomma, coltivare quattro dimensioni
costitutive di una credibile “spiritualità laica”. Ovviamente non si richiede
nessuna dichiarazione di fede religiosa o filosofica o politica: gli unici
confini, all’interno dei quali il pluralismo è non solo consentito ma
auspicato, sono quelli tracciati dai primi undici articoli della Costituzione
italiana[7].
Augusto Cavadi
ww.augustocavadi.com
* Il testo è costituito dalla trascrizione, con
l’aggiunta solo dei titoli dei paragrafi e dei riferimenti bibliografici in
nota, della registrazione di una conferenza tenuta dall’autore a Villa d’Almè
(Bergamo) il 2 febbraio 2024, su invito
di Gianfranco Cortinovis.
[1] A. Cavadi, Il Do dei mafiosi, San Paolo,
Milano 2009.
[2] L. Lombardi Vallauri, Nera luce. Saggio su
cattolicesimo e apofatismo, Le Lettere, Firenze 2001.
[3] A. Cavadi, Mosaici di saggezze. Filosofia come nuova antichissima spiritualità, Prefazione di O. Franceschelli, Diogene Multimedia, Bologna 2016 (seconda edizione). Il libro è adesso acquistabile anche in formato elettronico al link: https://www.torrossa.com/it/resources/an/5969369
[4] A. Comte-Sponville, Lo spirito dell’ateismo.
Introduzione a una spiritualità senza Dio, Ponte alle Grazie, Milano 2007,
p. 114.
[5] Ivi.
[6] P. Knitter, Senza Buddha non potrei essere
cristiano, Introduzione di L. Mazzocchi, Fazi Editore, Roma 2011.
[7] Cfr. A. Cavadi, Che fare? Esperienze di
spiritualità ‘laica’ nell’epoca delle chiese vuote, Diogene Multimedia,
Bologna 2025.
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3 commenti:
Grazie Augusto, sei stato come una zattera per molti di noi
Augusto, il tuo post è il manifesto che può valere per tutti quelli che, come noi, vogliono ostinatamente mantenere, anche durante questi tempi difficili e interessanti, la fiaccola della spiritualità insieme all' esercizio critico della ragione!
Riflessione interessante e coinvolgente ( almeno per me); mi piace pensare che fra i sistemi motivazionali innati (arcaici e più recenti) ,che guidano il comportamento dell’uomo ( e non solo) di cui ci ha dotato la filogenesi per favorire la vita, quello della cooperazione paritetica, che ha probabilmente dato il via alla consapevolezza e al pensiero condiviso, prevalga su quello agonistico che privilegia l’emergere del singolo e che impone il proprio pensiero la propria “verità” agli altri. Ma c’è un immenso lavoro da fare! Occorre educare alla cooperazione far credere la capacità di mettersi nei panni (nella mente) dell’altro e coglierne i Valori per il bene di tutti.
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