“Il
mio personale rapporto tra violenza e non violenza inizia negli anni Settanta
(…). E’ il tempo della grande contestazione (…). Iniziato che ero un timido
ragazzino, curioso di capire il mondo entro i venti di rivolta che lo
animavano, e concluso da adulto nelle dure lotte del Settantasette col ruolo
riconosciuto di leader del movimento studentesco e col soprannome, sicuramente
significativo, di <<Molotov>>”: così, sin dalla prima pagina, si
presenta Antonio Minaldi, autore del recente Gandhi ad Auschwitz. Elogio
della Nonviolenza (e sue problematiche), Multimage, pp. 99, euro 10,00. “L’adesione
all’ipotesi della lotta armata come strategia politica era lo spartiacque tra
noi che ci consideravamo i veri rivoluzionari e coloro che avevano tradito i
vecchi ideali, consegnandosi al nemico con sbiaditi discorsi riformisti” (pp. 7
– 8). Da allora passa, non invano, mezzo secolo: intreccio di altre esperienze
politiche, di viaggi per il mondo, soprattutto di letture e di riflessione.
L’esito, abbastanza recente, di questo itinerario è l’adesione “alla teoria e
alle pratiche della Nonviolenza” (p. 9), non solo come “scelta di vita” ma
anche come “strumento privilegiato, costitutivo e strategico, di una scelta
politica non qualsiasi, ma ‘rivoluzionaria’, rivolta cioè alla capacità
fattuale di abbattere un potere dominante, violento e armato, votato al sopruso
e alla guerra” (p. 10).
Trovo
molto significativa questa testimonianza del coetaneo Minaldi e – devo
confessare – anche confortante per quanti, sin dal Sessantotto, ci siamo
convinti che la società cui dedicare la totalità delle nostre energie fosse di
“liberi, uguali e fraterni” e che avvicinarvisi con “dittature” più o meno
terroristiche fosse un modo per allontanare la méta (dal momento che senza
“libertà” e “fraternità” tutto ciò che si ottiene è la sostituzione delle
ineguaglianze economiche con le ineguaglianze di potere, pervertendo – per
citare Ignazio Silone – la dittatura del proletariato in dittatura sul
proletariato ). Da allora infatti la nostra posizione di “amici della
Nonviolenza” che non hanno la sfrontatezza di qualificarsi come “nonviolenti” è
stata ed è bersaglio di tiri incrociati: da parte dei “duri e puri” che, di
frazionismo in frazionismo, sono arrivati alla divisione dell’atomo e da parte
dei “realisti” ben inseriti nello status quo (spesso ex-rivoluzionari
pentiti) che ci accusano di ingenuità “utopistica”.
Ciò
premesso e chiarito, mi pare doveroso aggiungere che il lodevole scritto di
Minaldi non è privo di sviste storiche né di lacune né di passaggi molto
opinabili.
Quando
parlo di sviste mi riferisco ad asserzioni come: all’epoca di Marx “il
concetto di Nonviolenza, così come la potenza del femminile, come strumenti di
lotta politica capaci di incidere nei rapporti di forza non avevano ancora
fatto il loro ingresso nella storia” (p. 63). Senza risalire lontano per
millenni sino a Socrate, Buddha, il Taoismo, Gesù e neppure per secoli sino a
Erasmo da Rotterdam , Voltaire e Kant (autori di cui si devono riconoscere
almeno semi rilevanti di rifiuto della logica della gestione violenta dei
conflitti) mi sembra opportuno notare che Marx (nato nel 1818) è stato un
contemporaneo di Henry David Thoreau (nato nel 1817) e di Lev Tolstoj (nato nel
1828): la Nonviolenza, “antica come le montagne” (Gandhi), è stata davvero a
disposizione di chi ha avuto il desiderio di vederla!
Un’altra
svista non secondaria per rilevanza mi pare l’identificazione di
“aggressività” (che è un dato fisiologico, genetico, necessario alla
sopravvivenza del soggetto) e “violenza” (che è un dato patologico, culturale,
nocivo alla sopravvivenza dell’individuo e della sua specie): la violenza e la
nonviolenza sono due modi alternativi di gestire, di canalizzare, di
istituzionalizzare l’aggressività. Dunque non è esatto affermare che “violenza
e Nonviolenza ci appartengono per natura” (p. 70) dal momento che, invece,
tendenze innate (o acquisite nei millenni di storia evolutiva) sono – “in un
continuo mediarsi” (ivi) - la pulsione aggressiva alla competizione e la pulsione alla cooperazione solidale.
Una
delle conseguenze di questa (inesatta) identificazione di “aggressività” e
“nonviolenza” mi pare sia l’affermazione secondo cui - posto che “la guerra”
sia “un dato emblematico dei modi che in ogni epoca storica hanno
caratterizzato la violenza” (p. 73) – “lo scontro armato e le migrazioni
violente e predatorie dei popoli debbano essere considerati come dati senza i
quali la storia umana non si sarebbe neppure resa possibile” (ivi). Ma è
davvero così? Se si concede questa retrospettiva allo storicismo hegeliano non
si dovrebbe condividere la prospettiva della “fine della storia” qualora
l’evoluzione umana ci portasse a escludere come un tabù il ricorso alla guerra?
Direi che la storia umana non sarebbe stata possibile nel passato e non lo
sarebbe nel presente e nel futuro senza conflitti,
senza divergenze di sentimenti e di umori, senza dialettica di idee e di
interessi; ma non senza scontri bellici (o comunque violenti, tesi
all’annichilimento o per lo meno alla sottomissione dell’altro). Senza le guerre
ci sarebbe stata un’altra storia, non
l’impossibilità radicale del configurarsi di una storia. Questa
interpretazione non esclude che, a posteriori, si possa constatare che
le guerre – in sé non necessarie né proficue – abbiano prodotto non “solo morti
e distruzioni”, ma anche “forme di scambio commerciale e culturale”(ivi): si
tratta, appunto, di “effetti di socializzazione secondaria” (ivi) che si
sarebbero potuti ottenere, come si spera possa avvenire quando saremo
progrediti a un livello più alto di civilizzazione, anche senza guerre.
Tra
le lacune mi sembra evidente l’assenza di riferimenti a tesi che ormai
sono ritenute fondamentali per qualsiasi delle possibili versioni della nonviolenza,
quali ad esempio la dicitura satyagraha (“insistenza della verità”) in
coppia, se non in sostituzione, di ahimsa (“non nocenza”). Infatti molti
interrogativi che l’autore si pone non avrebbero, a mio sommesso avviso, ragion
d’essere se si chiarisse che la proposta gandhiana (e non solo) non è soltanto
“negativa” (astensione dall’esercizio della forza fisica e militare) ma anche,
e soprattutto, “positiva” (tentativo di raggiungere la coscienza
dell’avversario affinché accetti di gestire il conflitto senza ricorso alle
armi). Questa mia osservazione specifica può valere, più ampiamente, per
l’intero libro: da un neofita mi sarei aspettato almeno qualche riferimento
alla letteratura primaria e secondaria della ormai sterminata bibliografia
sulla nonviolenza dove molte “problematiche” che la concernono sono state tante
volte focalizzate e (per quanto possibile in un campo così accidentato)
risolte.
Tra
i passaggi opinabili segnalerei, innanzitutto, le righe in cui – più
volte – si contrappone l’opzione della Nonviolenza al “diritto di resistenza”
(p. 47). Qui sarei molto più chiaro: la Nonviolenza o è un modo di praticare la
resistenza o non serve a nulla. Dunque la vera contrapposizione è fra il
“diritto alla resistenza, anche nelle sue forme estreme che possono prevedere
l’uso della lotta armata” (ivi) e il
“diritto di resistenza” con tutte le molteplici tecniche elaborate e
sperimentate sul campo dalla tradizione nonviolenta. Personalmente sono
convinto (per quel che ne so in sintonia con i padri fondatori della
Nonviolenza) che reagire con la violenza a una ingiustizia palese (ad esempio
l’invasione del proprio territorio da parte di un esercito straniero) sia
preferibile all’inerzia passiva; ma che molto preferibile alla reazione
violenta sia la resistenza nonviolenta da parte di una popolazione preparata da
anni a simili eventualità (e dunque allenata agli scioperi, i boicottaggi, la
disobbedienza civile, la renitenza all’arruolamento forzato etc.: va in questa
direzione la richiesta avanzata da anni dal Movimento Nonviolento
dell’istituzione di un “Ministero della pace” che preveda l’addestramento di un
vero e proprio ‘esercito’ per la “Difesa popolare nonviolenta”). Se questo non
si afferma con chiarezza si può dare l’impressione che la Nonviolenza sia
un’ottima soluzione nelle situazioni ‘moderate’, ma vada messa nell’armadio in
attesa di tempi migliori quando il gioco si fa serio.
Queste
incertezze nell’esposizione di Minaldi riflettono, probabilmente,
un’impostazione di fondo per lo meno problematica: la dicotomia fra “etica” e
“politica” e l’attribuzione della scelta nonviolenta essenzialmente alla prima
sfera. In tale scenario, infatti, è inevitabile che certi principi etici – in
sé intoccabili – vadano poi declinati nella prassi storica concreta con
elasticità. Ma è una prospettiva corretta? Personalmente ritengo che l’adozione
della Nonviolenza debba essere, prima di tutto ed essenzialmente, una scelta
pratica, strategica, conveniente utilitaristicamente: non possiamo agganciare a
una determinata visione etica perché l’agganceremmo a un gancio su cui è arduo
trovare consenso lungo i secoli e alle varie latitudini del pianeta. Non c’è
dubbio – e qui valorizzerei il discorso di Minaldi e dei tanti che sul punto la
pensano come lui - che la fedeltà al
metodo nonviolento può essere incoraggiata da certe etiche e scoraggiata da
altre: come non essere d’accordo con l’autore quando inserisce la nonviolenza
come prassi politica in una più ampia prospettiva di rifiuto della violenza nei
confronti della natura (ecocidio), delle donne (patriarcato), delle fasce sociali
sfruttate (capitalismo attuale) e degli
altri animali (consumo delle carni)? Personalmente mi ritrovo in pieno in
questa fondazione etica a trecentosessanta gradi, ma mi guarderei bene dal
presentarla come l’unica accettabile. Il rapporto della nonviolenza con una
certa etica è a mio avviso analogo al rapporto della nonviolenza con una certa
religione: in Gandhi, ad esempio, con il suo induismo. Che è una fede altamente
nobile, se vogliamo particolarmente consona con una postura nonviolenta nel
mondo, ma non certo ad essa legata a doppio filo: si può essere nonviolenti
senza essere induisti (o gianisti o cristiani) e si può essere induisti (o gianisti o cristiani) senza essere nonviolenti.
www.augustocavadi.com
Per la versione originaria illustrata cliccare qui:
https://www.zerozeronews.it/per-una-elaborazione-esistenziale-e-politica-del-sessantotto/
1 commento:
Il percorso che la nostra generazione sessantottina, passando da un movimentismo astratto a una scelta di servizio degli ultimi è nonviolenta e contraria ad ogni forma d violenza. Almeno io mi riconosco in questa senza niente rinnegare.
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